Copertina: Amici in lutto portano il corpo del giornalista palestinese Ahmed Abu Hussein al suo funerale nel campo profughi di Jebaliya, nella striscia di Gaza. Le truppe israeliane gli hanno sparato mentre stava coprendo una protesta alla barriera di recinzione. (Adel Hana / AP)
David Palumbo-Liu, 26 aprile 2018
Il 25 aprile, Ahmad Abu Hussein è diventato il secondo giornalista palestinese che i cecchini israeliani hanno colpito a morte mentre copriva le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, imponenti manifestazioni settimanali dei palestinesi che chiedono il diritto di tornare nelle loro terre. Abu Hussein aveva 24 anni. Solo pochi giorni prima munizioni vere israeliane avevano ucciso il 30enne Yasser Mourtaja. Come Abu Hussein indossava un grande e vivace giubbotto “Press” che diceva chiaramente che era un giornalista.
L’organizzazione Reporters Sans Frontieres afferma che il prendere di mira i giornalisti da parte delle forze di occupazione israeliane è deliberato e sistemico. Ciò sarebbe in diretta violazione della Risoluzione 2222 (2015) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che afferma: “l’impunità per i crimini commessi contro giornalisti, professionisti dei media e personale associato nei conflitti armati rimane una sfida significativa per la loro protezione e assicurare la responsabilità per i reati commessi contro di loro è un elemento chiave nella prevenzione di attacchi futuri”.
Qualsiasi indagine appropriata sulla sparatoria dovrebbe tener conto del fatto che le dimostrazioni non sono una questione di ‘conflitto armato’. Le proteste sono state in gran parte non violente, persino occasioni di festa. Ma Israele è determinato a prendere misure brutali e punitive nei confronti di chiunque si avvicini alla barriera di recinzione che segna il territorio illegalmente occupato. Un’inchiesta israeliana su una sparatoria del dicembre 2017 rivela che ai soldati israeliani viene ordinato di sparare a chiunque si avvicini alla barriera di recinzione, indipendentemente dal fatto che sia o meno armato. Questa posizione dell’esercito ha portato a centinaia di palestinesi disarmati colpiti con munizioni vere, tra cui diversi bambini.
Secondo Diana Buttu, analista politica e cittadina palestinese di Israele, il targeting israeliano dei giornalisti non è nuovo e non accidentale:
Per anni l’ufficio di censura israeliano, come viene chiamato, ha usato tattiche per cercare di punire i giornalisti che coprono l’occupazione israeliana della Palestina. Ad esempio, Israele ha minacciato di chiudere la BBC per la messa in onda di un documentario sulle armi nucleari israeliane. Israele sta ora minacciando di chiudere gli uffici di Al Jazeera per il solo fatto che svolge il proprio lavoro: riferire criticamente sulla negazione della libertà che attua Israele. Il targeting dei giornalisti palestinesi a Gaza è un’estensione di tutto questo: agli occhi dell’establishment militare israeliano ‘non ci sono innocenti a Gaza’, inclusi i giornalisti.
Si potrebbe persino dire ‘specialmente i giornalisti’ o, in effetti, chiunque stia documentando le azioni militari. Middle East Monitor registra una nuova legge che punisce chiunque documenti il personale dell’esercito in azione: “Il progetto di legge prevede che chiunque filmi soldati durante il servizio militare venga condannato a un anno di prigione che potrebbe arrivare fino a dieci anni se il contenuto è classificato come ‘dannoso per la sicurezza israeliana’. Il disegno di legge proibisce inoltre la pubblicazione di registrazioni video sui social media o la loro diffusione ai media”.
L’attivista per i diritti umani e professore di diritto Noura Erakat riassume così la situazione: “È sia uno sforzo per assicurare che la storia palestinese non sia raccontata al mondo sia per dire ai palestinesi stessi che nessuno è al sicuro”.
