Israele rifiuta questa analogia sostenendo di essere un paese democratico e che l’apartheid era stato istituito per legge in Sudafrica.
di Zohra Credy, 5 febbraio 2018
L’articolo qui sotto fornisce una panoramica del funzionamento della politica di apartheid imposta dall’occupante israeliano. Da quando è stato redatto nel 2016, sono state approvate altre leggi discriminatorie, altre case sono state distrutte, migliaia di alberi bruciati o saccheggiati e le condizioni di vita dei palestinesi si sono deteriorate ulteriormente. [ASI]
di Zohra Credy, dicembre 2016
Apartheid, termine di origine afrikaner che significa separazione, è la parola data alla politica di segregazione razziale praticata dalla popolazione bianca in Sudafrica dal 1948. Ma per estensione apartheid definisce ogni sistema che poggia su una serie di leggi discriminatorie fondate su riferimenti etnici, razziali e religiosi.
Da qualche tempo la parola apartheid è usata da organizzazioni internazionali, analisti politici e associazioni di difesa dei diritti umani per descrivere la politica praticata dallo stato sionista nei confronti dei palestinesi.
Israele rifiuta questa analogia sostenendo di essere un paese democratico e che l’apartheid era stato istituito per legge in Sudafrica. Falsità sostengono gli avversari, l’apartheid sionista è più sofisticato di quello del Sudafrica!
L’apartheid in Sudafrica si basa sullo sviluppo separato delle popolazioni: “La segregazione si teneva sugli aspetti economici, geografici (creazione di bantustan) e sullo stato sociale in funzione delle origini etniche e razziali.”
Se guardiamo alla definizione delle Nazioni Unite di cui alla risoluzione 3068 del 30 novembre 1973, leggiamo quanto segue: “L’apartheid si riferisce a atti umani commessi per stabilire o mantenere il dominio di un gruppo razziale di esseri umani su un qualsiasi altro gruppo razziale di esseri umani e per opprimerlo sistematicamente”.
Alla luce di queste due definizioni cercheremo di vedere fino a che punto l’analogia tra Sudafrica e Israele può essere fatta rispetto all’apartheid?
Iniziamo con la segregazione geografica: esiste questo aspetto nella Palestina storica e qual è la politica israeliana per quanto riguarda l’organizzazione dello spazio tra ebrei e non ebrei?
Anche prima della creazione dello Stato di Israele nel 1947 da parte delle Nazioni Unite, i coloni ebrei vennero a sostituire i nativi palestinesi, e dove gli ebrei si stabilirono la mano d’opera palestinese fu cacciata (1). La logica che anima il progetto sionista non è quindi vivere con i palestinesi, ma a loro danno. È questa logica della negazione dell’Altro, il non ebreo, che determinerà la politica israeliana in Palestina. Ed è su questo punto che la politica sionista differisce dall’apartheid degli afrikaner. Questi ultimi avevano la pretesa di soggiogare la popolazione nera, mentre i sionisti vogliono sradicare i palestinesi dal paese.
Ma non essendo riuscite a sradicare l’intera popolazione – oltre 700.000 nativi palestinesi furono costretti all’esilio nel 1948 e più di 350.000 nel 1967 – le autorità israeliane hanno applicato l’Hafrada, cioè la separazione tra ebrei e non ebrei.
La preoccupazione della politica israeliana è di assicurare che questa separazione sia mantenuta dandosi i mezzi giuridici per farlo, senza rinunciare all’espulsione dell’Altro!
