FOTO – Ulivi palestinesi sono spesso attaccati da coloni israeliani, ma spesso volontari li ripiantano [Anadolu]
di Alice Gray, 12 maggio 2017
Il 5 giugno di quest’anno segnerà il 50° anniversario di occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
I palestinesi hanno sopportato decenni di occupazione militare, colonizzazione e oppressione istituzionalizzata in quello che è il conflitto più lungo nella storia recente – ma la creatività, il coraggio e la capacità di recupero della comunità di fronte a questo assalto furioso ha ispirato generazioni di attivisti di tutto il mondo.
Le radici di questa capacità di recupero si trovano nel profondo della lingua e della cultura, secondo il dott. Munir Fasheh, un professore di matematica e formazione, e un visionario di spicco nella comunità radicata che si sta organizzando nella Cisgiordania palestinese.
Macaulayismo nell’educazione palestinese
“Sono stato ingannato per gran parte della mia vita”, dice Munir, seduto a gambe incrociate su un materasso sul pavimento di una tenda, rivolgendosi a una coorte di studenti di permacultura in una sessione su “radicamento” durante un recente corso al Mashjar Juthour, un eco-parco vicino a Ramallah.
“Credevo che la realizzazione e l’appagamento arrivassero attraverso il conseguimento di qualifiche da parte delle istituzioni, ho conseguito il mio Master in matematica e il dottorato in Formazione – ad Harvard – e sono diventato un insegnante di matematica all’Università di Birzeit, e credevo di essere un giovane uomo molto intelligente e di successo.
“Il mio campanello d’allarme è arrivato da mia madre analfabeta, che era una sarta – cuciva vestiti per le donne. Mi rendevo conto che con tutte le mie conoscenze e le mie qualifiche, la sua matematica era più complessa della mia, dovendo occuparsi di tutte le dimensioni del corpo di una donna che non potevo né modellare né capire. Questo mi ha indotto a rivedere quello che pensavo di sapere sull’educazione, sulle istituzioni e sul potere”.
Ha continuato la sua riflessione: “Mi sono reso conto che gran parte di ciò che ci viene insegnato dalle istituzioni educative si basa su autorità, competizione e sui concetti di vinci e controlla nel dibattito o semplicemente di essere “migliori” degli altri.
“Mi sono anche reso conto che questi concetti culturali erano importazioni occidentali, imposte dagli inglesi come metodo per controllarci, e che non avevano nulla a che fare con la nostra cultura indigena. Erano stati studiati per rendermi orgoglioso di essere uno schiavo”.
Secondo Fasheh questa strategia di controllo ha le sue radici nella colonizzazione britannica dell’India, dove Macaulay, nella sua posizione di Segretario del Consiglio di Controllo dal 1832 al 1833, formulò una strategia per minare scientente la cultura indigena attraverso la cosiddetta “educazione” in uno scenario di divide et impera in cui la gerarchia e le nozioni di superiorità erano imposte alla popolazione nativa.
Nel suo ‘Minute on Indian Education’, pubblicato nel 1835, scrisse:
“Al momento dobbiamo fare del nostro meglio per formare una classe che possa fare da interprete tra noi e i milioni che governiamo – una classe di persone indiane per sangue e colore, ma inglesi nei gusti, nelle opinioni, nella morale e nell’intelletto”.
Continua nello stesso testo col denigrare il valore della cultura e dell’apprendimento orientale, sostenendo:
“Non ho mai trovato uno studioso orientale che potesse negare che un solo scaffale di una buona biblioteca europea valesse l’intera letteratura nativa dell’India e dell’Arabia”.
Così le politiche educative di Macaulay erano basate non solo sulla volontà di controllare la popolazione nativa, ma anche sul presupposto della superiorità innata dei modi di pensare occidentali, e quindi sulla giustezza morale del colonialismo. Questa ideologia “tossica”, secondo Fasheh, è incorporata nel sistema di istruzione formale importato in Palestina sotto l’egida del mandato britannico, mentre il suo antidoto si trova all’interno delle strutture culturali che sono innate nel popolo arabo.
Mujawarrah e resilienza della comunità
“Mujaawarrah è una parola araba che non ha una traduzione diretta in inglese”, dice Fasheh. “Un’approssimazione del suo significato potrebbe essere ‘vicino’, ma questa è solo un’approssimazione e in realtà non ne coglie il significato.”
E’ andato avanti a chiarire: “All’età di sette anni, sono diventato un profugo insieme a tutti gli altri membri della mia famiglia. Otto di noi vivevano in una stanza a Ramallah. Le condizioni erano estremamente difficili, ma lo ricordo come un tempo pieno di amore e nutrimento, sia tra i membri della mia famiglia che con i nostri vicini. Questa è l’essenza di Mujaawarrah: un gruppo che ha deciso di stare insieme e sostenersi a vicenda senza gerarchia o competizione, usando le risorse a disposizione.”
Munir Fasheh lasciò il suo lavoro alla Birzeit University nel 1989 e avviò il Tamer Institute for Community Education, applicando i concetti che stava sviluppando di Mujaawarrah a modelli educativi in cui i giovani formavano gruppi di apprendimento non gerarchici per esplorare i concetti attraverso la lettura e la discussione. Ha continuato ad essere un membro del Centro per gli studi mediorientali dell’Università di Harvard, applicando modelli educativi simili per creare l’Arab Education Forum.
“Mujaawarrah è una forma di apprendimento che opera nella libertà e non nella paura e funziona in combinazione con altri concetti chiave all’interno della lingua araba”, spiega Munir. “Forse due dei più importanti sono Muthenna e Ijtihaad.”
