L’occupazione israeliana considera mio padre, l’attivista nonviolento Munther Amira, una minaccia per il sistema di apartheid, perché diffonde speranza nella nostra comunità. Copertina: L’esercito israeliano arresta Munther Amira durante una manifestazione in sostegno di Nariman e Ahed Tamimi. Betlemme, Cisgiordania, 27 dicembre 2017 (Credit: PSCC)
Sono nata in un’epoca in cui la gente credeva che l’occupazione israeliana sarebbe presto finita. In seguito alla firma degli Accordi di Oslo, mio padre confidava che, prima che io iniziassi la scuola, non ci sarebbe stata più alcuna occupazione israeliana. Sono passati molti anni. Oggi ne ho 23 e mi sono laureata da poco in Giurisprudenza. Ma mio padre, Munther Amira, oggi è in un carcere israeliano.
Mio padre è coordinatore del Popular Struggle Committee ed ex Segretario Generale della Palestinian Union of Social Workers and Psychologists (sindacato palestinese degli psicologi e assistenti sociali, n.d.t.). I soldati israeliani l’hanno arrestato più di un mese fa a Betlemme, per aver manifestato contro la decisione degli USA di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Da allora, un tribunale militare israeliano trattiene mio padre in carcere, anche se non riescono a provare nessuna delle accuse infondate contro di lui.
Ovviamente, Israele non confesserà mai i veri motivi del suo arresto. Sanno che mio padre è innocente, ma vogliono costringere lui e tutti i palestinesi ad accettare la negazione sistematica dei nostri diritti. Israele continua a colpire i palestinesi che resistono e combattono contro l’occupazione in ogni modo e con ogni mezzo: facendo appello al diritto internazionale, promuovendo il BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, n.d.t.), o semplicemente manifestando nelle strade. Nel caso di mio papà, il tribunale militare israeliano sta mandando un messaggio di intimidazione a tutti coloro che, anche in modo nonviolento, sfidano il regime israeliano di apartheid e scendono in strada per chiedere libertà e giustizia.
Il giudice militare si sarà sicuramente infastidito quando mio padre ha dichiarato che, secondo il diritto internazionale, Betlemme non è parte di Israele e quindi lui non aveva bisogno del loro permesso per manifestare contro la decisione di Trump. Sono altrettanto certa che il giudice si sia ugualmente arrabbiato quando mio padre ha detto che l’occupazione israeliana sta solo incoraggiando altra violenza. Dopo lunghi interrogatori che hanno privato mio papà del sonno, coloro che ne avevano ordinato la carcerazione saranno sicuramente rimasti delusi, perché ha mantenuto la sua ferrea morale anche davanti alla corte.
Mio padre sta facendo ciò che chiunque dovrebbe fare in una situazione di ingiustizia: resistere. Ma non è sempre facile, per noi, accettare i rischi che corre lui per la libertà e la vita. Quando è stato arrestato, infatti, avrebbe dovuto essere in ospedale: aveva la febbre alta per una grave infezione, oltre a soffrire di ipertensione. Anche se era ben conscio del rischio, era fermamente convinto che fosse suo dovere partecipare a quella manifestazione, nonostante le sue condizioni. Mia madre è molto forte e ha aiutato me e i miei quattro fratelli a non perdere la speranza. I più piccoli, Youmna, di 12 anni, e Mohammad, di 8, non vedono l’ora di sapere quando potranno abbracciarlo di nuovo. Capiscono che viviamo sotto un’occupazione dispotica, ma non si capacitano del fatto che partecipare a una manifestazione possa essere il motivo dell’arresto di nostro padre.
Youmna e Mohammad frequentano la scuola del Convento salesiano di Cremisan, situato in una bellissima valle in cui Israele sta espandendo i propri insediamenti e costruendo il muro di annessione. Qualche anno fa, un prete del luogo decise di manifestare contro tutto questo, organizzando una messa all’aperto ogni venerdì. E così ci siamo uniti a nostro padre nella preghiera per la giustizia e la pace. Esperienze come questa hanno fatto crescere ancora di più la mia ammirazione per mio padre, perché ci ha insegnato che ognuno di noi ha un ruolo nella nostra lotta per la libertà. Il che significa anche che una musulmana come me si unisca a una preghiera cristiana, e abbiamo assistito anche a questo, nelle manifestazioni per la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme lo scorso luglio, quando cristiani e musulmani hanno pregato insieme.
Mentre gli Stati Uniti minacciano di sanzioni la nostra gente, e mentre l’Europa continua a coccolare Israele, l’occupante continua a credere che non pagherà alcun prezzo. Comunque, l’occupazione israeliana non riuscirà a corrompere la nostra dignità o a spezzare la nostra volontà.
Dopo una vita sotto occupazione israeliana, questa esperienza servirà solo a rendere mio padre più forte. L’occupazione israeliana considera mio padre, un attivista nonviolento, una minaccia per il sistema di apartheid, perché diffonde speranza nella nostra comunità. Grazie al suo insegnamento, io aspiro a diventare un avvocato per i diritti umani, e noi continueremo ad organizzare le nostre comunità, a manifestare e fare campagne finché la Palestina non sarà libera.
Quando sono nata, tutti si aspettavano di avere uno Stato indipendente. Non so se la libertà stia per arrivare o no. Ma ho imparato da mio padre che abbiamo il diritto di perseguire i nostri diritti. Consideratela la testimonianza di una figlia orgogliosa il cui padre è detenuto in un carcere israeliano per il “crimine” di credere in una Palestina libera.
L’autrice è una giovane palestinese del campo profughi di Aida, Betlemme. Si è da poco laureata in Giurisprudenza all’Università palestinese di Al Ahliyya e le piacerebbe specializzarsi in Diritto Internazionale Umanitario.
Traduzione di Elena Bellini