La visione dell’Occidente del mondo musulmano è completamente sbagliata. Non si può concepire il mondo musulmano come un blocco uniforme. Le disparità politiche, storiche e gli sviluppi socio-economici hanno prodotto realtà differenti legate all’emergere di stati o stati nazionali. Non possiamo parlare di statuto della donna musulmana, ma di statuti delle donne musulmane. Le disparità e le realtà da un paese all’altro sono enormi. La realtà è così complessa da non poter essere ridotta a dei cliché.
di Zohra Credy, 25 novembre 2018
Lo statuto della donna è una questione che alimenta i dibattiti in Oriente e in Occidente. Ciò che colpisce è come in entrambi i campi il discorso sia riduttivo. In Occidente si parla di Islam, come se l’Islam fosse uno. Il dogma non viene imposto ovunque e allo stesso modo in tutte le società musulmane. L’Islam è stato attraversato da diverse correnti e continua ad essere oggetto di molteplici interpretazioni. In Oriente, il discorso islamico tende a ridurre l’Islam a un codice che governa lo stato della donna e ancora di più con gli islamisti quando si tratta dell’abbigliamento. Lo stesso giurista che dopo aver bevuto il suo bicchiere di vino può tornare in tribunale e legiferare sulla base di leggi religiose!
Schizofrenia? Forse!
È intorno allo statuto della donna che il dibattito tra modernità e tradizione si cristallizza da più di un secolo. Le tecno-scienze hanno imposto una certa modernità alle società arabo-musulmane e si ha l’impressione che in questa lacerazione tra modernità e tradizione alcuni cerchino di confinare la donna nel suo ruolo di custode della tradizione islamica mentre altri puntano alla sua emancipazione.
In primo luogo affronteremo lo statuto della donna come definito dalle fonti della legislazione musulmana. I giureconsulti si sono rivolti al Corano e alla sunna o agli hadith del Profeta Muhammad per stabilire la sharia (la legge). Va notato che nell’Islam sunnita, che riguarda l’80% dei musulmani nel mondo, sono emerse quattro scuole di giurisprudenza a partire dal IX secolo.
Come si presenta dunque questa situazione dopo la Shari’a e che posto conferisce alla donna nelle società musulmane?
1-Il matrimonio
La legge musulmana accorda il diritto a ogni uomo maggiorenne e sano di mente di potersi sposare liberamente con la donna che ha scelto. Invece una donna che soddisfi le stesse condizioni non beneficia di questo diritto. È il suo tutore legale che ha il diritto di sposarla. Solo i giureconsulti della scuola Hanéfite addolciscono questo vincolo concedendo alla donna il diritto di decidere di sposarsi, comunque previo consenso del tutore legale. Esistono due tipi di tutela, la tutela dei vincoli: verginità per le donne, l’essere impubere nei ragazzi, follia, comportamento frivolo delle donne. E la tutela d’associazione che fa dell’accordo della donna e del suo tutore una condizione per concludere il matrimonio. La donna musulmana non ha il diritto di sposare un non musulmano. Invece l’uomo musulmano può sposarsi con una non musulmana, i giuristi si basano su un versetto coranico “Lecite sono per voi le donne (muhsanat) del numero delle Credenti e le donne (muhsanat) del numero di coloro alle quali la Scrittura è stata data prima di voi”. (1)
2-Poligamia
“Sposate quante donne vi piace, due, tre o quattro, e se avete paura di non essere imparziali, prendetene solo una …”. Secondo questo versetto coranico della Sura delle “donne”, l’Islam non obbliga il musulmano a sposarne più di una, ma gli permette di sposarne quattro.
3-Il divorzio è un diritto esclusivamente maschile
4 L’eredità
L’Islam accorda alla donna metà della parte di un uomo, una ragazza erediterà la metà della parte ereditata dal fratello. Il sistema dell’ereditarietà è molto complesso, è trattato nella sura “Le donne”, ma per riassumere si può dire che questo sistema è agnatizio e favorisce sempre gli eredi maschi dal lato paterno. È particolarmente ingiusto verso la moglie che perde suo marito, eredita solo 1/8 se ha figli e solo ¼ se non ce ne sono. Molte donne, là dove viene applicata la sharia, alla morte dei loro mariti si trovano in situazioni difficili e talvolta drammatiche.
