Tornare al confine è stato per noi come emettere un gemito, un urlo di dolore in faccia ai nostri aguzzini.
Gaza Maggio 2018
La giornata della Nakba si è conclusa con un bilancio da massacro: più di 2000 feriti e più di 60 morti solo a Gaza. Dall’inizio delle manifestazioni al confine il 30 Marzo, quasi un centinaio di civili sono stati uccisi dall’esercito dell’unica democrazia in Medio Oriente.
La stampa italiana sembra non riuscire a spingersi più in là delle informazioni mainstream disseminate brillantemente dal potente organo di propaganda israeliano e tramutatesi prevedibilmente in titoli da prima pagina. “La Repubblica” ritrae un esercito rispettoso, che prima di sparare sui manifestanti ha diligentemente diffuso volantini invitandoli ad “evitare di avvicinarsi alla barriera difensiva”. Un esercito lungimirante che, resosi conto della potenza e dell’inattaccabilità di una dimostrazione pacifica, ha necessariamente dovuto alterare la realtà dei fatti per mantenere intatta la propria maschera.
E’ così che un’azione pacifica è stata trasformata in una rivolta, è così che la spontanea fiamma che ha alimentato le manifestazioni, è stata dipinta come una strumentalizzazione di Hamas, che avrebbe sfruttato le manifestazioni per compiere qualche attacco terroristico con i suoi razzi giocattolo. Scorro gli articoli. Si parla di dimostranti con chiari intenti violenti che, muniti di sassi, molotov e svastiche, hanno cercato di “danneggiare le infrastrutture di sicurezza” di uno dei paesi più potenti al mondo per armamenti e tecnologia.
Un altro articolo del Corriere della Sera mi spiega le 70 buone ragioni per amare Israele: “la prima nazione multietnica che funziona veramente”, “La democrazia è difficile? Lenta? Ha bisogno di tempo? In Israele, una notte, il 14 maggio 1948, fu sufficiente”, “Miracolo israeliano. Prodigio di un legame sociale che poggiava sul nulla”. Lo leggo tutto, mi sorprendo ancora di come le parole possano alterare i fatti e di come la prospettiva possa far diventare vittima il carnefice e viceversa. Chi poteva immaginare che David fosse Golia?
Per contrastare questa disinformazione dilagante ho deciso di contattare una mia recente conoscenza, lo scrittore Atef Abu Saif, uno dei più noti romanzieri contemporanei della Striscia di Gaza, e in prima linea nelle dimostrazioni che in queste settimane si sono alternate al confine con Israele.
Come è nata l’idea della Grande Marcia del Ritorno?
– Si parlava di tornare alle radici della questione, cioè del diritto al ritorno. La questione palestinese non riguarda solo l’aspetto economico, la mobilità, trova il suo motore nei diritti politici. Stavamo organizzando un evento per la giornata della Terra, volevamo perciò parlare della terra in primis.
Nel 2018 però si sarebbe celebrato il settantesimo anniversario della Nakba ed insieme ai giovani e ai vari partiti volevamo fare qualcosa tutti insieme. Da qui l’idea di manifestare al confine, dato che a Gaza non ci sono checkpoint come in Cisgiordania. L’intento tuttavia non era quello di spostare o sfondare il confine con Israele ma di tornare al cuore della questione, di urlare il proprio diritto al ritorno. Perché finché noi non avremo stabilità, neanche Israele l’avrà.
Se non possiamo godere dei nostri diritti neanche Israele potrà mantenere i suoi. Tornare al confine è stato per noi come emettere un gemito, un urlo di dolore in faccia ai nostri aguzzini, per dire loro che noi palestinesi, sradicati e cacciati dalla nostra patria settanta anni fa, non abbiamo dimenticato nonostante i tentativi di rimozione della nostra memoria storica. Anche se mia nonna è stata cacciata dalla sua città natale Jaffa, i suoi nipoti non sono emigrati in Europa, non hanno dimenticato, sono ancora qui, al confine. E questo era ed è il messaggio della Marcia, un messaggio molto semplice. Perché il semplice fatto di schierarci al confine, di fronte a loro, terrorizza i soldati perché rivela la più evidente delle verità e cioè che stanno occupando questa terra.
