L’invenzione del popolo ebraico

Un libro imbarazzante per i sionisti, perché è stato scritto non da un palestinese, ma da Shlomo Sand, un professore di Storia Contemporanea dell’Università di Tel Aviv. (Copertina: 29 maggio 2018, Shlomo Sand all’Università di Milano – Foto Invictapalestina)

ANTONIO MOSCATO, 10/12/10

In occasione di ogni iniziativa in difesa dei diritti dei palestinesi (poche, purtroppo, rispetto a quelle che sarebbero necessarie per cancellare la più grande ingiustizia dei nostri tempi, di cui il nostro paese è vergognosamente e direttamente complice) avevo spesso rispolverato un mio testo particolarmente ben riuscito, tanto è vero che ha avuto un record di visite sul sito, oltre ad essere stato ristampato più volte da varie sigle della sinistra politica e sindacale: Ebrei e palestinesi nella storia: miti e realtà. Finalmente posso però segnalare un nuovo testo che affronta ben più ampiamente, in più di cinquecento pagine, le stesse tematiche, arrivando in gran parte alle stesse conclusioni, come si può immaginare anche dal titolo: L’invenzione del popolo ebraico.

Un libro imbarazzante per i sionisti, perché è stato scritto non da un palestinese, ma da Shlomo Sand, un professore di Storia Contemporanea dell’Università di Tel Aviv, a cui l’establishment accademico del suo paese non ha perdonato la rigorosa analisi del carattere artificioso della costruzione dei miti fondanti di Israele; ha infatti cercato di distruggerlo facendo leva su alcuni peccati ritenuti gravi nel mondo accademico: l’interdisciplinarità, e lo sconfinamento nel campo rigorosamente delimitato della “Storia del popolo israelitico”. Che c’entra un contemporaneista? Per giunta Sand ha ricostruito onestamente il suo itinerario intellettuale e le figure che lo hanno spinto a riflettere, in famiglia, e perfino tra gli studenti. Altro peccato imperdonabile: scrive per passione!

Applicandosi alla storia antica Shlomo Sand ha scoperto che praticamente nessuna delle fonti parla della deportazione degli ebrei, che invece è un luogo comune intoccabile nella cultura israeliana e sionista. Forse il capitolo più interessante è appunto il terzo: L’invenzione dell’Esilio, che ha come sottotitolo una citazione dal libro biblico di Ester: “E molti pagani si fecero Giudei”. Infatti comincia ad esaminare una fonte primaria, Giuseppe Flavio, per proseguire poi con “tutta la ricca documentazione romana”, nella quale non si trova né una prova né un accenno a un qualsiasi esilio forzato dalla Palestina, o a una concentrazione di rifugiati ai confini della Giudea, come sarebbe stato logico se ci fossero stati consistenti spostamenti di popolazione. Ovviamente la spiegazione deriva da un dato generale: sia i romani che gli assiri o i babilonesi non deportavano completamente le popolazioni delle zone conquistate: “sradicare il popolino, produttore agricolo e principale fonte di imposte, non era per nulla vantaggioso”. Per giunta se anche avessero voluto farlo, non avrebbero avuto i mezzi per poterlo fare, non esistendo ancora camion, treni o grandi navi come nel mondo moderno.

La spiegazione è irritante per i sionisti: all’inizio dell’era volgare la maggior parte degli ebrei, come conferma lo stesso Giuseppe Flavio, non erano commercianti (questi, insieme ai mercenari e alle élites non potevano superare il 10% della popolazione), ma contadini, che rimasero in genere legati al loro podere. D’altra parte nelle numerose colonie ebraiche formatesi in Egitto e nell’Africa settentrionale le comunità di religione ebraica spesso non parlavano ebraico o aramaico, ma la lingua locale. Anche i nomi degli “emigrati” non erano solitamente ebraici, dato che non erano emigrati, ma convertiti.

