Essere un giornalista palestinese a Gaza è essere sempre sotto minaccia

“Tutti sono presi di mira. Anche se sei un giornalista … Basta essere palestinese e essere lì e diventi un bersaglio.” Copertina:  Giornalisti prendono parte a una protesta contro l’omicidio del giornalista palestinese Yasser Murtaja da parte delle forze israeliane alla barriera tra Israele e Gaza nella parte meridionale della Striscia di Gaza, 8 aprile 2018. (Reuters / Ibraheem Abu Mustafa)

di Hamza Saftawi e Miriam Berger, 27 aprile 2018

Gaza City – Sia Yasser Murtaja che Ahmed Abu Hussein indossavano giubbotti con la scritta PRESS quando i cecchini israeliani li hanno uccisi. Entrambi sono stati uccisi mentre coprivano le attuali proteste alla barriera di Gaza. Il trentenne Murtaja, colpito il 6 aprile, è morto il giorno successivo. Il ventiquattrenne Hussein, colpito il 13 aprile e successivamente trasferito in un ospedale israeliano, è morto mercoledì scorso.

Il sorriso carismatico e le credenziali professionali di Murtaja – aveva lavorato come cameraman con la BBC, Ai Wei Wei e Al Jazeera, tra gli altri, ed aveva appena ottenuto un incarico dal Norwegian Refugee Council – hanno tenuto la sua morte in prima pagina per giorni. “Vorrei poter scattare questa foto dall’alto”, aveva postato su Facebook solo il mese scorso. “Vivo a Gaza. Non ho mai viaggiato”. Altri cinque giornalisti palestinesi sono stati feriti dal fuoco vero il giorno in cui Murtaja è morto, secondo il Sindacato dei giornalisti palestinesi che ha accusato Israele di prendere di mira la stampa in violazione del diritto internazionale.

I giornalisti in genere evitano di essere la storia. Ma la morte di Murtaja ha portato un’attenzione relativamente rara sulla piaga dei giornalisti palestinesi in una Gaza sfinita dalla guerra, assediata dal blocco di Israele ed Egitto, governata dal repressivo Hamas, e – tra lotte intestine palestinesi, disastrosa penuria di elettricità e tagli agli aiuti internazionali – di fronte al collasso di aiuti umanitari ed economici. A Gaza, i giornalisti palestinesi temono di essere presi di mira da Israele in guerra o in scontri – come chiunque altro a Gaza – vivendo chiusi in un ambiente mediatico altamente politicizzato in cui, come ha detto un giornalista che ha chiesto l’anonimato per poter parlare senza ripercussioni: “Non puoi ritenere responsabile il responsabile”. I giornalisti intervistati hanno affermato che, assediati da tutte le parti, troppe storie sono lasciate perdere.

Ain Media, una società di produzione che Murtaja ha co-fondato nel 2012, sembrava sfidare probabilità e funzionare. Oggi situata in uno degli edifici più belli di Gaza City, Ain Media è stata la prima a usare droni difficili da acquisire e ha ripreso immagini ampiamente condivise della distruzione del quartiere Shejaiya di Gaza dopo l’assalto israeliano del 2014. Erano ragazzi giovani senza una preparazione regolare sui media (Murtaja aveva studiato contabilità), ma con la passione per il cinema e la fotografia e il desiderio di fare qualcosa di nuovo a Gaza, ha spiegato Rushdi Sarraj, un co-fondatore e amico d’infanzia di Murtaja.

Può anche aver contribuito il fatto che i Murtajas sono una grande famiglia ben introdotta, anche con il governo di Hamas che ha governato Gaza dopo aver vinto le elezioni nel 2006 e nel 2007, soppiantando l’Autorità palestinese filo-occidentale in una guerra civile. Dopo che Murtaja è stato ucciso, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, senza presentare prove, ha lasciato intendere che quel giorno aveva un drone e lo ha accusato di essere un membro dell’ala militare di Hamas; i suoi colleghi, così come quelli che si trovavano sulla scena della sua morte, negano entrambe le affermazioni. Nel 2015 Murtaja era stato arrestato e picchiato dalle autorità di Hamas per delle riprese fatte in una zona senza permesso, uno scenario familiare a molti giornalisti a Gaza. L’anno scorso, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha esaminato Murtaja come parte della procedura standard per l’assegnazione di sovvenzioni di aiuto e non ha trovato legami con organizzazioni o attività militanti.

“Noi giornalisti palestinesi abbiamo molte difficoltà”, ha spiegato Sarraj parlando dei modi in cui i giornalisti di Gaza sono schiacciati. “In primo luogo, siamo in una grande prigione. Non possiamo studiare all’estero o uscire o mischiarci con altre culture o giornalisti stranieri all’esterno. Siamo completamente isolati.”

“In secondo luogo, abbiamo grosse difficoltà con l’attrezzatura con cui giriamo”, ha continuato Sarraj. “Israele vieta l’ingresso della maggior parte delle attrezature. Così siamo bloccati in molti tipi di lavoro. Inoltre, affrontiamo difficoltà con pericolo per le nostre vite.” Nelle guerre e negli scontri, ha detto, “il giornalista è sempre un bersaglio”.

“La libertà di espressione, per essere sinceri, è limitata”, ha proseguito Sarraj. “Siamo sempre soggetti a restrizioni, sia da parte del governo [di Hamas] a Gaza o dal governo [dell’Autorità palestinese] a Ramallah, sia dall’occupazione israeliana. Quando andiamo a intervistare le persone hanno paura di queste tre figure. Magari un dipendente dell’Autorità Palestinese ha paura di perdere il suo stipendio o un Gazan ha paura di menzionare una persona [del governo], poiché potrebbe poi avere delle difficoltà dal governo, o, se ha un permesso e vuole passare dal valico di Erez, non è nel suo interesse dire nulla su Israele”.

 

Rushdi Sarraj nell’ufficio di Ain Media, con un poster del co-fondatore di Ain Media, Yasser Murtaja, ucciso da un cecchino israeliano il 7 aprile. (Immagine per gentile concessione di Hamza Saftawi)

In questo spazio, giornalisti stranieri con il privilegio di andare e venire da esterno e scrivere in una lingua diversa, possono spesso pubblicare la storia o ricevere l’accesso che ai giornalisti palestinesi a Gaza non è permesso. Tuttavia, il lavoro dei media internazionali rimane dipendente da giornalisti e traduttori locali, che (per compensi spesso più alti di quelli che otterrebbero scrivendo le proprie storie) aiutano a fissare interviste e a condividere i loro contatti.

“Il nostro lavoro di giornalisti e operatori di media cresce con le crisi”, ha detto Sarraj. “Quando ci sono crisi, il mondo si concentra su di noi e richiede materiale”.

Ma altre volte “l’immagine trasmessa di Gaza non è corretta”, ha detto Sarraj. “Pensano che sia tutto distrutto, che le persone nei notiziari non siano istruite … [che] non abbiano vita, non abbiano spirito. È tutto l’opposto. Le persone amano la vita. Le persone sono istruite e colte. È solo che la loro libertà è limitata. Le persone non hanno libertà”.

Ecco perché, ha detto Sarraj, lui e i suoi colleghi continueranno a lavorare comunque. “Abbiamo iniziato su questa strada e conosciamo i pericoli, ma abbiamo un messaggio che dobbiamo comunicare”, ha detto.

Murtaja e Hussein sono tra i 38 palestinesi uccisi e i circa 1.500 feriti finora alle proteste settimanali che culmineranno il 15 maggio per celebrare 70 anni dalla Nakba palestinese (“catastrofe”), che è il modo in cui i palestinesi fanno riferimento alla fondazione di Israele. Queste manifestazioni, chiamate la Grande Marcia del Ritorno, per gli organizzatori sono un messaggio non violento al mondo che dice che i palestinesi stanno ancora lottando per il loro diritto a tornare nella propria terra mentre sono imprigionati a Gaza. Israele controlla la maggior parte della barriera che circonda Gaza e limita rigorosamente chi e cosa entra ed esce. Le autorità israeliane hanno respinto le proteste come una copertura per Hamas – designato da alcuni governi occidentali come gruppo terroristico – e ha avvertito che i manifestanti che si avvicinano alla barriera o usano la violenza saranno colpiti.

Nessuno sa cosa accadrà il 15 maggio. Hamas, che è finanziariamente spremuto, politicamente isolato e che tassa gli abitanti di Gaza fino al loro ultimo centesimo, e Fatah, che domina l’AP in Cisgiordania e sta cercando di cacciare fuori Hamas tagliando elettricità e stipendi a Gaza, entrambi traggono beneficio dalle proteste che spostano la pressione da loro verso Israele.

Dentro Gaza, dove la libertà di associazione è limitata, generalmente le persone sono anche disperate e sfinite da un decennio di assedio, tre guerre e adesso dalla poca elettricità, pochi lavori e nessuna via d’uscita. Vedono queste proteste come il loro modo per attirare l’attenzione del mondo e solo per fare qualcosa, qualsiasi cosa. Negli ultimi mesi, la situazione già terribile è stata aggravata dai tagli degli Stati Uniti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro, che ha fornito aiuti alimentari a 1,3 milioni di 1,9 milioni di persone a Gaza. Inoltre, l’AP ha smesso di pagare gli stipendi ai suoi lavoratori a Gaza che fino ad ora erano tra le poche persone rimaste con un qualche reddito da far circolare.

Giornalisti locali, come il 33enne Osama Khalout, che lavora part-time per Donia Al-Watan, allineato a Fatah, hanno coperto le manifestazioni senza alcun equipaggiamento protettivo che li riparasse dalle munizioni e dai gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani nella zona cuscinetto di Gaza. Anche se Khalout avesse i soldi per permettersi un costoso giubbotto antiproiettile e una maschera antigas, non avrebbe modo di prenderne uno a Gaza, dato che Israele limita il loro ingresso. Come la maggior parte dei media locali, il suo giornale non ha una fonte di reddito indipendente ed è mal pagato, con poche sedi per uno sviluppo professionale o protezioni. Khalout ha pubblicato le sue foto su Facebook, poiché crede che i social media siano il miglior sbocco per condividere la Gaza che vede. Come per molti a Gaza, può essere difficile per lui rimanere motivato e non soccombere alla depressione.

“Siamo in una brutta realtà imposta da sopra e da dentro di noi”, ha detto. “Vivo la stessa brutta situazione della gente.”

Ciononostante, Khalout inframmezza le sue storie di cronaca con tipiche battute di Gaza, prendendo in giro l’immagine di se stesso che schiva proiettili dei soldati israeliani alle proteste.

Hind Khoudary, ventiduenne, una delle poche giornaliste palestinesi a Gaza, lavora come reporter e traduttrice freelance e copre le proteste per il canale nazionale del Kuwait e RT International in inglese. Ha iniziato come freelance per quest’ultimo solo di recente e ha notato che RT International è stata più interessata a coprire le proteste rispetto ai media arabi.

Khoudary non ha mai studiato giornalismo, quindi sta imparando facendo. Ha iniziato a scrivere nel 2015 attraverso un progetto di volontariato chiamato We Are Not Numbers, che unisce scrittori di Gaza con tutor in altri paesi.

Khoudary, che fa i suoi riportage in un fluente inglese, non vede alcuna opportunità nei polarizzati media palestinesi. “Non sono nemmeno interessata, dato che ognuno di loro lavora per il proprio partito”, ha detto. “E io veramente non voglio essere una di quelle persone che maledice Hamas perché sta lavorando per Fatah o maledice Fatah perché sta lavorando per Hamas”.

Ma mentre copriva le proteste la scorsa settimana, Khoudary è svenuta dopo che i soldati israeliani hanno sparato diversi gas lacrimogeni proprio dove stava lavorando.

“Non si tratta di lavorare per qualcuno o no; tutti sono presi di mira”, ha detto, osservando di essere stata fortunata ad aver ricevuto un’adeguata attrezzatura protettiva dal suo datore di lavoro freelance, anche se non le hanno fornito alcuna assicurazione. “Anche se sei un giornalista, un fotografo, un videoman, un cameraman. Tutti noi … Basta essere palestinese e essere lì per essere un bersaglio.”

“Ognuno sta cercando di adottare la marcia, tutti i partiti politici”, ha aggiunto. “Ma quello che sento è che tutti stanno partecipando  perché tutti stanno soffrendo.”

In questo ambiente i giornalisti non possono riferire liberamente o facilmente su Hamas e sulla politica interna, non possono accedere ad attrezzature o alla formazione o viaggiare all’estero, e sono costantemente minacciati di guerra con Israele, alle prese con povertà diffusa, disoccupazione e isolamento. Il sogno di Murtaja era quello di tutti.

“I giornalisti a Gaza non hanno molta libertà”, ha detto Ataf Abu Saif, uno scrittore pluripremiato di Gaza e uno dei portavoce della Grande Marcia del Ritorno. “Così ti trovi ad avere giornalisti esperti, ma che non possono scambiare esperienze e informazioni con giornalisti internazionali. È un peccato, sai. Come se io fossi un giovane giornalista e sognassi di fare reportage da altre nazioni, se vivi a Gaza questo sogno non ce l’hai. Il tuo massimo sogno è rimanere a Gaza, rimanere in vita. Tu, come giornalista americano, viaggi e fai reportage. Nessun giornalista palestinese può realizzare il tuo sogno.”

Hamza Saftawi è un giornalista freelance e fotografo che vive nella Striscia di Gaza e si occupa di questioni giovanili.

Miriam Berger è una giornalista americana freelance, attualmente vive a Gerusalemme, si è occupata di questioni del lavoro in tutto il Medio Oriente.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org

Fonte:https://www.thenation.com/article/to-be-a-palestinian-journalist-in-gaza-is-to-be-always-under-threat/

 

 

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