Sebbene l’articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini del 10 dicembre 1948 dichiari nel suo primo paragrafo “Che ogni uomo ha il diritto di muoversi liberamente e di scegliere la propria residenza all’interno di uno Stato” i palestinesi non possono muoversi liberamente a casa loro. Infatti, nei territori palestinesi occupati illegalmente dal 1967 dallo stato di Israele, il movimento di nativi palestinesi – a differenza dei coloni che circolano liberamente – è soggetto ai permessi di circolazione. Questo vincolo imposto ai palestinesi richiama la procedura del “pass” imposto ai neri dal sistema di apartheid sudafricano. Tuttavia, il sistema sudafricano del modello unico di “pass” – nonostante il suo aspetto immorale – è meno crudele rispetto al sistema di segregazione israeliano, con i palestinesi sottoposti a più di un centinaio di permessi (2).
Questi permessi non sono solo una violazione della libertà di movimento dei palestinesi, ma sono anche un mezzo che l’amministrazione israeliana si dà per esercitare il proprio dominio e l’oppressione sulle popolazioni occupate. Essendo questi permessi rinnovabili, soggetti a un lungo processo amministrativo e a un passaggio obbligato dallo Shin Bet, si può facilmente immaginare le pressioni in termini di ricatto, umiliazione, intimidazione e anche di repressione.
In un sistema coloniale che poggia sulla negazione dell’Altro i permessi di movimento aprono le porte alla pulizia etnica. Ciò significa che ai palestinesi può essere negato l’accesso da una località all’altra, come pure in Cisgiordania, a Gaza o persino all’ingresso nel paese. E’ così che tra il 1967 e il 1994 l’amministrazione israeliana ha revocato il diritto di residenza di 140.000 palestinesi in Cisgiordania e di 100.000 palestinesi a Gaza. A volte, tornando al loro paese dopo anni di assenza, i palestinesi, quando non vengono espulsi, imparano a loro spese di avere perso il diritto di residenza nel proprio paese perché l’amministrazione d’occupazione ha cambiato la legge senza preoccuparsi di avvisare gli interessati e violando il diritto internazionale che precisa al paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite che: “Ognuno ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di tornare nel suo paese”. E come non parlare di apartheid quando un ebreo può tornare nel suo paese e un palestinese nato in Palestina perde questo diritto?
Una discriminazione accettata dalla “comunità internazionale”
Il calvario dei palestinesi non finisce con l’ottenimento di uno dei 101 permessi di circolazione esistenti; infatti il loro spostamento da un punto all’altro è soggetto a controlli. Le forze di occupazione non consentono la libertà di movimento dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza (3) in nome della sicurezza dei coloni che si sono installati, non dimentichiamolo, illegalmente.
I palestinesi devono passare attraverso checkpoint sorvegliati dall’esercito israeliano. Ci sono 600 posti di controllo tra cui 120 fissi. Con i check-point volanti ci sono anche altri sbarramenti come le barriere agricole e molti altri ostacoli.
Il numero di posti di blocco può aumentare nei periodi in cui i palestinesi si sollevano contro la dominazione, come abbiamo potuto constatare durante l’intifada di Al-Aqsa o recentemente in quella dei coltelli. Questi posti di blocco, solo per l’immagine che offrono, sono un simbolo dell’umiliazione e dell’assoggettamento dei palestinesi stipati in corridoi recintati con reti metalliche da farli sembrare gabbie dello zoo. Ma nei giardini zoologici gli animali non vengono insultati o maltrattati, mentre i palestinesi vengono umiliati e spesso brutalizzati (4).
Alla luce della risoluzione 3068, questi controlli fanno parte dell’apartheid in quanto queste discriminazioni obbediscono al desiderio di garantire i privilegi e il dominio dei coloni sulla popolazione palestinese non ebrea. Non solo questi controlli da un punto all’altro turbano la vita quotidiana dei palestinesi per quanto riguarda il loro lavoro e la scolarità costringendoli a muoversi la mattina presto per poter arrivare in orario al lavoro o a scuola; ma possono anche perdere lì la loro vita. Succede che pazienti muoiano ai posti di blocco, donne partoriscano nelle ambulanze che le trasportano verso i reparti di maternità o addirittura per terra. Secondo il Centro d’informazione palestinese, tra il 2000 e il 2006, 69 donne hanno partorito mentre aspettavano di attraversare il checkpoint; di queste 5 sono morte per mancanza di assistenza e 35 neonati sono nati morti. Il checkpoint è simbolo di stress e angoscia per i palestinesi i cui permessi possono essere confiscati senza una vera ragione; significa, umiliazione, incertezza, perdita di tempo, perdita di libertà di movimento, a volte perdita della vita! Questo rischio è aumentato dopo l’intifada (rivolta) dei coltelli e dalla routine delle esecuzioni extragiudiziali (5).
