*Jeremy Salt – È affascinante vedere qualcuno che pianta i chiodi in una bara, pensando che sia destinata ad un’altra persona, senza essere consapevole che potrebbe essere la sua.
Jeremy Salt, 7 agosto 2018
FOTO – Trasformare la Palestina in una terra modificata dove la popolazione autoctona è imprigionata davanti a delle colonie la cui architettura evoca l’epoca di Mussolini – Foto: ActiveStills
Gli ultimi chiodi nella bara della Palestina occupata sono la legge “Israele, Stato-Nazione del popolo ebraico”, l’interdizione di aule scolastiche e universitarie a chiunque critichi le cosiddette “forze di difesa israeliane” e la legislazione attualmente in discussione che consentirebbe alle comunità ebraiche di vietare agli “arabi” di vivere in mezzo a loro.
Israele non è mai stato definito come lo stato dei suoi cittadini, perché questo significherebbe che dovrebbe includere i palestinesi. L’unico cambiamento è che la discriminazione è ora sancita dalla legge.
La legge è in ogni modo fasulla. Non c’è nessun “popolo” ebraico, figuriamoci una “nazione” ebraica. Ci sono comunità ebraiche in tutto il mondo, separate da etnia, lingua, storia e cultura, con la religione come il loro unico legame. Non hanno votato per far parte di questa enclave “Stato-nazione” di coloni nel cuore del Medio Oriente e, senza alcun dubbio, quasi tutti voterebbero contro.
Gli ebrei non sono più popolo o nazione di quanto non lo siano i musulmani che dovessero definirsi popolo o nazione, sebbene Elijah Muhammad abbia fatto il tentativo con la “Nazione dell’Islam”. Gli stati moderni sono gli stati di tutti i loro cittadini, indipendentemente da religione o etnia.
Dal momento che lo stato sionista, colonizzazione di insediamento, non si considera come stato di tutti i suoi cittadini, ma si definisce ormai giuridicamente come Stato-nazione ebraica, dando la priorità agli israeliani ebrei e agli ebrei di tutto il mondo, da un punto di vista costituzionale non può essere considerato come uno stato moderno ma piuttosto come una regressione verso tempi più primitivi.
La legge è stata introdotta da Benjamin Netanyahu, discendente di coloni polacchi, figlio di un certo Benzion Netanyahu, che fu il segretario privato di Ze’ev Jabotinsky. Il figlio, come il padre, si è convertito all’attuazione della dottrina del “muro d’acciaio” di Jabotinsky contro la popolazione autoctona della Palestina.
Era una popolazione reale, i cui membri non erano legati solo dalla religione, ma dalla cultura, dalla lingua, dalla geografia e da una lunga storia. Se i sionisti avessero scelto di stabilirsi in mezzo a loro, invece di cercare di sradicarli, se non avessero scelto la via della discriminazione, della segregazione e dell’esclusione sostenuta da una violenza inaudita, avrebbero potuto far parte anche loro di un vero popolo.
Invece, il loro Stato è rimasto un trapianto razzista e artificiale, con similitudini ideologiche con la Germania nazista e il Sud Africa dell’apartheid. Deve la sua sopravvivenza, non alla forza della legge, della giustizia o del senso morale, ma alla forza bruta.
È il “ministro dell’educazione”, Naftali Bennett, leader del partito fascista “La casa ebraica” che deciderà chi è adatto a insegnare nelle scuole e nelle università. Il signor Bennett è famoso per essersi vantato dicendo: “Ho ucciso molti arabi nella mia vita e questo non è un problema.”
Nel 1996, durante l’Operazione Furore nel sud del Libano, è questo intrepido guerriero che, però, messo alle strette da Hezbollah e reso isterico dalla paura, chiese come rinforzo un attacco aereo che fece più un centinaio di morti tra i civili che si erano rifugiati nel campo delle Nazioni Unite a Qana. Ancora più estremista di Netanyahu, con una tradizione di leadership sionista, Bennett è un colono di origine americana.
I coloni che vogliono che la segregazione sia giuridicamente legalizzata non sono diversi dai tedeschi degli anni 1930 che non volevano vivere con degli ebrei, dagli americani che non volevano vivere con dei “negri” e dai coloni bianchi in Africa che non volevano vivere con dei Neri.
Da un punto di vista realistico, Israele è un ghetto in Medio Oriente. Si è circondato di una recinzione o di un muro, per proteggersi da Gaza, dall’Egitto, dalla Siria e dal Libano e dai palestinesi della Cisgiordania.
Questo ghetto è anche uno stato guarnigione, armato fino ai denti, noto per distruggere chiunque si metta di traverso sulla sua strada. I suoi uomini e donne politici minacciano di ricorrere alla violenza quasi ogni giorno. Ha appena bombardato ancora una volta Gaza per impedire che degli aquiloni con piccoli meccanismi incendiari ne attraversino la recinzione.
Gli aquiloni hanno uno scopo simbolico, far sapere ai sionisti che qualunque cosa facciano, la resistenza continuerà. Eppure i sionisti reagiscono come se si abbattesse su di loro una pioggia di missili. Ogni taglio, ogni graffio sulla sabbia dove questi proiettili atterrano viene presentato al mondo come ulteriore prova dell’iniquità palestinese.
Lo stesso vale per i razzi veri sparati oltre il recinto. Sono attrezzi primitivi, causano pochi danni e raramente uccidono chicchessia, tuttavia, quando uno atterra vicino a una casa o a un campo di gioco, lo stato sionista si comporta come se fosse vittima di un grosso attacco militare.
Le conseguenze per i coloni ebrei dall’altra parte della recinzione di Gaza vengono esagerate al massimo. Sono mostrati in rifugi antiaerei mentre tremano di paura. Qualcuno è in preda a un attacco di panico, altri hanno subito “ferite superficiali”, cioè graffi o piccoli tagli, e c’è una buca nella strada. L’entità dei danni è più o meno questa, ma Israele passa immediatamente all’offensiva sostenendo che non ha altra scelta che attaccare.
Le attuali minacce verbali che promettono nuove guerre provengono principalmente dal cosiddetto “Ministro della Difesa”, un immigrato moldavo di nome Avigdor Lieberman, il cui addestramento alla difesa si riduce al periodo che ha trascorso come buttafuori nei locali notturni nella sua vita precedente. Lieberman dice che non ci sono civili innocenti a Gaza, giustificando così retrospettivamente e in anticipo il loro assassinio per mano delle forze di occupazione.
Lieberman attualmente risiede nell’insediamento di Nokdim in Cisgiordania con la sua moglie moldava. Prima di decidere di unirsi all’occupazione della Palestina nel 1978, viveva a Chișinău, dove nel 1903 un pogrom provocò la fuga degli ebrei verso ovest. Che ribaltamento della storia per un uomo allevato in una città conosciuta per il pogrom in cui il suo popolo fu la vittima nel 1903 e che ora si dedica a una politica basata sul pogrom nella Palestina occupata!
Se “Israele” non è la patria di tutti i suoi cittadini, non è neanche lo “stato-nazione” del popolo ebraico, nonostante la legislazione. Sempre più spesso gli ebrei di tutto il mondo si dissociano da questo stato e dalla sua ideologia. Non lo vogliono. Lo vedono per quello che è, non solo uno stato brutale fondato sulla spoliazione e l’occupazione, ma come una maledizione per l’ebraismo.
Israele non è neanche una democrazia. Una democrazia non può essere fondata sull’espulsione preventiva della popolazione che ha il diritto di vivere e votare nel quadro delle sue competenze territoriali. Tranne che per scopi di propaganda, comunque, i sionisti non hanno mai avuto l’intenzione di stabilire una democrazia in Palestina. Israele non è mai stato visto come qualcosa di diverso da ciò che è, una “patria” esclusivamente per gli ebrei nel cuore del Medio Oriente.
Due esempi recenti aiutano a evidenziare lo stato di degrado morale e giuridico dello Stato di Israele. Uno è la liberazione, non dalla prigione ma dalla detenzione nella sua base militare, dell’assassino Elor Azaria, che si è avvicinato a un palestinese che giaceva ferito sul marciapiede di una strada di Hebron e gli ha sparato alla testa.
La natura mostruosa di questo atto è stata aggravata dal fatto che Azariah stava prestando servizio nella Cisgiordania occupata come medico, cioè qualcuno incaricato di salvare vite umane, e non di mettervi fine con un fucile d’assalto.
Azaria è stato accusato solo di omicidio preterintenzionale. Il processo è stato grottesco e si è concluso con la sua liberazione dopo soli nove mesi di “imprigionamento” nella sua base militare. Tornato a Hebron, naturalmente è stato accolto come un eroe dai coloni fanatici che hanno il loro sanguinoso bilancio di omicidi e incitamento.
L’altro esempio è il processo a due giovani coloni del gruppo ‘hilltop youth’ per l’omicidio nel 2015 della famiglia Dawabsheh: Said, sua moglie Reham e il loro bambino di 18 mesi, Ali. L’altro bambino, di quattro anni, è sopravissuto all’incendio doloso della casa di famiglia nel villaggio di Duma, in Cisgiordania, ma con ustioni sul 60% del corpo che riducono seriamente la sua mobilità,.
Un tribunale ha ora liberato il più giovane dei due accusati, un minore e quindi lasciato anonimo, sulla base del fatto che la sua confessione è stata ottenuta sotto tortura dal servizio di intelligence interno dello Shin Beit. Non è mai stato accusato di omicidio, ma solo di essere sulla scena, cosa che, secondo le “fonti di sicurezza”, non è mai stata dimostrata in tribunale. E’ stato mandato a casa e posto agli arresti domiciliari.
Per le stesse ragioni, la corte ha dichiarato ugualmente inammissibili alcune delle confessioni fatte dall’altro imputato, Amiram Ben Uliel, 21 anni, figlio di un rabbino associato all’insediamento “illegale” di Migron, fondato dal fanatico colono di origine statunitense, Daniella Weiss e successivamente smantellato.
Lì, ha frequentato Meir Ettinger, il nipote dell’assassino fondatore del movimento Kach, Meir Kahane, che credeva, come Netanyahu, che Israele non dovrebbe essere democratica che per gli ebrei.
Ben Uliel ha sostenuto che la sua confessione era “ipotetica” e ottenuta solo sotto gli schiaffi e i colpi che ha ricevuto dai suoi interrogatori. Benchè non vi sia alcun dubbio che lui e il suo complice abbiano commesso questi omicidi, è molto probabile che la decisione della Corte sarà un’assoluzione, anche per Ben Uliel.
L’affermazione secondo cui, rifiutando confessioni che sarebbero state fatte sotto tortura, Israele è sulla strada della verità, è fuorviante. Il giudice è stato attento a dichiarare che tale decisione non deve essere considerata un precedente, lasciando ai tribunali la possibilità di continuare a respingere le accuse di imputati palestinesi che sostengono che anche le loro confessioni sono state ottenute con la tortura, cosa che nel loro caso molto più probabilmente è vera.
Fuori dalla corte, durante l’ultima udienza del processo a Ben Uliel in giugno, dei coloni, sue anime gemelle, si sono riuniti per cantare a Dawabsheh Hussein, il padre di Reham e nonno di Ali, mentre lasciava l’udienza: “Dov’è Ali? Non c’è Ali. Ali è bruciato. Ali è sulla griglia.”
A maggio, dei coloni avevano commesso un altro incendio doloso a Duma, prendendo di mira questa volta la casa di un altro membro della famiglia, Yasser Fatah al Dawabsheh. Una bomba molotov è stata lanciata attraverso la finestra e la famiglia, marito, moglie e i loro quattro figli sono riusciti a scappare perché Yasser è riuscito a sfondare a calci una parete in cartongesso.
Occorre interrogarsi sulla psicologia di tutto questo. Non c’è molto che lo stato colonizzatore sionista possa ancora fare per farsi detestare di più nel mondo. È votato al suicidio? Lo sente il martello che pianta i chiodi nella bara e se lo chiede chi la occuperà?
• Jeremy Salt ha insegnato la storia moderna del Medio Oriente all’Università di Melbourne, all’Università del Bosforo a Istanbul e all’Università di Bilkent ad Ankara per molti anni. Tra le sue pubblicazioni recenti è il suo libro pubblicato nel 2008: The Unmaking of the Middle East. A History of Western Disorder in Arab Lands (University of California Press).
Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org
Fonte: http://www.chroniquepalestine.com/israel-est-il-suicidaire/