5-La testimonianza
Il testo coranico è inequivocabile “Richiedete la testimonianza di due testimoni presi fra i vostri uomini! Se non ne trovate, prendete un uomo e due donne tra quelli che gradirete come testimoni: se una di loro è in errore, l’altra la farà ricordare”.(2) I giureconsulti hanno apportato ulteriori restrizioni alla testimonianza della donna in materia di divorzio, matrimonio, affari legati al crimine, all’apostasia e all’onore.
6- L’uso del velo
Questo è un argomento che solleva un grande dibattito e ci torneremo, per ora vediamo cosa dice la legge musulmana che si basa su questo versetto tra gli altri “O Profeta! Di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle mogli dei Credenti di stringere su di sé le loro offese. Dio è assolutore e misericordioso”(3). Emerge da questo versetto coranico che il velo appare come un segno di distinzione sociale. In Persia, questo era già il caso, le donne ricche indossavano un velo per distinguersi da quelle di condizioni più modeste. Ma i giureconsulti lo renderanno un obbligo per tutte le donne musulmane basandosi su degli hadith del profeta. Il velo, detto hijab, in arabo riveste un significato più ampio rispetto al pezzo di stoffa che copre la testa (foulard) perché il velo, il suo uso e il modo in cui viene indossato varia da una scuola di giurisprudenza ad un’altra. Alcuni teologi musulmani impongono il velo integrale che copre il viso e le mani mentre altri permettono alla donna di scoprirli. Non svilupperò le argomentazioni dei giureconsulti per l’imposizione e la generalizzazione dell’uso del velo soprattutto in ambiente urbano, mi accontenterò dell’argomento più avanzato: la donna deve coprirsi perché è fonte di tentazione per l’uomo e quindi di discordia.
7-I doveri della donna
L’inferiorità della donna in relazione all’uomo traspare anche attraverso l’affermazione della superiorità dell’uomo sulla donna che non sarebbe altro che una creatura secondaria creata per soddisfare i suoi piaceri e vegliare sul suo benessere. Essendo inferiore, gli deve obbedienza. La disobbedienza della donna al suo sposo è quasi paragonata secondo un hadith del profeta alla disobbedienza a Dio: “Se mi fosse stato dato di ordinare a qualcuno di inchinarsi davanti a qualcuno diverso da Dio, avrei certamente ordinato alla donna di inchinarsi davanti a suo marito. Da colui che detiene l’anima di Muhammad nelle sue mani, proclamo che la donna non può adempiere al suo dovere verso il suo Dio prima di adempiere a quello dovuto al marito”(4).
Questa inferiorità, che sottintende la preminenza dell’uomo sulla donna, la sottomette a un certo numero di doveri: non muoversi senza l’autorizzazione del marito, non lavorare senza il suo consenso, perché la donna deve prima adempiere ai nobili compiti a cui è votata: padrona di casa, moglie e madre.
Si noti che questo statuto ha prevalso fino alla fine del XIX secolo. È l’emergere nel mondo arabo-musulmano dei movimenti riformisti e di una rinascita culturale (la Nahdha) ispirati dalla filosofia dei lumi che toccherà di nuovo la questione della donna e si interesserà al posto che deve avere e il ruolo che deve svolgere. Questo movimento riformista, che ha cercato di adattare l’Islam a una certa modernità, ha prodotto diverse correnti e ha avuto un impatto diverso da una società all’altra, a causa del patrimonio storico, politico e culturale di ciascun paese.
Il discorso sullo statuto della donna musulmana è appropriato? Mi sembra che alla luce delle realtà sociali la risposta sia no!
La visione dell’Occidente del mondo musulmano è completamente sbagliata. Non si può concepire il mondo musulmano come un blocco uniforme. Le disparità politiche, storiche e gli sviluppi socio-economici hanno prodotto realtà differenti legate all’emergere di stati o stati nazionali. Non possiamo parlare di statuto della donna musulmana, ma di statuti delle donne musulmane. Le disparità e le realtà da un paese all’altro sono enormi. La realtà è così complessa da non poter essere ridotta a dei cliché. Gli esempi che presenteremo rendono bene conto di questa diversità di statuto e vissuto delle donne. A livello giuridico e per semplicità possiamo dire che ci sono almeno 3 statuti che prevalgono all’interno del mondo arabo-musulmano!
