Nella società israeliana la “ razzalizzazione” del biondo opera su molti livelli ed è collegata a una struttura di oppressione complessa e multistrato.
Yosefa Loshitzky – 22 agosto 2018
FOTO Ahed Tamimi sul muro della separazione a Betlemme. Foto di: Richard Gray / EMPICS Entertainment / Immagini PA. Tutti i diritti riservati.
Ahed Tamimi, la nuova icona bionda della resistenza palestinese, rilasciata il 29 luglio 2018 dopo aver trascorso otto mesi in un carcere israeliano, solleva per gli Israeliani una domanda tormentosa: può un* Palestinese essere (sinceramente e legalmente) biond*?
Le immagini ampiamente diffuse sui social della ribelle Ahed Tamimi, una ragazza di 16 anni con i capelli biondi e gli occhi blu circondata da robusti Israeliani dalla pelle scura e pesantemente armati (soldati della Brigata Givati) e in seguito da membri delle forze di polizia israeliana che di solito sono Mizrahi, è stato un grande colpo non solo alla ben oliata macchina di propaganda israeliana (hasbara) ma anche, e forse in modo ancor più cruciale e pericoloso, all’auto-immagine di Israele, a come percepisce sé stesso e vuole presentarsi al pubblico e ai media occidentali.
Non sono gli Israeliani gli occidentali illuminati dalla pelle chiara, mentre i Palestinesi sono gli scuri barbari orientali? Come osano i Palestinesi avere ambizioni bionde? Come hanno il coraggio di invertire la formula chiaro / scuro così profondamente radicata nella psiche israeliana e nell’immaginario del pubblico occidentale?
A questo proposito, un aneddoto interessante ebbe luogo alla Mostra del Cinema di Venezia del 1984, quando Muhammad Bakri, biondo e con gli occhi azzurri, interpretò Issam Jabarin, un combattente della resistenza palestinese in Beyond the Walls (1984) di Uri Barabash. Bakri fu considerato Ebreo israeliano, mentre Arnon Tzadok, un ebreo orientale dalla pelle scura che interpretava Uri Mizrahi, un criminale ebreo israeliano, fu scambiato per un Palestinese.
Per la coscienza occidentale, e in particolare americana, l’”icona bionda della resistenza” contro l’oppressione e la distruzione della Palestina era Rachel Corrie, una ragazza americana membro dell’International Solidarity Movement (ISM) uccisa a Rafah nella Striscia di Gaza da un Bulldozer dell’IDF quando, davanti all’abitazione di un Palestinese, fungeva da scudo umano nel tentativo di impedirne la demolizione. L’inquietante risonanza del biondo tra Rachel Corrie e Ahed Tamimi, ha disarticolato la missione di Israele di essere l’avanguardia bionda dell’Occidente in Medio Oriente.
Come sostengono Alain Badiou, Eric Hazan e Ivan Segre in “Reflections on Anti-Semitism” (2013), Israele è identificato come “un moderno avamposto dell’Occidente. È uno di noi più di quanto non lo siamo noi stessi, là fuori in prima linea. Se, prima della seconda guerra mondiale, gli Ebrei erano visti come stranieri senza una patria e incapaci di integrarsi ora, al contrario, quelli stabiliti in Medio Oriente sono considerati più Europei di quelli Europei, poiché difendono i nostri valori contro la “ barbarie islamica” lungo una frontiera scoperta che è anche la nostra”. Per questo motivo gli autori avanzano l’ipotesi che per le persone di cui stanno parlando, ciò che conta ” non è la parola ‘Ebreo’, ma piuttosto il destino dell’ Occidente’ “. Questo è il motivo per cui identificano “Ebreo” con lo Stato di Israele e sostengono con grande entusiasmo la guerra di questo Stato contro i Palestinesi e gli altri Arabi “.
L’essere biondi fa parte di questo meccanismo d’identificazione. Il biondo deve essere identificato con l’Occidente e quindi al nuovo Ebreo è assegnato il ruolo di bianco del Medio Oriente. È importante menzionare in questo contesto che il culto del biondo nella cultura israeliana ha radici storiche ancora più profonde. Nella letteratura ebraica dell’Europa orientale tradizionale la bionda Shiksa (donna non ebrea) è l’immaginario oggetto del desiderio per lo scuro ebreo che, nella mente europea, storicamente (ma ora non più) non era percepito come bianco, ma come orientale e persino nero.
