I palestinesi non vogliono negare Israele. Vogliamo solo un futuro.

Noi gazawi possiamo essere chiusi in un recinto come animali – ma nel giorno della Nakba mostreremo al mondo che la nostra umanità è integra. Copertina: Palestinesi nella Grande Marcia del Ritorno protestano vicino ad una postazione dell’esercito israeliano alla barriera tra Gaza e Israele. Fotografia: Agenzia Anadolu/Getty Images

Atef Abu Saif, 14 maggio 2018

Il primo venerdì della Grande Marcia del Ritorno sono andato alla barriera tra Gaza e Israele con i miei due figli più piccoli, Yasser e Jaffa. Sì, ho chiamato la mia unica figlia con il nome della città in cui dovevo nascere. Questa è una specie di tradizione tra i palestinesi, specialmente se il nome del luogo ha un suono aggraziato.

Mentre camminavano, i due facevano sventolare le bandiere palestinesi che tenevano nelle loro manine. Guardando diritto la recinzione perimetrale, Yasser ha chiesto: “Papà, c’è Jaffa dietro quella recinzione?” Mia figlia non è stata turbata da questa ambiguità. Mentre guardavo uno dei cecchini israeliani, accovacciato con il fucile sulla duna artificiale che funge da confine, vedevo come eravamo entrambi bloccati in una competizione permanente.

I miei bambini non rappresentano una minaccia per te, ho cercato di dire con gli occhi. Siamo a più di 300 metri di distanza. I miei bambini non hanno armi, né pietre; non sono qui per combattere. Era una fantasia, ovviamente. Più tardi quel giorno, e nelle settimane che sono seguite, i soldati israeliani hanno usato forza estrema per liberare l’area: gas lacrimogeni lanciati da droni, mortai, munizioni vere.

La Grande Marcia del Ritorno, la pacifica manifestazione di resistenza da parte dei gazawi su questa barriera nelle ultime sette settimane, culminerà martedì nel 70° anniversario di quella che i palestinesi chiamano Nakba e Israele come la nascita dello stato di Israele. Le proteste alla barriera hanno attirato molta attenzione. Decine di persone sono state uccise – compresi bambini appena adolescenti e giornalisti – e altre migliaia sono state ferite; ogni preoccupazione internazionale presumibilmente è per paura di un’escalation militare nella regione più vasta. Anche se questa paura è legittima, rivela anche una profonda incomprensione della protesta.

La parola nakba, che significa “catastrofe”, si riferisce al momento in cui nel 1948 oltre 700.000 palestinesi furono cacciati dalle loro città e villaggi – la maggior parte dei quali furono distrutti – in quella che divenne la dichiarazione dello stato israeliano. Per noi, il 1948 è stato l’anno zero nell’inevitabile incubo collettivo che tutti i palestinesi hanno vissuto da allora. Tutto ciò che è seguito: il dislocamento, la povertà, le guerre, i coprifuoco, gli interrogatori, le carcerazioni, le intifada, la fame, la mancanza di provvigioni essenziali (medicine, elettricità, acqua pulita, fognature), le restrizioni al movimento… ogni orrore che si è abbattuto sui palestinesi – è iniziato in quel momento.

Potevo nascere in una delle ville dei miei nonni sulla spiaggia meridionale della città di Jaffa. Invece, sono nato in uno squallido campo profughi sovraffollato a nord di Gaza City. I miei amici europei spesso dicono: “E allora? Molte altre persone sono state sfollate durante le due guerre mondiali e hanno continuato a costruire nuove e prospere vite per se stesse. “Questo è vero, ma almeno quei conflitti sono stati risolti, intere economie sono state ricostruite. A quanto restava della Palestina non è mai stato concesso questo lieto fine. La maggior parte dei paesi europei, e naturalmente gli Stati Uniti, rifiutarono persino di riconoscere la Palestina come stato. Che possibilità ha avuto? Anche la Gran Bretagna, che ha dedicato le sue politiche nel dopo 1917 in Palestina a sostituire i palestinesi con emigranti ebrei – violando così il proprio mandato di preparare il paese all’indipendenza – riconosce Israele e ancora si rifiuta di riconoscere la Palestina senza condizioni.

La città natale della mia famiglia non era completamente perduta per me, mentre crescevo. Il campo in cui vivevo – Jabaliya – era (ed è tuttora) suddiviso in quartieri che prendono il nome dalle città e dai villaggi da cui provenivano i loro occupanti. Così sono cresciuto nel quartiere di Jaffa, ascoltando storie di avventure di pesca e storie ambientate in aranceti – ricordi della vita in una delle città più vivaci della Palestina durante la prima metà del XX secolo. Ho sempre avuto la sensazione che i narratori di queste storie provassero un reale dolore fisico mentre narravano. Li immaginavo con una ferita ricoperta che sanguinava silenziosamente mentre parlavano. Non era che vivessero ancora nel passato, né che il passato li perseguitasse. Era che dal passato erano stati abbandonati, lo avevano perso in qualche modo e avevano bisogno di rassicurarsi che questo non fosse mai accaduto.

