Un paese che si basa sulla pulizia etnica e sulla colonizzazione permanente non può essere definito democratico.
di Joseph Halevi 5 gennaio 2018
Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171
Terza parte
Un paese che si basa sulla pulizia etnica e sulla colonizzazione permanente non può essere definito democratico. In verità nessuna entità statuale ove é in atto una colonizzazione a scapito della popolazione autoctona é definibile come democratica: si veda il caso dell’Australia ove fino al 1967 gli aborigeni, già violentemente decimati durante il diciannovesimo secolo, non venivano nemmeno contati nei censimenti. Eppure l’Australia era considerata una fiorente democrazia, il che significa che il termine è perfettamente malleabile a piacere senza un valore universale. Il settimo capitolo del volume di Pappé si prefigge di dimostrare la fallacia insita nella propaganda americano-israeliana riguardo l’unica democrazia nel Medioriente. Il capitolo é più incisivo di quello precedente appena discusso.
Pappé inizia osservando che la visione di Israele nel mondo, condivisa anche da rispettabili autori palestinesi, é che, dopo la guerra del 1967, il paese pur incorrendo in delle difficoltà con l’occupazione e il dominio sui palestinesi, rimane comunque uno Stato democratico. Scrive però Pappé che anche prima del 1967 in nessun modo poteva lo Stato d’Israele essere considerato democratico; a meno che, aggiungo, non si consideri la democrazia applicabile solo ad una parte della popolazione. A questo punto l’autore passa in rassegna le misure e le politiche di repressione nei confronti dei pochi palestinesi scampati alla Naqba. Nei due anni che trascorsero dalla fine della guerra del 1948-49 il parlamento, la Knesset, incorporò le leggi speciali di emergenza varate dalle autorità britanniche nel 1945 durante gli anni del terrorismo sionista dell’Irgun di Begin e compagnia, ma che non era soltanto una prerogativa della destra bensì vi partecipava anche l’establishment socialista-sionista. (10) La popolazione palestinese rimasta venne sottoposta ad un governatorato militare retto dalle leggi di emergenza, le stesse che al tempo del dominio britannico tutte le organizzazioni sioniste denunciarono come di stile nazista. La conseguenza fu la totale assenza di uno stato di diritto per questa popolazione che in teoria avrebbe dovuto godere di tutti i diritti in quanto formalmente di cittadinanza israeliana. Il governatore militare poteva – in maniera assolutamente insindacabile – requisire case, espellerne ed arrestarne gli abitanti, confiscare terreni, revocare permessi. Il governatore poteva dichiarare delle aree chiuse per motivi di sicurezza rendendo ‘illegali’ casolari e agglomerati di abitazioni palestinesi ubicate dentro queste aree che poi venivano assegnate a insediamenti che per statuto erano esclusivamente ebraici.
Tale pratica continua tutt’oggi con la messa fuori legge di agglomerati beduini nel Negev a sud di Tel Aviv. Accadeva e accade, che dei palestinesi fossero – e siano ancora – condannati per aver violato un’area chiusa di cui erano o sono proprietari. (11) Spesso i villaggi palestinesi erano sottoposti a coprifuoco e fu in queste circostanze che, sottolinea Pappé, alla vigilia della guerra del 1956, accadde il massacro di Kafr Qasim che costò la vita a 49 palestinesi.
Sul villaggio, assieme ad alcuni altri nelle vicinanze, il coprifuoco scattò quando molte persone erano ancora al lavoro nei campi per cui man mano che rientravano, ignare della decisione del governatore militare, venivano uccise dall’esercito israeliano. Tale evento non fu casuale: Pappé scrive che l’eccidio va inquadrato nell’ambito dell’operazione “Talpa”, un piano di espulsione dei restanti palestinesi in caso di un nuovo conflitto con i paesi arabi e il massacro di Kafr Qasim costituiva un test circa la propensione della restante popolazione palestinese a fuggire oltre la linea verde. Malgrado il governo di Ben Gurion avesse cercato di occultare l’eccidio, questo fu portato alla luce del sole grazie all’attività dei deputati comunisti e di un deputato del partito socialista sionista Mapam. Il processo che seguì inflisse delle pene molto leggere seguite da ulteriori condoni.
Gran parte delle leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi passano, senza mai menzionare i soggetti verso cui sono dirette, attraverso il fatto che gli arabi israeliani sono esenti dal servizio militare. Ad esempio, disposizioni riguardo l’usufrutto di servizi sociali o di altri tipi di sovvenzioni includono la clausola che i richiedenti devono aver effettuato il servizio militare. Nella popolazione ebraico-israeliana – la sola che veramente conti dato che gli altri ci sono perché o l’esercito non ha fatto in tempo a cacciarli via o perché sono riusciti a rimanere aggrappati ai loro paesi e/o a nascondersi in villaggi vicini a quelli investiti dal terrorismo dell’Haganà – l’esonero dei palestinesi dall’esercito fornisce la giustificazione circa la natura non razzista delle misure di discriminazione.