Questa forma di apartheid si è aggravata con la costruzione nel 2002 del muro di separazione che isola la Cisgiordania e Gerusalemme da Israele. E’ il secondo muro dopo la barriera elettrificata che circonda Gaza.
Muro di “sicurezza” proclama Israele!
Ciò non toglie che sia un muro simbolo della segregazione e della dominazione israeliana come confermato dalla decisione della Corte internazionale di giustizia che lo considera illegale. A parte l’usurpazione del 16,6% di terre palestinesi agricole e ricche di risorse idriche, il tracciato del muro che segue la linea verde solo per il 20% del suo percorso ha inglobato il 45% delle terre agricole palestinesi. Un buon modo per assoggettare i palestinesi che si vedono costretti a passare attraverso l’autorizzazione delle autorità israeliane per andare a lavorare nei loro campi. Infatti, a causa del muro, villaggi sono privati del 60% dei loro terreni agricoli come a Qaffin. Altre aree palestinesi sono completamente chiuse, isolate sia dalla Cisgiordania che da Israele; come la città di Qalkilya – che si trova tra la linea verde e la barriera – 260.000 palestinesi sono rinchiusi in enclave. Altre centinaia devono avere un permesso per abitare e raggiungere le loro proprietà (400.000). A Gerusalemme Est, 200.000 si trovano dall’altra parte del muro. Si noti che 80 checkpoint separano i palestinesi dai loro campi!
Il muro ha ulteriormente consolidato la frammentazione della terra per creare veri bantustan! Le aree di insediamento palestinesi sono separate le une dalle altre. Migliaia di palestinesi sono tagliati fuori dalle aree urbane. Gerusalemme è isolata, la metà della popolazione della Cisgiordania non ha alcuna possibilità di pregare alla moschea di Al-Aqsa mentre i coloni la profanano sotto il controllo benevolo dell’esercito!
Israeliani e Palestinesi vivono sempre più separati. Le strade utilizzate dai coloni sono proibite ai palestinesi; è infinitamente peggio dell’apartheid afrikaner dove non ci sono mai state strade riservate ai neri in Sudafrica! Questa politica di separazione degli spazi ha reso città come Balata e Al Khalil delle vere città assediate. Al Khalil (Hebron) è una città testimone dell’apartheid israeliano, dove 200.000 palestinesi sono ostaggio di un migliaio di coloni ebrei. Nel nome della sicurezza dei coloni, Israele blocca strade, caccia i palestinesi da interi quartieri. Il centro della città vecchia di Al Khalil è chiuso da oltre 17 anni come 500 negozi, di cui solo 70 sono stati autorizzati a riaprire quest’anno.
Questa Hafrada non si applica solo ai palestinesi nei territori occupati illegalmente dal 1967 secondo la risoluzione 242 delle Nazioni Unite, ma anche a 1 milione e 600.000 cittadini israeliani musulmani e cristiani che vivono in Israele.