Per comprendere il significato degli attacchi di Israele ai giornalisti, è fondamentale capire come le loro vite professionali siano inestricabili dalla vita privata sotto l’occupazione israeliana. Fare giornalismo in queste condizioni materiali, politiche e militari è quasi impossibile, in ogni senso convenzionale. Per provare a capire come funziona il giornalismo, ho contattato Issam Adwan, un giornalista freelance a Gaza. Ha acconsentito ad ascoltare le mie domande, le ha poste ad alcuni dei suoi colleghi e poi tradotto le interviste. Man mano che si comincia a conoscere meglio la situazione dei giornalisti palestinesi, si comprendono le difficoltà specifiche di lavorare non solo sotto la censura e la repressione israeliana, ma anche sotto la complessità del mondo politico palestinese.
Non è solo lo stato israeliano a prendere di mira i giornalisti, anche l’Autorità palestinese lo fa. Il Comitato per la protezione dei giornalisti riporta il caso di Hazem Naser, arrestato dalle forze di sicurezza dell’Autorità palestinese nel mezzo della notte a casa sua. Anas Dahode, un giornalista di 26 anni di Al-Aqsa TV, descrive vividamente il risultato di queste pressioni. Ha detto a Truthdig:
“Essere un giornalista a Gaza significa solo morte. O muori cercando di coprire i massacri delle forze di occupazione israeliane, come quello che è successo ai miei amici come Yasser Mourtaja e altri prima di lui che sono stati uccisi a sangue freddo nonostante mostrassero la loro identità di personale della stampa, o muori guardando gli altri morire, è letale comunque. Da una parte si affrontano le dispute politiche tra Hamas e Fatah che scaturiscono da diverse ideologie e influenzano la nostra attenzione mediatica e il futuro o il nostro lavoro. Dall’altra parte, l’occupazione israeliana che viola i diritti umani quasi ogni giorno qui a Gaza.”
Mohammed Shaheen, 24 anni, di Voice of Palestine, ha parlato sia delle sfide materiali che di quelle psicologiche nel fare il suo lavoro:
“Viviamo in una prigione a cielo aperto, abbiamo poche risorse per vivere la vita di ogni giorno. Per quanto riguarda il mio lavoro di giornalista, le autorità israeliane saltuariamente vietano macchine fotografiche, materiali fotografici, l’uso di equipaggiamenti di sicurezza di cui abbiamo bisogno per svolgere il nostro lavoro.”
In casi normali, lavorare come giornalista non coinvolge la normalità della tua vita. Per essere un giornalista di successo dovresti essere sempre pronto a lavorare sulle ultime notizie. Immagina di provare a fare tutto questo duro lavoro quando vivi a Gaza, un posto in cui abbiamo martiri e feriti quasi ogni giorno. Abbiamo droni 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Vivi la sensazione della guerra in ogni singolo attimo della tua vita, non solo perché temi di morire in qualsiasi momento o di perdere qualcuno che hai sempre amato, ma anche di svegliarti all’alba per ricevere una chiamata dalla tua agenzia per iniziare a lavorare su alcuni casi collegati ai massacri israeliani.
Shaheen ha aggiunto una sorprendente, terribile conclusione:
“È un peccato che la comunità mondiale abbia chiuso un occhio e sia sorda ai massacri israeliani a Gaza. Abbiamo avuto tre guerre mortali, con Israele enormemente armato contro un popolo con poche risorse, militari e non. Migliaia di persone sono state uccise e ferite quando tutto quello che volevano era il ritorno alle proprie case e villaggi, da cui i loro nonni erano stati scacciati. Abbiamo fatto appello alla comunità mondiale per 70 anni – anche quando conoscono la verità, pensi che interessi? Israele ha sempre il sostegno degli Stati Uniti che useranno il diritto di veto in qualsiasi voto relativo ai palestinesi. E’ tutto inutile.”
Nonostante questo senso di inutilità, lui e altri ancora cercano di portare avanti il loro lavoro. È nostra responsabilità leggere, ascoltare e guardare le notizie che ci vengono offerte a costi così alti.
Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org
Fonte:https://www.truthdig.com/articles/are-israeli-snipers-censoring-palestinian-journalists-by-murder/