D’altra parte oltre alle abbondanti testimonianze bibliche sulle conversioni all’ebraismo (con inviti al mondo intero ad accettare la religione di Mosè), Sand ricorda le conversioni forzate durante il periodo delle rivolte dei Maccabei e dei regni giudaico-ellenistici degli Asmonei, che ad esempio imponevano la circoncisione ai popoli conquistati.

Fino a questo punto ho apprezzato che uno studioso di Israele esponesse con una grande mole di esempi alcune delle cose che molto più modestamente avevo scritto io in forma sintetica. Non c’era neppure una grande sorpresa, avendo verificato che una parte notevole delle fonti usate da Sand erano le stesse mie. Più nuove mi sono apparse però le considerazioni sulle circostanze che, tra il primo secolo avanti Cristo e il primo successivo, hanno portato a una così vasta diffusione della religione di Mosè in tutto il bacino del Mediterraneo: non la presunta deportazione dopo la distruzione del tempio, ma l’integrazione con la cultura ellenistica, in parallelo e non senza contatti con la diffusione e trasformazione del cristianesimo ad opera di Paolo di Tarso. Sand descrive decine di episodi, citati da autori latini come Marziale, o descritti negli stessi Atti degli apostoli, che attestano l’esistenza di “una zona grigia tra un paganesimo titubante, una parziale conversione e la totale adesione all’ebraismo”. Alla fine tuttavia il processo si interruppe e si fece strada il cristianesimo, che si presentava come una fede più aperta e duttile. È solo dopo questa relativa sconfitta che nel giudaismo rabbinico comincia a diffondersi la diffidenza verso le conversioni e la convinzione che i proseliti o i figli dei proseliti fossero meno saldi nella fede, soprattutto quando la religione concorrente, integratasi con il potere statale, cominciò a perseguitare gli ebrei.

Ma Shlomo Sand descrive anche un altro processo storico che smentisce la tesi della deportazione in massa degli abitanti della Giudea, spiegando che la presunta “scomparsa” degli ebrei comincia nel 324, quando la provincia palestinese passò sotto la sfera d’influenza bizantina e quindi cristiana, ma fu frutto di conversioni al cristianesimo, che comunque non cancellarono totalmente la presenza ebraica, tanto è vero che nel 614 vi fu ancora una rivolta ebraica in Galilea. Ma poco più di venti anni dopo un colpo più forte alla presenza ebraica venne dalla conquista islamica. Non con una cacciata degli ebrei (che tra l’altro avevano accolto favorevolmente i conquistatori) ma con una nuova ondata di conversioni. Infatti “uno dei segreti della forza dell’esercito musulmano era il suo essere «liberale» e moderato nei confronti delle nazioni conquistate, naturalmente solo nel caso fossero monoteiste”, e alla sola condizione che ebrei e cristiani pagassero una tassa da cui i “credenti” erano invece esentati.

Interessantissima poi la storia delle tappe della rimozione progressiva del ricordo di questi processi di conversioni reciproche all’ebraismo e all’islam, che era ancora presente in alcuni dei primi sionisti di sinistra, come Borochov e lo stesso Ben Gurion, che nel 1918 aveva scritto che “i fellahin non discendono dai conquistatori arabi che (…) non sterminarono la popolazione rurale che trovarono nel paese; espulsero solo i dominatori stranieri bizantini, senza fare alcun male alla popolazione locale”.

D’altra parte i conquistatori erano pochi (in tutta l’area, compresa la Siria, si calcola che fossero circa 40.000), e non avevano al seguito i loro contadini, “quasi inesistenti presso di loro”. Ancora nel 1927 la stessa tesi era stata riproposta, ma il moltiplicarsi delle rivolte palestinesi, già prima di quella del 1936-1939, e la scelta sionista di partecipare alla loro repressione insieme ai colonialisti britannici, resero inopportuno ricordare che gli abitanti della Palestina avevano su quella terra uguali e forse maggiori diritti “storici” di quanti ne avessero gli immigrati dall’Europa.