Inoltre, l’essere biondi è anche un’interpretazione culturale che in circostanze specifiche (come durante il nazismo) ha rappresentato una linea di demarcazione tra la vita e la morte. Gli Ebrei dall’aspetto ariano (vale a dire biondi con gli occhi azzurri), a Varsavia in particolare ebbero più possibilità di sfuggire al Ghetto e di conseguenza alla deportazione nei campi di concentramento e alla morte, vivendo come polacchi biondi nella parte ariana della città. In quanto tale, nell’immaginario ebraico post-olocausto il biondo è stato percepito come un significante della sopravvivenza.
Nel suo libro “Lama Lo Bat Lifnei Ha’milhama” (1998 – “Perché non vieni prima della guerra”), Lizi Doron descrive come sua madre, sopravvissuta all’Olocausto e salvatasi in diverse occasioni dalla morte perché si premurò di tingersi i capelli, la costrinse fin da quando era un’adolescente a tingersi i capelli di biondo. Per sua madre, il biondo era un biglietto per la vita, una garanzia di sopravvivenza. Non sorprende, quindi, che Israele abbia una delle percentuali più alte al mondo di donne che si tingono i capelli di biondo e che si sottopongono alla chirurgia plastica per cambiare la forma del loro naso “ebreo”.
Il loro obiettivo finale è quello di ottenere un look “ariano” e “non ebraico”. Le donne ebree Mizrahi, d’altra parte, tingono i capelli di biondo per sembrare più Ashkenazi e per mascherare e nascondere le loro scure radici orientali. La “razzalizzazione” del biondo, quindi, opera su molti livelli nella società israeliana ed è collegata a una struttura di oppressione complessa e multistrato.
Nella cultura israeliana essere biondi è anche associato al mito del Sabra, l’incarnazione del nuovo ebreo. Gli eroi israeliani di Amos Oz, in particolare nelle sue prime opere letterarie, sono quasi sempre dei bei biondi dagli occhi blu. Elik – il protagonista dello scrittore israeliano Moshe Shamir Bemo Yadav (With His Own Hands, 1954) è considerato dalla critica e dagli studiosi il prototipo del Sabra nella letteratura della generazione Palmach, un mitico Sabra, un “nobile selvaggio” alla Rousseau, nato dal mare e che, come la Venere di Botticelli, vanta una corona di capelli d’oro.
L’essere biondi, come scrive Kathy Phillips nel suo libro, suggerisce, tra le altre cose, la leggerezza e il bagliore dell’oro, una corona di gloria che evoca la luminosità celeste o persino la radiosità solare. Questa concezione del biondo, radicata nella cultura occidentale, è particolarmente evidente nei dipinti del Rinascimento italiano.
Come ho dimostrato in precedenza, Israele ha scelto deliberatamente una squadra di donne bionde ossigenate come loro masbirim (portavoce della disinformazione) per “proiettare un’immagine femminile più morbida” durante l’attacco del 2008-9 a Gaza.
Ma il tentativo dello Stato ebraico di monopolizzare i biondi per la sua guerra contro il popolo palestinese è stato sabotato da Ahed Tamimi, una giovane ragazza con una bionda intraprendenza e una grande “chutzpa” (faccia tosta). Nel mondo di oggi il desiderio di essere bionde riflette l’equilibrio del potere mondiale. L’Occidente è associato al biondo, e quindi il biondo è associato al potere.
Ahed Tamimi è una potente icona della resistenza e quindi non è così sorprendente (anche se, ovviamente, fa infuriare) che Ben Caspit, un giornalista israeliano d Maariv, uno dei principali quotidiani israeliani, abbia suggerito che “nel caso delle ragazze, dovremmo esigere un prezzo in qualche altra occasione, al buio, senza testimoni e telecamere “.
Eppure, come nella famosa immagine di Banksy di una bambina in abito rosa che perquisisce un soldato israeliano appoggiato al muro dell’apartheid con una mitragliatrice al fianco, l’inversione di ruolo decretata dalla bambina di Banksy e ripresa dalla giovane ribelle bionda Ahed Tamimi ci invita a riflettere, o piuttosto a resistere, al continuo fallimento di Israele nel riconoscere l’umanità degli altri.
Josefa Loshitzky è professoressa ricercatrice associata presso la Scuola di studi orientali e africani (SOAS), Università di Londra. Tra i suoi libri ci sono Identity Politics su Israeli Screen (2001), Screening Strangers: Diaspora and Migration in Contemporary European Cinema (2010), e come editor di Spielberg’s Holocaust: Critical Perspectives su ‘Schindler’s List’ (1997)
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://www.opendemocracy.net/north-africa-west-asia/yosefa-loshitzky/ahed-tamimi-illegally-blond