Siamo disarmati, non abbiamo bisogno di armi, è sufficiente fissarli negli occhi, dico sempre ai miei compagni. Questo è ciò che terrorizza Israele, il fatto che dopo settanta anni siamo ancora qui, perché non dimentichiamo, e ve lo urliamo guardandovi negli occhi. Per questo uccidono civili inermi, perché la nostra memoria e la nostra resilienza è la minaccia più forte alla loro esistenza.
Non abbiamo bisogno di sfondare il confine e se anche volessimo farlo sarebbe abbastanza semplice, ci basterebbe riunire mezzo milione di persone e caricare. Ma questo non avviene sia perché Israele non potrebbe mai uccidere mezzo milione di persone, ma soprattutto perché sappiamo che lo sfondamento del confine porterebbe solo al collasso generale e noi non vogliamo questo. Perché al principio la Marcia è nata per mandare un messaggio preciso e per sollevare domande, per urlare ad Israele e al mondo che i nostri diritti non potranno mai venire meno.
A Gaza la tragedia è iniziata con la Nakba, nel 1948. Ma la Nakba non è un evento fisico in cui un esercito espelle un’intera popolazione gettandola nei campi profughi. La Nakba deriva dalla volontà di far scomparire questo popolo, di operare una pulizia etnica e finché le conseguenze della Nakba non saranno affrontate e risolte appropriatamente, questo evento continuerà ad inficiare il rapporto fra Palestinesi e Israeliani. Non si tratta di scegliere fra un espresso o un caffè americano, fra una lasagna e uno shawarma perché non stiamo parlando della qualità della vita ma della vita stessa. Libertà non significare fare ciò che è possibile, ma scegliere fra le diverse possibilità, avere diverse opzioni, ma noi non abbiamo scelta se non combattere per i nostri diritti.
Certo portare avanti una resistenza non violenta non è facile, è un approccio a lungo termine che non ti permette di raggiungere l’obiettivo in un anno o due, al contrario potrebbe volerci un secolo. Ma per me lanciare pietre non è violenza. Durante la prima Intifada sono stato arrestato e colpito da Israele tre volte. La rivolta scoppiò nel mio campo e la prima battaglia ebbe luogo proprio nel mio quartiere, dove la sera prima giocavamo tranquillamente a calcio. Quando lanciavamo pietre l’intento non era quello di uccidere ma di esprimere nell’unica maniera possibile la nostra rabbia, come se quella pietra avesse il potere di farli desistere dal continuare ad occuparci.
Anche durante la Grande Marcia del Ritorno c’era chi invocava per un approccio violento, molotov e bombe. C’era chi voleva bruciare la bandiera di Israele, ma la maggior parte ha deciso di innalzare quella palestinese, perché non è uccidendo più israeliani che conquisteremo più diritti. C’è bisogno di un impegno individuale e nazionale per la resistenza che ha avuto ed avrà il suo prezzo. Questo forse attirerà la solidarietà del mondo e anche di Israele, perché in fondo c’è una piccola parte della società israeliana che vuole la pace e noi dobbiamo decidere cosa farne di questo “conflitto”. Non si può essere in guerra per sempre, perché alla fine in uno stato di guerra si muore tutti. Se invece si parla di una prospettiva per il futuro, allora dobbiamo continuare a lottare ed i palestinesi vi assicuro non si arrenderanno mai.
Ricordo mia madre Amina, quando Arafat firmò gli accordi di Oslo, scese in strada per sostenere questo passo storico. Mio fratello a quel tempo era in un carcere israeliano e mia madre mi disse: “se Oslo mi ridarà mio figlio, allora sostengo quest’ accordo” mentre io la prendevo in giro per il suo attivismo politico dell’ultima ora. Mia madre è morta senza che suo figlio fosse rilasciato. Questo per dirvi che se il popolo non raccoglie i frutti della pace, allora non avrà più ragioni per sostenerla.
E noi ci abbiamo provato in passato, adesso nessun palestinese crede più alla pace con Israele, e per pace intendo un accordo. Purtroppo Israele firmerà un accordo solo se messo sotto pressione da altri attori internazionali, mai di sua spontanea volontà. Si raggiunge la pace quando la società ne avverte il bisogno e purtroppo la società israeliana ogni volta produce un governo ancora più estremista e guerrafondaio di prima.
Certo, anche noi abbiamo commesso molti errori, non saremmo umani altrimenti. Tuttavia abbiamo pagato un prezzo altissimo per questi errori, mentre Israele non ha mai neanche lontanamente cercato di parlarci, dato che contempla solo una pace in cui può controllarci. Pensate agli insediamenti, a dove sono stati costruiti, nessuno si trova a valle, ma sono tutti sulle colline, in posizioni strategiche dove il controllo diviene anche psicologico.