1-Il modello rigorista saudita
Il wahhabismo, dottrina di Stato del regno saudita, uscito dal ramo più fondamentalista del sunnismo, non accorda alcun diritto alla donna. La donna è considerata minore dalla nascita alla morte. Rimane sotto la tutela del padre, del fratello, del marito o del figlio. (*) La sharia come sopra descritta è applicata alla lettera. Se soltanto non si trattasse solo di sharia! Infatti la donna saudita è sottoposta al doppio giogo di una legislazione religiosa discriminatoria e di un codice morale tradizionalista senza legittimità islamica. Proibire a una donna di guidare un’auto, di andare a scuola, di avere i suoi documenti di identità o una copia del suo certificato di matrimonio, di lavorare e anche di ricoprire l’incarico di ministro non ha alcuna giustificazione religiosa agli occhi dei giureconsulti delle quattro scuole dell’Islam classico. Sono i teologi wahhabiti e le tradizioni che hanno deciso di portare l’oppressione della donna ai massimi livelli spogliandola dei suoi diritti più elementari.
2- Uno statuto intermedio ma discriminatorio
Nonostante le velleità riformiste dell’Algeria nel 1984 e dell’Egitto nel 1985 (**) il codice di famiglia mantiene la donna in una condizione di inferiorità. In entrambi i paesi la poligamia viene conservata anche se la legge cerca di regolarla imponendo delle condizioni. Secondo le modifiche apportate alla legge islamica, il marito deve informare la prima moglie della sua intenzione di convolare a seconde nozze! Certamente non è un gran passo in avanti, ma questa disposizione consente di evitare i terribili shock emotivi alle donne che per caso vengono a conoscenza del secondo, terzo e quarto matrimonio dei loro mariti! Tuttavia, questa disposizione non altera lo statuto di inferiorità della donna. Infatti, date le condizioni oggettive di vita, poche donne hanno la possibilità di opporsi al secondo matrimonio dei loro mariti e lo subiscono spesso con dolore. Inoltre il divorzio rimane privilegio maschile, se il marito ha il diritto di rompere il matrimonio come crede, la moglie al contrario può presentare la domanda solo in casi ben precisi. In Egitto il nuovo codice di famiglia mantiene il ripudio, la legge obbliga il marito solo a registrarlo da un notaio competente e a inviare la notifica di divorzio alla moglie entro un periodo non superiore a un mese. Il diritto di affidamento concesso alla moglie-madre fino a quando i suoi figli raggiungono una certa età è soggetto a restrizioni. In Algeria il lavoro della donna può costituire motivo di revoca del diritto di affidamento e di nuovo matrimonio, anche in Egitto la donna perde i suoi diritti in questo caso. È come se il legislatore condannasse una divorziata a non darsi mai il modo di ricostruirsi, di realizzarsi in un’altra relazione. Questo ci fa dire che i rari privilegi di cui la donna beneficia le sono conferiti in quanto madre e non come donna. Quando si esamina la legge sull’adulterio si ha l’impressione che l’adulterio del marito e l’adulterio della moglie non siano lo stesso reato. Differiscono nei loro elementi, c’è adulterio per la moglie quale che sia il luogo in cui si compie l’atto, mentre il marito è adultero solo se l’atto è commesso nella casa coniugale. Differiscono anche per le sanzioni penali. La punizione della moglie adultera è la detenzione per un periodo di 2 anni, quella del marito di meno di 6 mesi al massimo. Questi due paesi non sono ancora riusciti a mettere in discussione i sacrosanti privilegi del patriarcato.