Meritatamente Pappé porta a conoscenza del grande pubblico la vera storia dell’esclusione dalla leva dei palestinesi israeliani. A metà degli anni ’50 il governo israeliano mise i palestinesi di fronte alla prova, chiamandoli ai centri di reclutamento dell’esercito. Sollecitati anche organizzativamente dal Partito Comunista d’Israele, che era la maggiore formazione politica tra i palestinesi israeliani e la sola forza di ricostituzione della loro identità palestinese, i giovani in età di leva accorsero in massa con grande sorpresa del governo. Colte in contropiede le autorità non ripeterono mai più l’esercizio ma hanno da sempre usato la falsa scusa del rifiuto palestinese di servire nell’esercito per giustificare le misure discriminatorie.
L’arbitrio del regime militare verso i palestinesi era totale. Non solo i coprifuoco erano ingiustificati e applicati per terrorizzare la popolazione palestinese ma i soldati potevano intimare l’alt e sparare, anche su bambini, in condizioni ‘normali’. Avendo, una parte di quegli anni, vissuto da ragazzo in Israele come figlio di una famiglia dell’establishment sionista socialista, posso dire che la segregazione era totale.
Pappé scrive che il governatorato militare proibiva ai palestinesi l’accesso al 93% del territorio nazionale. Per noi ‘ebrei’ del luogo, Israele era – ed é per gli ‘ebrei’ israeliani di oggi – un paese liberissimo di cui si poteva e si può dire peste e corna fermo restando il fatto che gli ‘arabi’ volevano e vogliono ‘distruggerci’ e quelli rimasti in Israele – una potenziale quinta colonna – dovevano ringraziarci per tollerarli. In ogni caso, la Terra d’Israele è nostra da oltre 3000 anni, eccetera. Noi ‘ebrei’ abbiamo quindi ragione a priori!
Benché sottoposti al regime militare i palestinesi israeliani potevano votare e questo, dal lato propagandistico, cancellava ogni discriminazione. Guardando poi da vicino si scopre che la situazione era ed é assai diversa, ma su questo tema rinvio ad un altro lavoro di Pappé. (12) La situazione, allargando il tema trattato da Pappé, era gravissima per i palestinesi cittadini israeliani di terza o quarta classe col diritto di voto come foglia di fico che copriva la realtà effettiva. L’assenza per loro di uno stato di diritto significava essere esposti ad uccisioni da far west. Ben Gurion era consapevole dello stato di cose e ne era preoccupato non per ragioni di democrazia verso i palestinesi ma perché pensava che gli assassinii compiuti dai soldati verso gli arabi israeliani potessero ripercuotersi sull’immagine di Israele. Di recente Gidi Weitz di Ha-aretz ha riportato alla luce i verbali desecretati di una riunione del consiglio dei ministri del 1951 nella quale Ben Gurion parlò nella veste del suo secondo ruolo, quello di Ministro della Difesa, strabiliando gli stessi ministri:
“Non sono il Ministro della Giustizia, non sono il Ministro di Polizia e non sono a conoscenza di tutte le azioni criminali commesse ma come Ministro della Difesa, conosco alcuni di questi crimini e devo dire che la situazione fa paura specialmente in relazione a due aspetti: 1) omicidi e 2) atti di stupro”. E aggiunse: “persone dello Stato Maggiore mi dicono – ed é anche la mia opinione – che fintanto che un soldato ebreo non viene impiccato per aver ucciso degli arabi, questi omicidi non cesseranno”.
Ben Gurion colse perfettamente l’essenza della dimensione razzista di Israele, allora ancora in formazione ma oggi non più eradicabile su cui la professoressa (Premio Sakharov del Parlamento Europeo) Nurit Peled Elhanan dell’Università ebraica di Gerusalemme, ha scritto pagine preziosissime. (13)
Terza parte (Continua)
fonte: rproject.it
Immagini liberamente inserite da Invictapalestina.
Ringraziamo rproject per l’autorizzazione alla pubblicazione e l’autore Joseph Halevi per un lavoro così impegnativo.
Note
10 E’ indicativo che durante il massacro di Deir Yassin perpetrato dall’Irgun nell’aprile del 1948, una formazione dell’ufficiale Haganà stazionasse a pochissimi chilometri di distanza senza alzare un dito. Le bande criminali ebbero tutto il tempo di esibire la popolazione catturata per le strade di Gerusalemme, di riportarla a Deir Yassin e di sterminarla senza che l’Haganà facesse nulla per impedirlo.
11 Vedi Mondoweiss del 27/12/2017: http://mondoweiss.net/2017/12/israeli-sentences-trespassing/?utm_source=Mondoweiss+List&utm_campaign=32481edf23-RSS_EMAIL_CAMPAIGN&utm_medium=email&utm_term=0_b86bace129-32481edf23398519897&mc_cid=32481edf23&mc_eid=9728f22b82
12 Ilan Papp é, The Forgotten Palestinians: A History of the Palestinians in Israel, New Haven, CT: Yale University Press, 2013.
13 Nurit Peled Elhanan: La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione. Milano: EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2015.