Questa discriminazione sociale si manifesta nella disparità di trattamento tra la popolazione ebraica e quella palestinese. La prima beneficia di privilegi di cui la seconda è totalmente privata. La discriminazione più ingiusta è incontestabilmente contenuta nella legge del ritorno. Mentre Israele rifiuta questo diritto ai profughi palestinesi dell’esodo o dei territori occupati nel 1967, come pure ai cittadini palestinesi di Israele ai quali è proibito di tornare nelle proprie case e villaggi di origine da cui fuggirono nel 1948, gli ebrei di tutto il mondo hanno il diritto di stabilirsi in Palestina. Questa segregazione ha raggiunto il suo culmine quando nel 1970 fu adottato un emendamento alla legge sul ritorno che stabilisce che il diritto al ritorno si estende ai “figli e nipoti di un ebreo, al suo coniuge e al coniuge di un figlio o nipote di un ebreo – tranne a chi, ebreo, abbia di sua spontanea volontà cambiato religione”. Questa legge del ritorno porta in sé le stimmate dell’apartheid. Stabilisce il dominio di una popolazione su un’altra, l’esistenza di una popolazione sull’esclusione di un’altra!
Questa discriminazione si ritrova in quanto riguarda il matrimonio, la legge israeliana stabilisce la discriminazione rifiutando ai coniugi palestinesi di cittadini arabi israeliani, così come ai loro figli, il diritto di residenza. Si nega loro il diritto a una vita familiare normale, mentre il coniuge di un ebreo che non ha nessuna radice in Palestina, come abbiamo già visto, ne beneficia. Discriminazione anche perché sono validi solo i matrimoni celebrati da e davanti a un tribunale rabbinico che istituisce e mantiene il sistema etno-teocratico.
Le disparità di trattamento tra ebrei e non ebrei che vivono in Israele sono enormi. Innanzi tutto a livello dell’habitat Israele non ha costruito nessun villaggio o città araba mentre la popolazione è passata dai 160.000 abitanti che erano rimasti nel 1948 (i palestinesi che poterono rimanere al momento della creazione dello Stato di Israele) al più di un milione e 600.000. Solo 7 distretti sono stati costruiti nel Negev per ricollocare i “profughi” beduini espulsi dalle loro proprietà.
Nei territori occupati la costruzione di alloggi è soggetta all’approvazione delle forze di occupazione che la concedono col contagocce. Ma di fronte alla crescita demografica i palestinesi sono costretti a costruire senza permesso, correndo così il rischio di ritrovarsi per strada con le case distrutte dall’occupante sionista. Nell’area di Gerusalemme circa centomila palestinesi vivono sotto questa minaccia. Dal 2001 al 2004 sono state distrutte circa 5000 case. Il ritmo ha avuto un’accelerazione dagli attacchi con i coltelli di soldati israeliani.
Dall’occupazione di Gerusalemme nel 1967 sono stati costruiti solo 14.000 edifici, mentre ne sarebbero occorsi altrettanti all’anno, essendo la popolazione passata da 70.000 a 285.000. In parallelo il numero di permessi di costruzione continua a crescere per i coloni in Cisgiordania e in particolare a Gerusalemme dove sono stati concessi 3.690 permessi nel 2011 secondo l’ONG israeliana “Peace Now”. Nella Cisgiordania occupata illegalmente, la progressione nelle costruzioni dei coloni ha raggiunto il 20% nel 2011 rispetto al 2010, secondo la stessa fonte.
La discriminazione colpisce anche le infrastrutture e la qualità dei servizi pubblici, nei quartieri e nelle città arabe in Israele dove le infrastrutture sono spesso completamente assenti. Il servizio di raccolta rifiuti non è garantito e talvolta le fogne sono a cielo aperto! Il budget stanziato per i comuni arabi è meno della metà di quello stanziato per i comuni ebraici. Nel Negev le località abitate dagli arabi palestinesi non beneficiano di alcuna infrastruttura, lo stato è totalmente assente. Questa realtà è in netto contrasto con quella delle comunità ebraiche cui vengono offerti tutti i servizi. Sebbene paghino le tasse, gli arabi israeliani vengono trattati come cittadini di seconda e persino di terza classe dopo i falascia!
