Copertina – Fayez e Muna Taneeb raccolgono fagiolini in uno dei loro polytunnel (serra di plastica) – foto Alice Gray
di Alice Gray,10 febbraio 2015
Fayez al-Taneeb è un uomo energico con una visione di comunità resiliente e sostenibile. E’ un agricoltore biologico, un sindacalista e un attivista del Comitato popolare contro il Muro e le Colonie che ha resistito con forza per diversi decenni al dislocamento dalla sua azienda.
Ritiene che la Permacultura – strategia di progettazione integrale di vita e agricoltura sostenibile – che ha avuto origine in Australia nel 1970 e trova sempre più seguito a livello mondiale, costituisca una componente importante di qualsiasi strategia palestinese di resistenza non violenta.
Un lungo viaggio
La Fattoria Hakuretna (che possiamo liberamente tradurre in “Fattoria Giardino”) si trova nella città di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania ed è divisa in due dalla Barriera di separazione israeliana – l’insieme di muri di cemento, filo spinato, strade militari e fossati che corrono su e giù per i territori occupati palestinesi che spesso separa comunità e famiglie palestinesi l’una dall’altra o, come in questo caso, agricoltori dalla loro terra.
Ospita anche incontri internazionali di esperti di permacultura e giovani palestinesi che costituiscono un momento per lo scambio di informazioni e l’apprendimento – il progetto si chiama “Campus globale”.
La storia di Fayez dimostra quale sia il ruolo dell’agricoltura nella cultura della resistenza palestinese, oltre a mettere in evidenza le lotte che gli agricoltori palestinesi affrontano quotidianamente.
” Quando ero giovane non volevo fare il contadino”, ha detto Fayez ad al-Araby al-Jadeed. “Volevo studiare, nel 1979 avevo vinto una borsa di studio per andare a studiare nell’URSS, ma quando cercai di partire gli israeliani mi arrestarono al confine e mi impedirono di lasciare il paese. Allora trovai lavoro in una fabbrica.
“Ho ereditato la fattoria nel 1984. All’inizio non me ne importava nulla – per 6 mesi non ho fatto niente, ma poi i soldati israeliani si sono trasferiti sulla terra e hanno iniziato a usarla come campo di addestramento. Ho capito che l’avrei persa se non la lavoravo, così ho comprato alcune attrezzature di base e ho iniziato”.
Sabotaggio e occupazione
“Nei primi sei mesi l’esercito ogni giorno veniva e sabotava la mia attrezzatura. Io però non ho ceduto e alla fine di quel periodo, quando ho mietuto il mio primo raccolto, ho capito il potere del coltivare. Mi sono innamorato dell’agricoltura!”
Ma i problemi di Fayez non erano finiti. Nello stesso periodo bulldozer israeliani lavoravano ogni giorno accanto alla sua terra per costruire una fabbrica della società Geshuri Advanced Technologies che produce prodotti agrochimici.
“Si sono trasferiti qui perché era troppo pericoloso e la gente in Israele si lamentava,” dice.
La pratica di localizzare industrie inquinanti su terra palestinese è comune. I permessi sono più facili da ottenere e il governo israeliano è pronto a promuovere le imprese al di là della Linea Verde, che delimita la linea del cessate il fuoco del 1948. La manodopera palestinese locale è anche più economica.
Ci sono attualmente 12 aree industriali israeliane e centinaia di fabbriche situate all’interno della Cisgiordania. Questo perché la maggior parte della normativa ambientale israeliana o non si applica o non viene applicata nei territori occupati, facendone “un paradiso per i reati contro l’ambiente che incide sulla vita da entrambi i lati della Linea Verde”, secondo Gidon Bromberg, direttore esecutivo di EcoPeace Middle East.
“Non ci siamo resi conto di quanto la cosa fosse grave fino al 1989, con il khamseen (vento del deserto) quando la direzione del vento si inverte”, ha detto Fayez ad al-Araby al-Jadeed. “Una mattina siamo venuti giù alla fattoria e abbiamo trovato che tutto il terreno era bianco di una polvere sospinta fin qui dalla fabbrica. Tutte le nostre colture erano morte”.
Dopo questo avvenimento, Fayez ha iniziato a lavorare con i suoi vicini da entrambi i lati della Linea Verde per intentare causa alle fabbriche chimiche. L’azione non ha avuto successo, ma ha realizzato qualcosa di importante:
“Se non ho potuto cambiare le fabbriche, almeno ho potuto cambiare me stesso e la mia azienda agricola,” dice. “E’ stato allora che ho smesso di usare prodotti chimici: i Palestinian Agricultural Relief Committees mi hanno aiutato a costruire serre per proteggere i miei raccolti dall’inquinamento e nel 2000 tutta la mia produzione era biologica”.