Delle conversioni in Europa e nel mondo, Shlomo Sand parla in diverse occasioni, ma soprattutto nel quarto capitolo affronta un tema molto scottante: i regni ebraici dimenticati, come quello dei Cazari delle steppe russe, o quello di Abu Nuwas nello Yemen, tutti frutto di conversioni dei sovrani e poi, come era allora consuetudine, dei notabili e dello stesso popolo. Ma aggiunge diversi altri dati, ad esempio spezzando molte lance a favore della tesi dell’apporto dei Cazari alla formazione della popolazione “ebraica” dell’Yiddishland, grazie a fonti che non conoscevo, perché contenute in studi in ebraico che Sand ha potuto vedere, nonostante ne fosse stata bloccata la distribuzione.

Shlomo Sand pone altri problemi interessantissimi sulla diffusione dell’ebraismo nell’Andalusia, che ritiene in parte giunto al seguito delle armate islamiche, che avevano reclutato, prima di passare in Europa, truppe berbere. E tra i berberi c’era stato un regno ebraico con una misteriosa regina Kahina, che forse aveva origini fenicie (e non a caso diversi studiosi si erano domandati dove erano finiti i fenici, ipotizzando una conversione all’ebraismo…). Quindi non solo gli askhenaziti, ma anche i sefarditi scacciati dalla Spagna dopo la riconquista hanno in parte origini eterogenee rispetto all’antico popolo ebraico descritto dalla Bibbia.

Queste tesi sono basate non solo su fonti storiche arabe, berbere o ebraiche antiche, ma anche su testimonianze epigrafiche, e su osservazioni di tracce linguistiche dell’ibridazione e delle conversioni (analoghe a quelle riscontrate nei dialetti arabi-palestinesi), anche nella toponomastica, che rivelano una percentuale molto alta di parole di origine ebraica e aramaica.

Fuggevole invece l’accenno al caso dei falashà o “Beta Yisra’el” dell’altipiano etiopico, contenuto solo in una nota di una quindicina di righe, mentre francamente poteva fornire anche più clamorose conferme alla tesi della formazione del “polo ebraico” come effetto di conversioni. Dimenticanza o reticenza di fronte a una vicenda che continua a suscitare imbarazzo? In ogni caso è preziosa la ricostruzione storica della progressiva rimozione dei dati riguardanti l’apporto di masse di convertiti alla formazione delle diverse popolazioni ebraiche.

Molte pagine sconcertanti sono dedicate all’evoluzione del concetto di “razza”, accettato largamente dai primi sionisti come Nathan Birnbaum, Theodor Herzl o Israel Zangwill e soprattutto Max Nordau. Il capitolo (La gloria e lo splendore: politica identitaria in Israele) è interessante e a tratti sconvolgente per un sionista. Ad esempio Sand cita un racconto di Walter Benjamin su “un famoso automa giocatore di scacchi, noto con il nome di Turco, che sbalordiva il pubblico con l’abilità delle sue mosse” e in realtà era un nano gobbo che dirigeva sapientemente il gioco. Per Benjamin l’automa incarnava il pensiero materialista, mentre il nano nascosto rappresentava la teologia, costretta a nascondersi nell’epoca del razionalismo moderno.

Per Sand questa stessa immagine può essere applicata alla cultura scientifico-biologica in Israele e alla sfera pubblica che si nutre delle sue scoperte: “l’automa della genetica gioca a scacchi soltanto in apparenza; la verità è che il piccolo gobbo, ossia l’idea tradizionale della razza, costretta a nascondersi per seguire l’ideologia universale del «politicamente corretto», di fatto continua a dirigere l’appassionante spettacolo dei cromosomi”.