3- Uno statuto modernista
È il caso della Tunisia che nei primi mesi dell’indipendenza ha rotto con la tradizione musulmana, anche se il legislatore ha tentato di legittimare queste nuove disposizioni con una certa rilettura dei testi fondatori. Il nuovo codice di statuto personale promulgato già nel 1956, tre mesi dopo l’indipendenza, trasforma radicalmente lo statuto giuridico della donna. Questo statuto non solo proibisce la poligamia, ma la condanna. Impone la monogamia. Il matrimonio diventa obbligatoriamente civile e sulla base del consenso dei due futuri sposi. L’età del matrimonio è fissata per l’uomo a 20 anni compiuti e per la donna a 18. Lo statuto non specifica la religione degli sposi, la tunisina poteva dunque contrarre matrimonio con un non musulmano contrariamente alla Shari’a. Il divieto contenuto nella legislazione musulmana non è stato ripreso nel Codice di statuto personale. Tuttavia, non essendo stato dichiarato esplicitamente, il diritto della tunisina a sposarsi con un non musulmano non è stato sistematicamente applicato. Con la circolare del novembre 1973 è richiesto un certificato di conversione del coniuge non musulmano all’Islam. L’incostituzionalità di questa circolare e la sua assurdità hanno portato, grazie alla mobilitazione della società civile, alla sua abrogazione il 14 settembre 2017. La discriminazione viene così revocata, la donna tunisina può scegliere liberamente il proprio coniuge.
Il sistema dell’eredità, molto complesso, rimane generalmente soggetto alle disposizioni coraniche ma è stato modificato. D’ora in poi, la figlia unica ha gli stessi diritti del figlio unico e può quindi ereditare proprietà di suo padre che non vanno più ai discendenti maschi da parte paterna. Il ripudio privato è proibito, “il divorzio può avere luogo solo davanti al tribunale” (5). Il divorzio non è più un diritto maschile. Il tribunale può pronunciare il divorzio su richiesta del marito o della moglie. Nel 1981 una nuova riforma consolida ulteriormente il diritto della donna davanti al divorzio senza ragione che appare come un ripudio giudiziario. La legge dà alla donna il diritto di mantenere la casa e di beneficiare di una rendita vitalizia come risarcimento per il danno subito. Questo obbligo permanente dell’uomo verso la sua ex moglie non ha alcun fondamento nella legge musulmana. Lo stesso vale per la legge di adozione. A differenza della legge musulmana, la legge tunisina consente ai genitori adottivi di dare il proprio nome al figlio adottato e gli dà gli stessi diritti di un figlio uterino. La custodia dei figli non obbedisce più alla legge islamica, il legislatore tunisino introduce un criterio moderno, quello dell’interesse del figlio: “se il matrimonio viene sciolto dai coniugi in vita la custodia è affidata o ad uno di loro o a una terza persona. Il giudice decide prendendo in considerazione l’interesse del bambino”(6). Al concetto di obblighi vincolanti della donna nei confronti del marito della Shari’a, la legislazione tunisina oppone il termine degli obblighi reciproci degli sposi.
Questo riformismo rivoluzionario ha ispirato la Costituzione del 1° giugno 1959 che accordò alla donna i suoi pieni diritti pubblici senza alcuna distinzione: “tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, sono uguali davanti alla legge”.
Da allora la legislazione tunisina si è costantemente evoluta nella direzione dell’affermazione dell’emancipazione della donna attraverso una costante costruzione giuridica: diritto alla contraccezione, all’aborto (gratuito e anonimo), all’istruzione obbligatoria e uguale retribuzione. La ratifica da parte della Tunisia nel 1991 della Convenzione di Copenaghen sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne ha imposto, agli occhi della Costituzione, la supremazia del diritto internazionale sulla legislazione nazionale. Poiché la questione femminile è al centro del progetto modernista della politica tunisina, il processo di emancipazione è quasi permanente. Così l’autorità del padre sui figli si è evoluta verso una cotutela parentale per la scelta della scuola, dell’educazione, della religione e della vita in generale del bambino. In questo senso la madre tunisina dà la sua nazionalità ai suoi figli qualunque sia la nazionalità del padre e il loro luogo di nascita. L’ultima legge elettorale ha mantenuto il principio di una quota maschile / femminile. Una proposta di uguaglianza in materia di eredità è stata appena presentata da un gruppo di parlamentari all’inizio di questo mese!
Nella loro diversità, dal più conservatore al più liberale, questi statuti della donna mostrano l’intervento dell’Uomo nella loro elaborazione. È il potere politico che decide la legislazione e interpreta la tradizione religiosa.