Ma poi è iniziata la seconda intifada, e una nuova serie di problemi ha cominciato a tormentare i Taneebs e la loro azienda agricola.
“La fattoria è stata demolita dagli israeliani tre volte durante l’Intifada, e poi nel 2003 l’hanno recintata con filo spinato. Si è dovuto aspettare fino al 2005 per tornare sulla terra e da allora il Muro è stato costruito proprio su terreno della fattoria. Abbiamo perso 20 dunum dei 32 che avevamo – il 60% della nostra terra! Ora dobbiamo affittare la terra dal nostro vicino”, dice Fayez.
Il caso dei Taneebs non è unico. La barriera, di cui l’85% è costruito su terra palestinese anziché seguire la Linea Verde, isola migliaia di contadini palestinesi dalle proprie terre. Stop the Wall stima che, una volta completato il Muro, 78 fra villaggi e comunità palestinesi saranno isolati in vari modi, interessando oltre 266.000 persone.
La permacultura di resistenza
Ma la battaglia è lungi dall’essere conclusa per quanto riguarda Fayez. Nel 2005 si è unito al ‘Comitato popolare locale contro il muro e gli insediamenti’ e ha finito con il collaborare con un certo numero di compagni per coordinare una “Passeggiata lungo il muro” per attivisti pacifisti internazionali. Molti di coloro che parteciparono provenivano dal “villaggio della pace” di Tamera, una comunità sostenibile che si trova in Portogallo.
“È stato allora che sono venuto a conoscenza della permacultura e a comprendere il suo potenziale: da Tamera ho ricevuto il messaggio che acqua, cibo ed energia sono disponibili per tutta l’umanità se si lavora seguendo le leggi della natura”, ha detto Fayez al-Araby al -Jadeed. “Questo è un potente strumento di resistenza, perché acqua, cibo ed energia sono cose che Israele non vuole che controlliamo”.
Fayez, ispirato dalle nuove idee che aveva conosciuto, ha intrapreso un lungo viaggio per il mondo per saperne di più sulle tecnologie sostenibili. Ha visitato Giappone, Stati Uniti e 15 paesi europei.
“Ho imparato molto in quel viaggio”, dice. “E sono diventato parte di una rete internazionale in continua evoluzione, ora sto lavorando per portare queste idee in Palestina e condividerle”.
Oltre a diventare un attivista della permacultura, Fayez continua a essere attivo nella lotta legale contro le violazioni di Israele. Nel 2004 ha fatto parte della delegazione palestinese all’Aia, contribuendo a ottenere la sentenza sull’illegalità del Muro.
Ha anche presentato con successo davanti a un tribunale di Londra una causa contro le fabbriche chimiche, in cui si è stabilito che sono illegali e dovrebbero pagare un risarcimento. Ma le fabbriche non hanno accettato la sentenza.
“Israele si considera al di sopra della legge – ma continueremo a provarci”, ha detto.
Su questo fronte, sembra che ci possa essere qualche motivo di cauto ottimismo. Secondo gli esperti legali che partecipano a uno studio sull’ingiustizia ambientale in Palestina organizzato da al-Haq (una ONG legale) e dalla Heinrich Boell Foundation, la legge internazionale sull’ambiente può fornire una potenziale strada per perseguire con successo Israele attraverso canali internazionali.
Secondo Benjamin Pontin della Bristol Law School, le recenti mosse palestinesi per ottenere l’adesione a istituzioni delle Nazioni Unite come l’UNESCO e il loro riconoscimento come stato non membro dall’Assemblea Generale, forniscono quella base legale per perseguire Israele che prima mancava.
“Israele è firmatario di molti trattati ambientali che non sta rispettando”, ha detto a una conferenza a Ramallah il 1° dicembre di quest’anno. “Sono abituati ad essere perseguiti per infrazioni alla legge sui diritti umani, ma non sono pronti a difendersi da procedimenti penali ai sensi della legge ambientale. Questo fornisce un possibile mezzo per ottenere i diritti dei palestinesi”.
Che sia vero o no, Fayez resta ottimista sul fatto che nel lungo periodo la sua strategia di resistenza trionferà.
“Israele si sta uccidendo con le proprie mani”, ha detto con convinzione. “Noi palestinesi siamo molti – troppi per cacciarci. Quando sono violenti nei nostri confronti perpetuano una cultura della violenza e, nell’attaccare il nostro legame con la nostra terra, assieme alla cultura che stanno cancellando distruggono l’ambiente. E’ solo questione di tempo.”
Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina