Negli ultimi 11 anni ai giornalisti israeliani è stato vietato l’ingresso a Gaza. Questo ha influito non solo sui loro articoli, ma anche sul modo in cui i lettori israeliani comprendono quello che sta succedendo lì. Copertina – Telecamere appartenenti a troupe televisive sistemate sul lato israeliano della barriera di Gaza tentano di riprendere gli scontri vicino alla recinzione, 15 maggio 2018. (Oren Ziv / Activestills.org)
Oren Ziv, 19 maggio 2018
L’ostacolo principale che deve affrontare chiunque voglia riferire su ciò che sta accadendo nelle proteste a Gaza stando sul lato israeliano della barriera è che si possono sentire gli spari, vedere il fumo, si può riferire sulla condotta dell’esercito e stimare il numero di manifestanti – e tuttavia, non è possibile avere la storia completa. Un giornalista di Gerusalemme Est che copre spesso le vicende alla barriera, riassume perfettamente:
“Possiamo sentire i proiettili, ma non possiamo vedere il sangue”. Da quando Israele ha messo sotto assedio Gaza 11 anni fa, ai giornalisti israeliani è stato proibito entrare nella Striscia, sia in tempo di conflitto che di calma. Questa non è mai stata una decisione di Hamas, è stata di Israele.
Intorno a mezzogiorno decine di palestinesi si radunano nell’accampamento della Grande Marcia del Ritorno all’estremità settentrionale della Striscia di Gaza, e l’esercito israeliano spara grandi quantità di gas lacrimogeni per disperderli. La mattina presto i giornalisti della parte israeliana sono rimasti ad argomentare se sarebbe stata una giornata tranquilla o se le violenze si sarebbero scatenate dopo le preghiere di mezzogiorno e i funerali dei 60 palestinesi uccisi il giorno prima. Nonostante voci contrastanti l’accampamento della Grande Marcia del Ritorno era ancora lì.
Venti chilometri a sud della barriera, incontro Bar Hefetz, un membro del kibbutz, contadino e attivista di sinistra del kibbutz Nirim. Mi accompagna per un giro lungo il confine sul suo veicolo concesso dal kibbutz, e tra i banani si possono vedere le postazioni dei soldati. “A meno che non si vada nei campi, si sentono a malapena gli spari su Gaza”, racconta Hefetz della vita quotidiana all’ombra delle proteste che si verificano a meno di un chilometro da casa sua nelle ultime settimane.
Continuiamo fino a raggiungere un edificio. Hefetz dice che fino al 1948 era stata la scuola di Abu Sitta, un villaggio che fu distrutto e i cui abitanti furono espulsi durante la Nakba. Da allora, i suoi abitanti vivono a Khan Younis, nella Striscia di Gaza, il cui quartiere orientale può essere visto dai campi del kibbutz.
“Non fa paura. Non mi preoccupo che qualcuno venga qui “, dice quando gli viene chiesto della possibilità che masse di palestinesi sfondino la recinzione. “Nessuno ha mai pensato che le persone avrebbero varcato la barriera. Solo un piccolo gruppo è riuscito a farlo. Si sono fatti delle foto l’un l’altro con le bandiere e sono tornati indietro.”
Sulla parete nell’ufficio di Hefetz, accanto alle mappe della regione, è appeso un “aquilone-bomba”. Hefetz l’ha trovato mentre guidava nei campi. La sua coda colorata è collegata a una lattina di Coca-Cola riempita con materiale infiammabile. Gli aquiloni, volati da Gaza verso Israele, hanno innescato decine di incendi nei campi oltre il recinto.
Oggi a Nirim vivono 400 persone, un kibbutz fondato dal movimento giovanile di sinistra Hashomer Hatzair. “C’è una varietà di opinioni, ma tutti sono di sinistra in un modo o nell’altro”, spiega Hefetz. “Le persone in quest’area – sostenitori di destra di Sderot o di sinistra di Nirim – sono definite molto più dal loro conservatorismo e fatalismo. La sensazione di non avere alcuna influenza, che nulla cambierà”. Hefetz di se stesso dice di non ritenere di essere rassegnato al destino.
“Penso che le persone possano cambiare. Ma per questo abbiamo bisogno di una massa di persone, non necessariamente di un grande. I capi dei consigli regionali sono in una posizione difficile, spiega Hefetz. “Anche se la pensano come me, hanno ancora bisogno di mantenere buoni rapporti con il governo per i loro bilanci”.