“Muthenna è un concetto molto bello che potrebbe essere tradotto col significato di ‘senza la tua esistenza la mia esistenza non ha senso’. Si riferisce alla relazione tra due persone, in cui ciascuna mantiene la propria singolarità ma opera in relazione con l’altra, dove la relazione diventa parte integrante di ciascuno e ognuno è cambiato da essa. Contrariamente alla formulazione di Descartes ‘penso, dunque sono’, Muthenna ci dice ‘tu sei, quindi io sono’.
“Ijtihaad significa ‘l’indagine indipendente di significato’ dove la conoscenza non è qualcosa che viene consumato, un motore chiave di controllo, ma è sviluppata dagli individui nel contesto della discussione, riflessione ed esame del sé”.
Mujaawarrah nella prima Intifada
“I Comitati di vicinato formati dai palestinesi durante la Prima Intifada sono un grande esempio di Mujaawarrah in azione”, continua Munir, “e la reazione degli israeliani lo dimostra. Li odiavano. Avevano paura di loro perché le persone organizzavano da sole la propria educazione, cominciavano a impegnarsi nell’agricoltura in comune, a risolvere i propri problemi come comunità – e non potevano essere controllate.
“All’epoca a loro (gli israeliani) non importavano le conferenze internazionali a Gerusalemme che denunciavano la chiusura delle istituzioni educative, ma emettevano dure ordinanze militari contro i comitati di quartiere perché minacciavano il loro controllo”.
Come molti attivisti palestinesi, Munir si lamenta dell’erosione dello spirito intraprendente della Prima Intifada, quando così tante comunità avevano trovato la capacità di autorganizzare atti di resistenza efficaci.
“Da allora questa forza culturale è stata erosa da diversi fattori”, dice. “Gli accordi di Oslo e l’istituzionalizzazione del cosiddetto ‘sviluppo’ sono tra questi, così come lo sono il capitalismo e il consumismo”.
Aisha Mansour, direttrice della Dalia Association, una fondazione palestinese per lo sviluppo guidato dalla comunità, concorda:
“In un certo modo è stato facile per i palestinesi resistere all’occupazione perché era così ovvio – sembra un controsenso, ma sentirla in realtà ci rendeva più forti. Ma la cultura di dipendenza creata dalla comunità internazionale di sviluppo dopo Oslo è molto più insidiosa”, ha detto a The New Arab.
“Mina e indebolisce le comunità che dovrebbe aiutare”, continua. “Penso che questa possa essere una strategia deliberata.”
Mansour fa l’esempio dello sviluppo agricolo dopo Oslo, che ha promosso un’agricoltura ad alta produzione sostituendo i metodi tradizionali di coltivazione e i semi del patrimonio con ibridi F1 e prodotti agrochimici, creando vulnerabilità e dipendenza, nonché un mercato prigioniero dell’industria biotech.
“È come una seconda occupazione”, dice.
Resuscitare Mujaawarah
Dalia Association è una fondazione popolare, che cerca di responsabilizzare le comunità a prendere il controllo dei propri affari nelle proprie mani e creare il cambiamento che vogliono per se stessi.
“Diversamente dalla maggior parte delle altre organizzazioni di sviluppo, non consideriamo dover dire alla gente cosa deve volere”, afferma l’energica e vivace Mansour.
“Aiutiamo a organizzare incontri dove le comunità possono decidere per se stesse, e poi cerchiamo di sostenerle nella creazione dei risultati a cui aspirano. Cerchiamo di costituire la maggior parte dei nostri fondi dal basso in modo da creare un qualcosa che sia veramente resiliente.”
Le idee di Munir Fasheh hanno apparentemente avuto un forte impatto sulla struttura organizzativa del gruppo.
“Ci piace ascoltare i consigli di Munir”, continua Aisha. “È importante avere queste conversazioni su chi siamo e da dove veniamo, che le nostre azioni siano informate dalla filosofia e essere costantemente alla ricerca del miglior modo di fare le cose e imparare dalle nostre esperienze”.
Munir Fasheh, oltre ai movimenti di base in Palestina, indica gli eventi di piazza Tahrir al Cairo e del Parco Gezi di Istanbul come esempi della resurrezione di Mujaawarrah da parte dei movimenti di resistenza nella regione.
Nonostante le battute d’arresto subite dagli attivisti di base a causa dell’intervento di regimi autoritari, sia Fasheh che Mansour vedono la speranza in questi nuovi movimenti:
“Quello che è successo è stata una sorpresa anche per quelli che erano lì. Non era pianificato dalla mente ma veniva dal cuore – una manifestazione del miracolo della vita e delle sapienze comuni radicate. Senza saggezza, la vita sulla Terra è condannata. Mentre distruggere è facile, proteggere la vita richiede sapienza, tempo, pazienza e fiducia”, ha scritto Munir Fasha in un articolo pubblicato nel novembre 2013.
Aisha Mansour fa eco a questo sentimento.
“Il cambiamento è così – non è qualcosa che accade in una notte”, ha detto a New Arab. “Ci vuole lavoro, tempo e pazienza. Ci vuole Mujaawarrah.”
Alice Gray è un’ecologa, consulente di permacultura e scrittrice. Per saperne di più sui suoi articoli per The New Arab qui. Seguila su Twitter: @ alicemarygray1
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina
Fonte: https://www.alaraby.co.uk/english/indepth/2017/5/12/the-roots-of-resilience-in-palestinian-culture