Contrariamente all’opinione comune, sono i musulmani a fare l’islam e non l’islam che fa i musulmani. Se l’uguaglianza uomo / donna è ancora un problema, è perché alcuni musulmani hanno deciso di continuare a ricorrere a delle legislazioni stabilite nel IX secolo. Questa decisione non ha alcuna legittimazione coranica. Al contrario il Corano invita l’uomo a dedicarsi in modo permanente all’interpretazione dei testi, allo sforzo intellettuale per comprenderli e adattarli in base ai luoghi e alle circostanze (Al-Ijtihad). I musulmani hanno l’Islam che vogliono avere. L’Islam razionale e tollerante di Ibn Rochd di Cordova (Averroè) non è l’islam salafita e rigoroso di Ibn Taymiyya, fondatore della dottrina fondamentalista rigorista wahhabita.
Tuttavia, la discriminazione della donna non è un problema peculiare dell’Islam. Dunque gli approcci occidentali all’Islam mancano di obiettività perché tutte le religioni opprimono la donna in nome delle leggi divine, i testi di Sant’Agostino e di San Paolo sono illuminanti su questo argomento. San Paolo basandosi sull’Antico e sul Nuovo Testamento fonda il principio della supremazia dell’uomo sulla donna “Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così siano soggette in tutte le cose le donne ai loro mariti” (7).
Ciò che l’Occidente oppone all’Islam affrontando la questione femminile non è la visione che emana dal cristianesimo o dall’ebraismo come dogmi, ma uno statuto prodotto da secoli di lotta contro l’oppressione religiosa. Oggi in Israele, Stato teocratico, cosa che l’Occidente sembra dimenticare, lo statuto delle donne obbedisce alla legge talmudica. Lo statuto della donna ebrea francese che obbedisce al diritto positivo francese inscritto in una tradizione laica repubblicana non è paragonabile a quello della donna ebrea israeliana!
A causa dell’influenza delle leggi religiose sul diritto di famiglia in Israele, l’uguaglianza di genere non esiste. La gestione del divorzio e del matrimonio è posta sotto l’autorità esclusiva dei tribunali rabbinici dal 1951. Non vi è alcun matrimonio civile in Israele. Il divorzio è un diritto unilaterale maschile. La donna che non ottiene il “get”, una dichiarazione del marito alla corte rabbinica di accettazione del divorzio, si trova “agunah”, cioè incatenata a suo marito. Se si risposa, il suo matrimonio è illegale e il bambino nato da questo matrimonio è considerato illegittimo e privo di diritti. Per contro senza dichiarare il “get”, il marito può risposarsi e il suo matrimonio è benedetto dalla legge religiosa.
L’Islam non ha dunque il monopolio dell’oppressione della donna, il discorso degli islamisti incontra facilmente quello dei religiosi ebrei sul terreno delle discriminazioni delle donne. In Israele cartelli invitano la donna a vestirsi correttamente e a coprirsi la testa. La si invita a cambiare marciapiede davanti alle sinagoghe perché impura. La separazione spaziale tra uomini e donne nello spazio pubblico è in corso. La Corte Suprema israeliana ha persino stabilito che la segregazione a livello dei trasporti (autobus riservati per sesso) non è un fatto grave. In alcuni supermercati gli ingressi sono diversi per donne e uomini, così come le casse. Come nell’Islam, si vieta alle donne ebree di partecipare ai funerali e persino nell’esercito, controllato al 38% dai religiosi, alcuni comandanti proibiscono alle donne di cantare con gli uomini!
Ecco perché il dibattito che solleva la questione del velo in Francia, paese di laicità, mi sembra delirante. Criticare l’uso del velo e discutere del suo divieto sono solo risposte etnocentriche! Davanti a questo fenomeno dobbiamo porci le vere domande: perché delle giovani di terza generazione sentono la necessità di mostrare la loro appartenenza religiosa? Perché la religione diventa un fermento identitario per delle giovani uscite dalla scuola laica? Questo fenomeno chiama in causa la scuola che dovrebbe essere egualitaria e il modello repubblicano sui suoi limiti e forse anche i suoi eccessi!