Mia nonna Eisha era uno di questi narratori. Quando fu costretta a barattare la sua spaziosa casa sulla spiaggia con una piccola tenda bianca sulle calde spiagge di Gaza, anche lei dovette percorrere oltre 100 chilometri per un tale privilegio. Ogni volta che ascoltavo una delle sue storie, sentivo che era mio dovere continuare a raccontare le sue storie, e raccontarle come faceva lei. Così, all’età di 12 anni sono iniziati i miei primi tentativi di scrittura. Ho annotato una versione della storia che raccontava sempre sulla visita dal suo dottore a Jaffa. Poi ho capito che c’erano altre storie che potevo condividere e approfondire. Come risultato della Nakba, la mia famiglia è sparpagliata tra Gaza e Giordania, come pure a Jaffa, dove alcuni parenti sono riusciti a rimanere. La riunificazione della famiglia è diventato l’obiettivo della mia scrittura: almeno nello spirito. Mentre Eisha guariva le ferite della famiglia attraverso la testimonianza e il ricordo, la mia missione era quella di irrigare il presente con la speranza. Scrivo per conservare la vita che prosegue di questa famiglia. Ma questo è un modo molto personale di sopravvivere. Ogni palestinese ha una propria strategia privata per conservare se stesso e le proprie persone care. La Grande Marcia del Ritorno è stata una delle rare occasioni in cui le persone hanno trovato una strategia collettiva per questa sopravvivenza.

FOTO – Profughi palestinesi a Nahr el-Bared, uno dei primi campi istituiti dopo la nakba, o “catastrofe” – come i palestinesi si riferiscono agli eventi del 1948. Fotografia: S.Madver / AP

Ovviamente i manifestanti sanno che nessuno tornerà da nessuna parte alla fine di questa marcia. Ovviamente non hanno piani (o mezzi) per rimuovere la recinzione. E naturalmente questa protesta non è un tentativo di rimuovere o negare in qualche modo lo stato di Israele. Ogni suggerimento che questi siano gli obiettivi o le aspettative è ridicolo. I manifestanti vogliono semplicemente che le loro voci vengano ascoltate; vogliono semplicemente che la Nakba e i suoi decenni di ripercussioni, siano inclusi nel resto della narrativa del mondo, e non respinti. È solo la speranza di diventare uno stato pienamente riconosciuto un giorno (con tutte le annesse libertà) che ha tenuto in vita i palestinesi in questi ultimi 70 anni – vivi attraverso guerre, blocchi, indegnità e incertezze senza fine. Questi 70 anni hanno trasformato la Striscia di Gaza in una prigione dove tutti stanno scontando l’ergastolo; e anche i figli di tutti avranno un ergastolo; e i figli dei loro figli, e così via.

Il messaggio della protesta è semplice: non possiamo vivere così per sempre; anche dopo 100 anni i palestinesi nasceranno ancora con diritti umani inalienabili, per quanto gli israeliani vogliano affondarli nell’immondizia. Israele non può aspettarsi di godere di pace, stabilità o prosperità mentre siamo ancora rinchiusi in un recinto come animali in una fattoria. La recinzione non è solo una barriera fisica tra due nazioni. È anche una linea concettuale e discriminatoria tra due mondi, due realtà. La miseria di un mondo è la felicità dell’altro; i sogni del primo sono sepolti sotto sette decenni di sabbia dal secondo.

Il primo giorno della grande marcia, ho riso alla vista degli adolescenti che strappavano le foto di Donald Trump. L’America ha rifornito Israele di armi fin dal suo inizio come stato, e i palestinesi conoscono fin troppo bene il ruolo svolto da Washington nel rafforzare e mantenere l’occupazione. Ma la differenza circa la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è che è interamente psicologica; non ha conseguenze se non come una provocazione.

Purtroppo nel secolo trascorso dalla dichiarazione Balfour la comunità internazionale non è mai stata in grado di riconoscere i bisogni del popolo palestinese e lo ha semplicemente trattato come nemico della fede ebraica. I palestinesi sono sempre stati in grado di distinguere tra persone di fede ebraica e lo stato e il governo di Israele; è pura vergogna che, quando si tratta di critiche a quest’ultimo, la maggior parte della comunità internazionale non sia mai stata in grado di fare questa distinzione – e così facendo, ha continuato a fallire l’etica, le norme e le leggi che ha istituito.

Calpestando ogni traccia di narrazione palestinese da come il mondo vede Gerusalemme, Trump ha solo dato smalto all’ipocrisia della comunità internazionale nei confronti della Palestina. Ora che lo smalto è dato, il copione va avanti, puoi farla franca, puoi gettare le basi per i crimini più grandi che verranno.

Negli anni ’90, quando furono firmati gli accordi di Oslo, mia madre si rifiutò di accettare le loro condizioni. Ma quando l’accordo fu concluso, uscì per le strade di Jabaliya, come tutti gli altri, per festeggiare. Pensava che ora poteva finalmente abbracciare suo figlio (mio fratello Naim) alla sua liberazione dalla prigione politica, come parte dell’accordo. Questo abbraccio tanto atteso non c’è mai stato; è morta ancora aspettando quell’accordo per la liberazione.

Con Oslo, i palestinesi hanno acconsentito al minimo dei minimi: uno stato messo insieme con appena il 22% della terra dei padri e delle madri. E Israele non era contento nemmeno di questo – volendo condividere con noi anche questo 22%. La strada per una soluzione a due stati è stata deliberatamente bloccata con ostacoli, barricate, checkpoints e insediamenti.

Quindi cosa succederà? La Grande Marcia del Ritorno potrebbe finire domani, ma le domande che solleva non solo rimangono, ma continuano ad accumulare pressione sul perimetro della prigione della Palestina. Se non cambia nulla, è difficile immaginare quale nuova direzione prenderà questa nazione disperata, dopo un secolo di abbandono politico, 70 anni di dislocamento e – per gli abitanti di Gaza in particolare – 11 lunghi anni di blocco.

 

• Atef Abu Saif è un politologo e autore di The Drone Eats With Me: Diaries from a City Under Fire

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org

Fonte: https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/may/14/palestinians-israel-nakba-day-gazans

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