Questa politica di segregazione si ritrova al livello dell’istruzione e dell’insegnamento. Lo Stato di Israele sostiene l’insegnamento della popolazione scolastica ebraica e finanzia il 100% delle scuole. Tuttavia, pur riconoscendo le scuole cristiane che ospitano studenti cristiani e musulmani, lo stato finanzia solo il 29% del costo totale di una scuola elementare, facendo assumere il resto dei finanziamenti ai genitori degli alunni: “È una questione di disuguaglianza, un bambino ebreo israeliano ha diritto al 100% di istruzione finanziata dallo stato e le nostre scuole no, anche se il nostro insegnamento è uno dei migliori in Israele”, deplora il padre francescano Abdel Massih Fahim, direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa. Nel Negev, 5.000 bambini palestinesi non vanno a scuola perché alcune località sono completamente prive di infrastrutture, scuole comprese. Per questi bambini la scuola più vicina si trova a 20 o 25 km di distanza, distanza difficile da percorrere ogni giorno specialmente quando mancano mezzi di trasporto ed economici.
La discriminazione sociale dei palestinesi si estende anche ad altre aree quali l’occupazione. Il privilegio all’accesso alla funzione pubblica è riservato ai soli ebrei visto il numero irrisorio di nuovi assunti non ebrei. Il tasso di disoccupazione è molto alto. Le prospettive per il futuro bloccate. La precarietà è evidente con il 78% degli arabi israeliani che vive al di sotto della soglia di povertà, percentuale che sale all’83% per i bambini.
Nei territori palestinesi, la violenza dell’occupazione e l’espansione delle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est gravano drammaticamente sull’economia palestinese e di conseguenza sul mercato del lavoro: “I pesi combinati dell’occupazione persistente e delle colonie non hanno permesso lo sviluppo di un’economia palestinese produttiva e vitale che potesse offrire sufficienti opportunità di lavoro dignitoso.” scrive Guy Ryder, direttore generale dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro).
Secondo il rapporto dell’OIL, la disoccupazione sarebbe aumentata del 25% nel 2014 rispetto al 2013 per attestarsi al 27%; questo tasso sale al 40% per i giovani uomini e al 63% per le giovani donne. A Gaza il tasso medio di disoccupazione è doppio rispetto a quello della Cisgiordania, è di 58,1 per i giovani uomini e dell’83,5% per le ragazze (15-24 anni). Queste cifre sono allarmanti quando sappiamo che il 70% dei palestinesi ha meno di 30 anni (7).
Questa disoccupazione, la più alta del mondo, frutto della politica di dominazione fornisce una mano d’opera molto a buon mercato all’economia israeliana. Gli accordi collettivi non sono sempre rispettati. I palestinesi, osserva il rapporto dell’OIL, “lavorano in condizioni non regolamentate che possono essere precarie e assomigliano allo sfruttamento”.
Lavorare in Israele dovrebbe rimanere una scelta per i palestinesi, ma è diventata una necessità a causa delle restrizioni che ostacolano l’economia palestinese.
Abbiamo già menzionato le restrizioni imposte dal sistema di dominazione sionista alla libera circolazione dei palestinesi. Al di là dei disagi nella vita quotidiana delle persone, come abbiamo visto le conseguenze di queste restrizioni sono incommensurabili per l’economia. I checkpoint, i coprifuoco e la chiusura di località sono tra le prime cause del marasma economico nei territori occupati. Queste restrizioni fanno sì che i lavoratori perdano ore e intere giornate per recarsi sul posto di lavoro, il che rende difficile per le aziende organizzarsi e funzionare normalmente a causa di ritardi e assenze non intenzionali dei dipendenti. Per avere un’idea della paralisi causata da questa politica, citiamo due esempi: nel 2003, ci sono state a marzo 403 ore di coprifuoco a Nablus e 678 ore a Hebron in gennaio!