Il processo fatto all’Islam attraverso l’uso del velo, visto come un attacco alla dignità della donna, mi sembra tanto più inappropriato in quanto il discorso sul velo spesso dimentica che la Repubblica ha colonizzato il Nord Africa. Durante il periodo coloniale, la Francia non ha importato né la laicità né l’emancipazione della donna. Dobbiamo ricordare che l’Algeria era francese prima dell’Alta Savoia. Perché la Repubblica laica ha continuato a incoraggiare le strutture tradizionali e a mantenere uno statuto oppressivo delle donne in un territorio francese? In altre parole, la questione del velo in Francia sfida l’Islam meno della coscienza politica francese!
Proprio come le discriminazioni che vivono donne musulmane rientrano nella responsabilità sia delle élite politiche e intellettuali sia dell’islam come dogma. Quando i musulmani hanno voluto interpretare i testi sacri più liberamente o decidere di ignorarli perché obsoleti le donne sono state in grado di acquisire più diritti ed evolversi.
Le leggi spesso contribuiscono a cambiare le strutture mentali. Nel 1954, al momento di ottenere l’autonomia interna, solo il 12% dei tunisini era scolarizzato ma la volontà politica tunisina ha scosso le mentalità imponendo un’altra visione del rapporto uomo / donna.
Anche in Arabia Saudita la scolarizzazione delle donne iniziata con la scuola elementare nel 1956 e estesa all’università nel 1979 ha permesso l’emergere di un certo movimento femminista. Questo movimento rimane per il momento limitato a critiche delle tradizioni familiari. Tuttavia, nel tentativo di dare maggiore spazio alla donna all’interno della famiglia evitando di attaccare la legislazione religiosa, getta le basi di una nuova dinamica, anche se timida! Recentemente, il principe ereditario Mohamed Ben Salman ha annunciato la sua intenzione di optare per un Islam più illuminato e aperto, speriamo che questo cambiamento possa tradursi nell’acquisizione per la donna saudita dei suoi pieni diritti.
Rimane ancora molto da fare in termini di uguaglianza di genere, ma l’accesso delle donne alla scuola e poi al mercato del lavoro ha imposto una situazione di fatto che non è in linea con lo statuto giuridico. In tutto il mondo arabo la donna musulmana si emancipa e in particolare la donna di città. Nessuna donna istruita è disposta ad accettare i vincoli imposti a sua madre, anche in paesi in cui la legislazione non le concede tutti i suoi diritti. Ovunque le donne sono consapevoli dei loro diritti al riconoscimento e all’uguaglianza e si battano per essi!
La minaccia all’emancipazione delle donne potrebbe provenire da progetti islamisti rivolti al passato che si inscrivono contro le ideologie nazionaliste moderniste e che marcano un ritorno sulla scena politica approfittando del sostegno dell’occidente. Questa minaccia mi sembra reale soprattutto perché le élite democratiche, laiche e di sinistra non sono state in grado di produrre una visione progressista e rivoluzionaria. Una visione moderna presuppone che gli intellettuali musulmani cessino di opporre ai discorsi dei tradizionalisti una lettura sublimata dei testi sacri, ma di avere il coraggio di proporre un progetto in cui il sacro non controlli più la totalità del sociale!
Ogni pensiero che non sia oggetto di riflessione e di interrogazione, che non è posto in una visuale volta al futuro e da un punto di vista futurista è un pensiero morto, ci dice l’eminente intellettuale Mohamed Talbi che non ha esitato a sottoporre testi religiosi alla ragione critica con grande disappunto di tutti i suoi oppositori.
L’autrice Zohra Credy, è una storica. Ha insegnato storia del mondo arabo presso l’Università Denis Diderot di Parigi VII e all’Università aperta di Parigi VII. Ha animato numerosi corsi di formazione per la Ligue Internationale de l’Enseignement et le service académique de la formation administrative SAFA. Ha diretto una prestigiosa istituzione educativa in Tunisia.