Opportunità perse
Nello stesso momento la leader di Meretz, Tamar Zandberg, e il deputato di Meretz alla Knesset, Mossi Raz, stanno visitando il kibbutz insieme ad Avi Dabush, un membro del partito locale. Nirim è una delle tappe del loro viaggio verso sud, che ha incluso una visita a Sderot, al Consiglio regionale di Eshkol e un giro lungo la barriera. “Siamo venuti qui perché abbiamo percepito la frustrazione. Eravamo qui prima di Pasqua, un giorno prima della prima grande protesta, e abbiamo avvertito che questo sarebbe successo”, dice Zandberg. “Sapevamo che sarebbe accaduto un gran numero di eventi per la protesta di lunedì e per il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti, che oggi sembra una mossa molto inutile e cinica”.
“Sono state perse così tante opportunità”, continua Zandberg. “Dal cessate il fuoco offerto la scorsa settimana fino alle richieste di aprire un porto marittimo e permettere ai lavoratori di Gaza di entrare in Israele.” Che genere di messaggio lei darebbe ai soldati di stanza al confine? “Il messaggio più semplice è: devi aprire il fuoco solo in situazioni potenzialmente letali. Queste sono le regole di ingaggio dell’IDF, così come per il diritto israeliano e internazionale. Non puoi aprire il fuoco quando non c’è nessuna minaccia per la tua vita.”
“Netanyahu e Hamas hanno lavorato insieme per portarci a questa situazione”, dice Raz mentre ci troviamo nella caffetteria del kibbutz. “Dobbiamo aprire un porto a Gaza, concedere permessi di lavoro e alleviare il blocco e l’assedio che ci hanno portato dove siamo oggi”. Raz dice che dobbiamo ricordare che Israele è entrato a Gaza un certo numero di volte in questi ultimi anni. “Negli ultimi quattro anni abbiamo attraversato la barriera per spianare la zona cuscinetto oltre la recinzione. Più di 100 volte dall’operazione Protective Edge. Non posso giustificare l’apertura del fuoco contro l’IDF e dunque non posso giustificare l’apertura del fuoco contro i palestinesi che si avvicinano alla recinzione”.
I membri della Knesset lasciano il kibbutz e decido di chiamare una giornalista straniera che è stata a Gaza negli ultimi giorni. Forse attraverso i suoi occhi riusciremo a capire meglio cosa sta succedendo oltre la recinzione. E’ una giornalista veterana che ha coperto una serie di sanguinose zone di conflitto. È decisamente sconvolta. “Ieri è stata una follia”, dice. “Ad un certo punto ho smesso di contare il numero delle persone ferite che sono state evacuate dall’area.” Descrive una scena alla protesta principale a Jabaliya, di fronte al Kibbutz Nir Oz. “Le persone che stavano accanto a me, a centinaia di metri dalla recinzione, che non facevano nulla, sono state colpite dai cecchini. Qualcuno che stava vicino a me è stato colpito in mezzo agli occhi”, dice. In un altro caso, ha detto di aver visto l’autista di alcuni giornalisti stranieri colpito mentre era in piedi accanto a loro.
Torno a Black Arrow, il sito commemorativo della precedente guerra a Gaza, che si trova alla barriera settentrionale, da dove riferiscono decine di troupe televisive. Il portavoce dell’IDF permette ai giornalisti di riunirsi qui, ed è da qui che si possono vedere gli accampamenti dall’altra parte della recinzione. Possiamo vedere solo poche decine di persone in piedi e una gigantesca bandiera palestinese che sovrasta le tende bianche.
Da questa distanza, tuttavia, è impossibile sapere cosa sta succedendo dall’altra parte della barriera. I giornalisti che stanno riferendo dal confine sono, infatti, lontani dall’azione. Da quando è stato posto l’assedio, le informazioni che raggiungono gli israeliani attraverso i media sono sempre di seconda o terza mano. Spesso i report e le fotografie sono del portavoce dell’IDF o altre autorità israeliane, qualche volta di giornalisti, attivisti e ONG palestinesi o stranieri.
Spesso ci viene impedito di raggiungere il confine stesso. I giornalisti israeliani non mettono piede a Gaza da 11 anni. Non hanno visto con i loro occhi quello che stanno raccontando, non sono stati in grado di fare reportage di prima mano o reportage incrociati, rendendo possibile mantenere lontano dagli occhi del pubblico la catastrofe in corso a Gaza.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call. Leggi qui.
Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org
Fonte:https://972mag.com/how-do-israeli-journalists-report-on-a-place-they-cant-reach/135598/