Questa disorganizzazione delle aziende porta ad un calo della produttività e di conseguenza a un aumento dei costi di produzione del 33%, secondo François Courbe. Ma non è finita! Il divieto dell’uso di reti stradali riservate ai coloni che costringono i palestinesi a percorrere lunghe distanze insieme al sistema di trasbordo che richiede che le merci vengano scaricate dai camion ai posti di blocco e ricaricate su altri camion dall’altra parte, aumenta il costo dell’80%!
Tra il 1993 e il 1996, periodo segnato da una “possibile pace” i blocchi costarono all’economia palestinese più di 2,5 miliardi di euro e il tenore di vita medio calò del 36%. Possiamo così misurare l’entità dei danni in tempi di tensioni!
Questa frammentazione dello spazio economico è aggravata dai privilegi accordati agli ebrei a spese dei palestinesi privati di due importanti fonti di ricchezza dell’economia: la terra e l’acqua.
Fedele al principio del sionismo che è stato costruito sulla negazione del palestinese, la carta dell’Agenzia ebraica stabilisce che le terre “sono la proprietà inalienabile del popolo ebraico”. Una vera politica di apartheid è in atto. Pertanto, sono stati creati 36 tra leggi e regolamenti che consentono la confisca delle terre palestinesi. Tali, la legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950, che ha permesso la confisca di case, terre e altre proprietà da 750.000 a 900.000 palestinesi costretti all’esilio; il mancato riconoscimento del diritto al ritorno; il mancato riconoscimento della legge ottomana basata sul diritto di costume; la legge sulle zone militari; la legge sugli spazi verdi; la legge sull’assenza (la terra che non è stata arata per tre anni consecutivi dà luogo a un sequestro).
E’ così che l’Israeli Lands Authority e il Fond national juif controllano il 93% delle terre. Gli arabi israeliani non possiedono che il 3% delle terre della parte della Palestina storica che è diventata Israele secondo la partizione delle Nazioni Unite. Più di un terzo della popolazione israeliana occupa oggi terre e abitazioni di profughi palestinesi, che sono state annesse tra il 1948 e il 1954 senza alcuna forma di risarcimento.
La concessione delle terre obbedisce ad una politica segregazionista. La concessione è di 48 o 98 anni per gli ebrei e di un solo anno per i non ebrei. È una legge perniciosa per escludere gli arabi israeliani! Inoltre, il Fondo Nazionale Ebraico affitta le sue terre esclusivamente agli ebrei. Nei territori palestinesi occupati nel 1967, Israele praticherà la stessa politica segregazionista nei confronti dei palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza in violazione del diritto internazionale e degli accordi di Oslo. Le forze di occupazione perseguono una politica sistematica di confisca di terre. Con l’ordinanza militare 378, un terzo del territorio della Cisgiordania è stato dichiarato zona militare, e l’ordine militare 364 stabilisce che le terre dichiarate “terre di Stato” non possano essere lavorate che da contadini israeliani e vietate all’accesso dei palestinesi. Con la legge sulle riserve naturali in cui nessuna attività agricola può essere svolta dai palestinesi siamo alla metà dei rimanenti territori palestinesi che così viene ancora rubata. Nell’area C che rappresenta il 60% della Cisgiordania, divisa in 3 settori A, B, C, solo l’1% delle terre è riservato alla pianificazione a beneficio dei palestinesi.
Dal momento che la terra è una questione fondamentale per la costruzione del progetto sionista si è fatto di tutto per espropriare il palestinese e rovinarlo a tutto beneficio del colono ebreo.
Come non parlare di apartheid? Quando il colono ebreo ha tutti i diritti e il contadino palestinese è soggetto a leggi discriminatorie? Infatti il palestinese non può piantare un albero nella zona B e C senza il consenso delle forze militari d’occupazione, consenso che può trascinarsi per anni! Non solo l’occupante non incoraggia la piantagione, ma sradica. Così tra il 1993 e il 2001 sono stati estirpati 282.000 alberi, di cui 81.000 ulivi. Da quando il numero è dovuto aumentare gli attacchi dei coloni sono continui. Secondo l’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo), nel corso del 2013, 10.142 alberi produttivi sono stati bruciati, estirpati o saccheggiati dagli attacchi dei coloni.