Note:
(1) Coran, «La Table», V, 5 BLACHERE, p. 133,
(2) Coran,«La Génisse» II, BLACHERE, p. 282
(3) Coran, «Les Factions»XXXIII, 59, BLACHERE, p. 453
(4) Ghassan ASCHA, Le Statut Inférieur de la femme en islam, L’Harmattan, Paris, 1989, 97
(5) Le Code du Statut Personnel, République tunisienne, 1976, article 30 p. 8
(6) Idem, article 67, p. 13
(7) Simone de BEAUVOIR, Le deuxième sexe, Paris, 1949, t I, p. 113
(*) Per comprendere appieno cosa è in gioco in questo discorso, dobbiamo notare la sua grandissima corrispondenza con la retorica che promuove la posizione della donna nella società tenuta dallo Stato dal 2001 al 2002. I nuovi segnali sociali femminili non sono venuti a decostruire le misure messe in atto dallo Stato, ma al contrario a rafforzarle. In un sondaggio condotto a Riyad alla fine del 2000, la sociologa Amélie Le Renard ha dimostrato che era contro le tradizioni familiari, molto più che contro l’Islam ufficiale promosso dai Saud, che si rivolgevano le richieste delle giovani donne in questo tipo di manifestazione. L’accesso a una comprensione più raffinata e più “femminile” dell’Islam rende quindi possibile distinguere, all’interno della cerchia familiare, ciò che è il divieto veramente religioso (haram) da ciò che è il risultato di un divieto sociale (‘ayb), senza alcuna vera base islamica. L’Islam moderato è usato come referente normativo, sinonimo di modernità, e si oppone ai “costumi” senza legittimità islamica. Si tratta di screditare le attuali pratiche discriminatorie senza fondamenti religiosi identificabili. L’appropriazione del religioso permette così alle donne di affermare la loro maggiore autonomia riguardo pratiche quotidiane precedentemente controllate dai padri, su argomenti diversi come il diritto all’educazione o la legittimità dell’uso del trucco da parte delle giovani donne. In questo contesto è come se le giovani donne saudite fossero consapevoli che lo Stato e l’Islam ufficiale sono dalla loro parte e possono costituire un’autorità capace di legittimare le loro rivendicazioni. Quindi, sebbene ci siano ancora molte leggi discriminatorie nel sistema giuridico saudita, queste sono difficilmente attaccate dalle donne del regno. Una petizione lanciata nel 2010 per ottenere il diritto alla patente di guida per le donne non ha messo insieme che 500 firmatarie. Allo stesso modo, la persistenza delle divisioni dei settori economici maschile e femminile è solo raramente concepita come un freno all’autonomia delle donne: questa separazione è invece presentata come garanzia di una mancanza di competizione tra i due sessi in certi settori (istruzione delle donne, servizi per l’infanzia, banche per le donne, ecc.), e a maggior ragione come una salvaguardia del potenziale di inserimento professionale delle donne saudite. Che queste leggi siano concepite come un male minore o una risorsa, resta il fatto che è su un altro terreno che si impegnano le “femministe” dell’Arabia Saudita. Sembrano considerare che non è tanto a livello statale, ma a livello infra-statale e, in particolare, a livello familiare che si gioca l’evoluzione dei rapporti di forza tra uomini e donne in Arabia Saudita.
(**) Il capo dello Stato algerino assicura anche che l’uguaglianza uomo-donna non si può concepire che nella protezione della donna per legge “in termini di accesso al lavoro e al possesso di beni e ricchezze sotto il regime della separazione, essendo libera di disporne essa stessa a suo piacimento”. Oltre al divorzio, anche la riforma della poligamia, che era stata mantenuta nel 2005, è attesa con impazienza. Ma nonostante notevoli progressi, le attiviste femministe come Soumia Salhi continuano a esigere l’abrogazione del codice di famiglia, affermando che “nonostante gli emendamenti del 2005, mantiene la sua ineguale architettura e la permanenza dell’oppressione delle donne”. L’idea non è tanto quella di ottenere nuovi diritti e di opporsi agli ulema quanto di promuovere una lotta contro la violenza domestica e promuovere il ruolo delle donne nelle famiglie, pur continuando a segnare la differenza tra questo femminismo islamico e i suoi modelli occidentali.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina
Fonte: https://arretsurinfo.ch/le-statut-de-la-femme-dans-le-monde-arabe/