Cosa pensi sia necessario allora?
-Non si può risolvere questo conflitto con scontri di sangue, è necessario che la società israeliana inizi a sentirne il bisogno. Ed è necessario che noi trasferiamo ciò che è avvenuto a Gaza in una strategia nazionale, perché a dispetto del tentativo di frammentazione della società palestinese da parte di Israele, ciò che sta avvenendo non riguarda solo Gaza ma anche la Cisgiordania e Gerusalemme.
La stampa mondiale ha liquidato queste nuove sollevazioni affermando fossero strumentalizzate e sfruttate dal partito islamico di Hamas. Come rispondi a queste accuse?
-Ovviamente è una falsità, un tentativo di delegittimare un movimento spontaneo , intergenerazionale e transpartitico. L’idea è nata in seno all’ Alto comitato dei partiti nazionali e islamici fondato da Yasser Arafat nel 1995 dopo una visita a Gaza. A quel tempo Hamas e la Jihad Islamica non facevano parte del governo perciò al fine di dialogare con tutte le parti in causa, Arafat fondò questo organo presieduto dai rappresentanti di ogni partito: OLP, FPLP, Fatah, Hamas e Jihad Islamica. Quando si è pensato ad una marcia per commemorare la Nakba, è stato Hamas ad aggiungere “Rompiamo l’assedio” e quindi a dare una sfumatura più violenta all’iniziativa. Più si parla di lui e più Hamas è soddisfatto, convinto che apparire sui giornali possa legittimarlo. In realtà un terzo dei manifestanti erano membri di Fatah. Israele muore all’idea di dire “E’ Hamas”, ed Hamas muore all’idea che si dica “ E’ Hamas”. Ma nel mezzo c’è la verità, nel mezzo c’è la Palestina.
In un tuo saggio intitolato “Israele e l’Unione Europea: una partnership morbida” tocchi la spinosa questione della cooperazione con Israele e le responsabilità internazionali. Puoi declinare meglio questo concetto?
-Tutti sanno che Israele sta violando il diritto internazionale, come sanno che è una creatura illegittima del sistema mondiale. Ma nessuno gli volta le spalle. Israele gode di forti legami con gli stati europei, sia a livello politico che economico, potremmo quasi considerarlo uno stato membro senza però dirlo ad alta voce. Le aziende e le università israeliane possono chiedere e ottenere finanziamenti dall’Unione Europea, fondi che vengono poi utilizzati per sviluppare armi e tecnologie per commettere crimini contro Gaza. Ad esempio l’Università di Haifa, finanziata dall’UE, sviluppa le tecnologie di base che la Rafael Advanced Defence Systems utilizza per costruire i droni. Inoltre molti stati europei hanno partnership militari con Israele a partire dalla costruzione delle navi fino all’esportazione dei full body scanner made in Netherlands. Per non parlare dei prodotti che provengono dalle colonie e che vengono rietichettati invece come made in Israel. C’è uno scarso controllo sull’applicazione della normativa sull’indicazione del luogo d’origine dei prodotti che invece aiuterebbe a boicottare tutto ciò che viene prodotte nelle colonie che illegalmente sfruttano terreno, risorse e lavoratori palestinesi.
Anche a livello politico: perché l’Italia, la Francia, l’Inghilterra non riconosco lo stato di Palestina? Non si tratta di interessi economici dato che queste nazioni hanno più scambi commerciali con i Paesi arabi che con Israele. Sai qual è il motivo ? E’ la mentalità politica di queste nazioni che impedisce loro di staccarsi da questa cooperazione morbida. Non ci sono tradizioni o cultura in comune con Israele, l’Italia e la Spagna ad esempio hanno molto più in comune con i paesi arabi sotto questo punto di vista. Poi certo c’è l’incondizionato appoggio statunitense che ha una certa influenza sui paesi EU. Ma ciò che mi lascia perplesso è che anche paesi come il Kazakistan , che hanno beneficiato degli investimenti e dei sistemi di sicurezza israeliani e rappresentano nell’area asiatica uno dei suoi maggiori partner, hanno riconosciuto lo stato di Palestina mentre l’Europa no. Ha semplicemente scelto di stare dalla parte di Israele, dell’oppressore.