Inoltre, il palestinese non può scegliere le sue colture. La legge gli vieta di coltivare prodotti in concorrenza con i prodotti israeliani. Il palestinese è anche soggetto alla legge sull’esportazione. In effetti, l’esportazione di prodotti palestinesi può essere effettuata solo dopo la commercializzazione e la vendita di prodotti israeliani, “quando i prodotti arrivano a poter attraversare il confine, sono marci, avvizziti o cattivi e non sono più commerciabili” (8).
I palestinesi crollano sotto il peso delle costrizioni e non possono far fronte ai benefici concessi ai coloni. I prodotti agricoli palestinesi sono banditi dalla vendita a Gerusalemme Est, riservata ai soli prodotti delle colonie ebraiche.
Per misurare l’impatto devastante delle leggi di segregazione sull’economia palestinese occorre sapere che nel 1967 la Cisgiordania esportava l’80% delle verdure e il 45% della frutta. La produzione era paragonabile a Israele. Ma dagli anni ’80, con l’occupazione e la politica di assoggettamento queste esportazioni sono in calo per le ragioni che abbiamo già esaminato, ma anche e soprattutto per la mancanza di accesso a una risorsa principale della vita: l’acqua.
I coloni ebrei prima di tutto, è il leitmotiv della politica idrica israeliana
L’acqua è un’importante sfida della politica israeliana. Non per considerazioni economiche come si potrebbe pensare, ma piuttosto per considerazioni ideologiche. Il settore agricolo israeliano è trascurabile visti i rapporti economici, rappresenta solo l’1,6% del PIL. Ma l’acqua contribuisce ad alimentare l’immagine della terra promessa trasmessa dal discorso messianico sionista: il deserto diventato paradiso per il popolo eletto. Per questo motivo, dall’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, le grandi riserve idriche sono state dichiarate “bene nazionale” la cui gestione è stata confiscata alle comunità palestinesi locali e affidata ai comandi militari sionisti. Lo sfruttamento delle risorse, la modernizzazione delle infrastrutture, la perforazione di pozzi sono tutti soggetti a una richiesta di autorizzazione. Tuttavia, le richieste vengono sistematicamente respinte.
I coloni controllano tutti gli accessi all’acqua. Pompano 45 milioni di mcubi all’anno mentre i palestinesi usano solo il 10% dell’acqua disponibile nel territorio. L’acqua è un’arma nelle mani di questo nuovo apartheid, hanno scritto in un rapporto i parlamentari francesi della Commissione Affari esteri nel 2011. Certo, è apartheid, 450.000 coloni usano più acqua di 2, 5 milioni di palestinesi. Inoltre, e nonostante il diritto internazionale, viene data priorità ai coloni in caso di siccità. Dall’inizio del mese di Ramadan, un’interruzione idrica sta completamente assetando la Cisgiordania e Gaza dove non c’è più acqua potabile. A Gaza tutte le riserve d’acqua sono state bersaglio di bombardamenti nel 2014, come tutte le altre infrastrutture.
L’acqua è un’arma usata da Israele per attuare la sua politica perniciosa di apartheid e pulizia etnica. Il settore agricolo, importante nell’economia palestinese, è sotto perfusione. Sta morendo e i campi abbandonati per la mancanza d’acqua saranno confiscati.