Sand conclude che “in uno Stato che si definisce ebraico ma in cui non esiste alcun tratto culturale distintivo in grado di definire un’esistenza ebraica laica universale (fatta eccezione per le rare vestigia di folklore religioso ormai secolarizzate), l’identità collettiva ha ancora bisogno dell’immagine sfocata e incoraggiante di un’antica origine biologica condivisa. Dietro ogni iniziativa statale di politica identitaria israeliana incombe sempre l’ombra lunga e minacciosa dell’idea di un popolo-razza eterno”. Si capisce perché Sand in Israele non è molto amato…

L’ultimo capitolo, dopo molte polemiche con alcuni suoi critici, a volte divertenti per la pesante ironia, affronta il problema della democrazia in Israele.

Dopo aver ammesso che in Israele permangono molti tratti distintivi liberali, e che “anche in epoche segnate da duri conflitti militari si sia mantenuto un certo pluralismo”, Shlomo Sand conclude che “il liberalismo israeliano è però limitato e limitante e i diritti del cittadino sono costantemente violati. Per esempio, l’impossibilità di contrarre matrimoni civili e celebrare funerali civili che non siano privati, l’assenza di trasporti pubblici durante lo shabbat e le festività, e la costante violazione dei diritti di proprietà terriera dei cittadini arabi sono aspetti molto poco liberali nella legislazione e nella cultura quotidiana israeliane. Inoltre, la più che quarantennale dominazione su un intero popolo, completamente privato dei suoi diritti, nei Territori occupati a partire dal 1967, non ha contribuito all’affermazione e all’ampliamento di un solido e apprezzabile liberalismo nelle zone sotto la giurisdizione di Israele.”

Ma, insinua Sand, visto che nel paese si svolgono elezioni generali e il governo è scelto da tutti i suoi cittadini, “si potrebbe considerarla una democrazia classica, con il controllo su un territorio coloniale.” Qualcosa di simile alle potenze europee del passato. Ma forse è un po’ in ritardo rispetto al panorama mondiale, conclude.

Probabilmente ancora una volta qui fa dell’ironia. Infatti, poco dopo, è più netto, e denuncia che “l’ostinato rifiuto delle élite politiche, giudiziarie e intellettuali di una più ampia universalizzazione dell’identità dominante entro i confini dello «Stato ebraico», rende difficile qualunque percorso teorico che tenti di definire Israele una democrazia”. E aggiunge ancora: “L’impostazione essenzialista dell’identità ebraica e non ebraica, e la definizione di Stato da essa dipendente, nonché l’ostinato rifiuto pubblico di caratterizzare Israele come una repubblica di tutti i cittadini israeliani, è intrinsecamente incompatibile con l’esistenza di una democrazia di qualunque tipo.”

Continuando nella ricerca di una definizione sintetica (“pur non trovandoci nel campo della zoologia e difettandoci la precisione terminologica propria dell’ambito scientifico”), Sand azzarda un’altra caratterizzazione. Israele sarebbe una “etnocrazia”, o per essere ancora più precisi, “un’etnocrazia ebraica con tratti distintivi liberali”, cioè “uno Stato il cui scopo principale non è essere al servizio di un «démos» civico egualitario, ma di un «éthnos» biologico-religioso, assolutamente fittizio dal punto di vista storico, ma pienamente vitale, esclusivo e discriminante nella propria essenza politica. Questo Stato, malgrado il liberalismo e il pluralismo a esso connaturati, è costretto con mezzi ideologici, pedagogici e legislativi a isolare l’«éthnos» prescelto non solo dai propri cittadini che non sono definiti come ebrei e dai figli dei lavoratori stranieri per i quali Israele è il paese natale, ma anche dal resto dell’umanità”.

La definizione è un po’ macchinosa, ma rende l’idea, e prepara una conclusione allarmata: “Quella stessa mitologia risultata tanto efficace per la sua fondazione potrebbe mettere a repentaglio la sua esistenza futura”.

 

Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2010, pp. 536, euro 21,50.

 

Fonte: http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=399:linvenzione-del-popolo-ebraico&catid=7:medio-oriente-e-mondo-arabo-islamico&Itemid=17

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