Cosa ti aspetti succeda?
-Israele deve fare una scelta. O accetta un unico stato o accetta il piano di partizione creandone due.
Credi che la soluzione dei due stati sia ancora percorribile?
-No. Gli insediamenti hanno per sempre distrutto questa opzione, ma non posso accettare uno stato unico così come è adesso. Significherebbe essere una minoranza politica e quindi condannati ad essere cittadini di seconda classe. Credo in uno stato a doppia etnia. Ma soprattutto nell’unità, i palestinesi non dovrebbero dividersi, dovremmo sviluppare una strategia unica per la sopravvivenza. Ma non posso chiedere agli abitanti del mio villaggio di resistere, di boicottare i prodotti israeliani se il nostro ministro se ne sta in un hotel che serve solo prodotti israeliani.
Hai sempre vissuto nel campo profughi di Jabaliyya, nonostante tu abbia avuto la possibilità di emigrare. Cosa ti ha fatto restare?
-Se parliamo della qualità della vita, questa si può sempre migliorare. Ma la salvezza non è individuale secondo me, io avrei potuto vivere una vita meravigliosa all’estero. Potrei trasferirmi anche adesso, con mia moglie e i miei figli in Europa, in America. Ma questa non sarebbe una salvezza collettiva. Ovvio, non posso e non voglio caricarmi sulle spalle il peso e il destino della Palestina intera, ma alla fine cosa proverei se scappassi all’estero, a godermi un’altra vita e poi pensassi ai miei fratelli, ai miei compagni?
Mi domando, se tutti scappiamo, chi cambierà il destino di questa terra? Non siamo profeti, non ne abbiamo bisogno così come non abbiamo bisogno di altra religione ma di un’idea semplice. Che tipo di vita vogliamo vivere? La vita consiste nel portare un sorriso nei bambini per strada, nella convinzione di trasformare tutto questo in un futuro migliore. All’estero non posso fare alcuna differenza, cos’avrei fatto se fossi rimasto a Londra o in Toscana? Starei scrivendo i miei romanzi, le mie storie sui profughi di Gaza mentre dal mio balcone ammiro le meravigliose colline senesi, magari con il mio narghilè accanto per ricordarmi del mio arabismo?
No, non è questo che voglio anche se avrei potuto averlo. Io scrivo della vita vissuta, le mie storie fanno sentire il lettore parte della vita reale, questo è quello che faccio. Sono stato fortunato a ricevere un’educazione e invece di essere in un carcere israeliano mi sono laureato. Voglio utilizzare al meglio questo tempo che mi è stato concesso, questa mia fortuna. Nel mio piccolo scrivo delle persone, non sono il miglior romanziere ma ho un talento e voglio metterlo a servizio delle persone, del loro dolore, della loro delusione, dei loro sogni e del loro futuro. Attraverso la mia scrittura posso far sopravvivere le loro vite anche se non erano quelle che sognavano. Perché i palestinesi vivono tre vite: la vita che poteva essere, la vita che vivono e quella che avrebbero desiderato. La vita che poteva essere è legata al chiedersi come sarebbe stato se non ci fosse stata la Nakba. A volte penso che sarei potuto essere il sindaco di Jaffa. La vita che desiderano è connessa a quella che vivono, se c’è depressione la gente pensa di partire, di emigrare. E le persone di cui parlo hanno queste tre vite e la letteratura che trascende il tempo, mi permette di esprimere tutto questo.
La cultura quindi che ruolo ha?
La cultura ti fa rimanere umano. Tutte le canzoni nazionali sono sulla vita, il folklore parla della vita non della morte. Celebrano la vita, anche il nostro inno “Mawtini” scritto dal poeta Ibrahim Tuqan celebra la bellezza di questa terra, il profumo dei fiori, la sinuosità delle sue colline. Io ho scelto di essere un autore per un motivo. Mia nonna era una donna ricca, molto bella aveva una villa a Jaffa, è morta povera in un campo profughi. Lei viveva nel passato, aveva perso la vista durante la Nakba e mi raccontava sempre storie sul passato ed io volevo solo scrivere di lei per farla vivere eternamente, questo era il mio sogno. Ho registrato tutto da quando avevo sei anni, e prima o poi troverò le parole per raccontare la sua storia. Io non voglio essere uno scrittore nazionale, un profeta, voglio solo scrivere di mia nonna.
Shaza da Gaza