Alla fine di questo studio, sembra difficile non parlare di apartheid. Tutte le leggi sioniste tendono a promuovere la supremazia degli ebrei rispetto ai non ebrei sia nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele che dei palestinesi nei territori occupati. Sempre più voci israeliane si stanno alzando per denunciare gli eccessi della politica d’apartheid. Ilan Pappé, Gideon Levy, Amira Haas e Ronit Matalon che ha scritto: “Viviamo oggi sotto un regime d’apartheid. Come possiamo chiamarlo diversamente quando costruiamo strade riservate agli ebrei.”(9)
Ma questa osservazione non è fatta solo dagli intellettuali. In un sondaggio condotto dall’istituto Dialogo in Israele, il 58% degli israeliani intervistati ritengono che lo Stato conduce una politica di apartheid [secondo Gilad Atzmon è peggio dell’apartheid, nldr] contro gli arabi. Tuttavia, a differenza degli intellettuali dissidenti citati sopra, la società israeliana si radicalizza guidata dalla retorica del sionismo messianico. Secondo un sondaggio pubblicato nel 2012, realizzato dalla Fondazione Avi Chai, il 70% degli ebrei israeliani si considera un popolo eletto. Avendo la legge divina dalla loro, sono affrancati da tutte le leggi umane! Gideon Levy nota che sempre più “la religione è lo Stato e lo Stato è la religione” (10).
Esiste una forte somiglianza tra la visione dei missionari afrikaner e il “popolo eletto ebreo”. Questa visione contiene in sé tutti i germi del dominio dell’Altro e della superiorità sull’Altro, quindi l’apartheid.
In nome della religione e di un ideale messianico, la politica segregazionista continua coperta da certi discorsi religiosi, come quello della Torat ha Melekh (La Tora del Re), che chiede l’uccisione preventiva di bambini, donne e uomini non ebrei che potrebbero rappresentare una potenziale minaccia per gli ebrei. Non è questa una legittimazione dei crimini extragiudiziali di palestinesi? Un incitamento alla violenza senza limiti dei coloni? Al dominio dell’ebreo sul non ebreo?
Israele ha istituito un sistema di apartheid, subdolamente pernicioso e molto più sofisticato dal punto di vista amministrativo, ma, nella sua forma, peggiore del precedente apartheid degli afrikaner. In Sud Africa, non c’erano né strade separate, né targhe d’immatricolazione riservate ai neri, né la strumentalizzazione della Shoa per coprire l’orribile volto dell’apartheid.
Shlomo Sand ha scritto: “C’è un elemento di disuguaglianza nel fatto stesso di definire lo stato come stato ebraico”. (11) Nella Palestina storica, l’ebraicità si sta consolidando. E anche l’apartheid!
Zohra Credy | Dicembre 2016
(1) Zohra CREDY, Histoire de la Palestine
(2) Chaim LEVINSON, Haaretz, 23 dicembre 2011.
(3) Gaza è sotto blocco illegale dal 2006. Su un’area di 380 km2. Quasi 2 milioni di persone sono bloccate dal blocco israeliano. Le condizioni di vita sono inumane.
(4) Machsom Watch: associazione composta da donne che vanno ai checkpoint per testimoniare e inviare i loro rapporti alle organizzazioni internazionali.
(5) Gideon LEVY, “In Israele e nei territori occupati, il più grande pericolo è la routine” Haaretz, 14 gennaio 2016
(6) Jean-François COURBE, Les conséquences du conflit sur la situation économique et sociales des territoires palestiniens occupés, Confluence Méditerranée, 2005/4, N° 55.
(7) Relazione annuale dell’OIL sulla situazione dei lavoratori dei territori occupati per la riunione della commissione dell’OIL a Ginevra il 1° giugno 2015
(8) Stefan DECONINCK, l’agricoltura e il conflitto israelo-palestinese
(9) Ronit MATALON, “Viviamo sotto un regime di apartheid” Le Monde, domenica 10 gennaio 2016
(10) Gideon LEVY, Haaretz, 29 gennaio 2012
(11) Shlomo SAND, “A chi appartiene lo Stato? Haaretz, 10 ottobre 2006
Traduzione Simonetta Lambertini – invictapalestina
Fonte: https://arretsurinfo.ch/israel-et-lapartheid/