Il furto di cibo da parte di Israele come forma di genocidio della cultura palestinese

Finché gli israeliani praticheranno la pulizia etnica e proseguiranno lungo la strada di Stato dell’apartheid, la loro rivendicazione su qualsiasi aspetto del patrimonio palestinese – sia esso terra o cibo – è de facto un atto di genocidio.

Lawrence Davidson – 8 agosto 2018

Genocidio culturale

Nel 2012 scrissi un breve libro intitolato “Cultural Genocide” (Rutgers University Press). In esso presentavo quattro casi – studio su questo tema: gli indiani d’America, il trattamento russo riservato agli Ebrei nel diciannovesimo secolo, l’assimilazione cinese del Tibet e il comportamento di Israele  verso i Palestinesi. Qui voglio rivisitare un aspetto della  questione  palestinese.

L’idea dietro al genocidio culturale è relativamente semplice: è la sistematica cancellazione della cultura delle popolazioni indigene soggette alla colonizzazione. Il risultato finale è che la terra conquistata non sarà più comunemente identificata con la cultura e le tradizioni di coloro che una volta erano i nativi. Invece, la loro cultura sarà sostituita da quella dei colonizzatori. Il modo più comune per farlo è disperdere o cancellare concretamente buona parte della popolazione indigena, con il conseguente trauma che causa la scomparsa della loro cultura, almeno nella sua forma originaria. Tuttavia, a volte i colonizzatori si appropriano di elementi propri della cultura nativa. Questo è un genocidio culturale sia per furto che per distruzione.

In “Cultural Genocide” ho  descritto come gli Israeliani stessero tentando di minare e infine distruggere la cultura palestinese con uno sforzo apparentemente senza fine di “ebraizzare” il territorio ora chiamato Israele. Ecco alcune delle tecniche utilizzate:

1. La pratica della ridenominazione, iniziata già negli anni ’20: “Con l’aiuto di archeologi, geografi e studiosi biblici” i Sionisti “iniziarono a cancellare sistematicamente la storia e l’eredità araba della Palestina da quelli che sarebbero stati i registri, le mappe e la storia di Israele”.

2. La distruzione fisica dei siti archeologici, dei manufatti, delle antiche moschee e delle case storiche palestinesi nella misura in cui l’UNESCO descrive le azioni di Israele come “crimini contro la storia culturale dell’umanità”.

3. Il Saccheggio intenzionale e la successiva distruzione di biblioteche, archivi e musei palestinesi.

4. L’imposizione di migliaia di regolamenti progettati per rendere impossibile ai Palestinesi nei territori occupati esprimersi culturalmente o politicamente. (Per ulteriori informazioni, vedere”Cultural Genocide”, pp. 77-80.)

Etichettare erroneamente la cucina palestinese

Quando scrissi questo libro nel 2012, il problema dell’appropriazione dei cibi nativi da parte dei colonizzatori non rientrava tra i miei temi.  Era, se vogliamo, “sotto il mio radar”.  Vi è entrato effettivamente circa cinque anni fa, dopo di che ho iniziato a lamentarmi (spesso senza alcun risultato) di quei supermercati e ristoranti che pubblicizzavano hummus e falafel come “cibo israeliano”.

Il tema è stato riportato alla mia attenzione da una serie di eventi, l’ultimo dei quali una cena di catering per raccogliere fondi a favore di Playgrounds  For Palestine. Il cibo era tutto palestinese. Il noto chef Anan Zahr ricordò a tutti noi che “questo è un momento cruciale per il popolo palestinese, la cui identità e cultura sono minacciate quotidianamente e in modo aggressivo dal governo israeliano. Per noi è quindi molto importante mettere in evidenza e far conoscere la cucina palestinese così da prevenire l’appropriazione alimentare in corso “.

“Mettere in evidenza e far conoscere la cucina palestinese” qui in Occidente è un compito difficile, se non altro perché lo sforzo deve superare un mare d’ignoranza e d’indifferenza. Nonostante i decenni di conflitto, che hanno portato acqua al mulino dei mass media, ci sono ancora milioni di Americani, e non solo loro, che sanno poco del genocidio culturale dei Palestinesi. L’immagine che la maggior parte delle persone ha di Israele (quando considerano il tema), è quella di un “Paese normale” periodicamente minacciato dagli Arabi musulmani. E, proprio come gli Italiani mangiano cibo italiano, e i Francesi mangiano cibo francese, l’Americano medio assume che gli Israeliani mangino “cibo israeliano”.

Un buon esempio è stato la polemica scatenata dalla celebre chef Rachel Ray, che appare online e in Tv in una serie di show di cucina. Nel dicembre del 2017 Ray, che non è Ebrea, pubblicò una serie di tweet che descrivevano “un pasto israeliano”. I cibi su cui ha twittato includevano hummus, tabbouleh (tabouli), foglie di vite ripiene, pollo fritto con za’atar e insalata di cetrioli – tutti cibi tradizionali palestinesi.

Come scrisse il Times of Israel, “i post hanno stimolato una valanga di oltre 1.600 risposte, la maggior parte critiche”. Una conseguenza del fatto che i Palestinesi “considerano le affermazioni israeliane su questi cibi come un’altra forma di oppressione”. Yousef Munayyer, che dirige la campagna statunitense per i diritti palestinesi, ha contestualizzato la situazione:

“I nomi dei luoghi, i nomi delle strade, i contrassegni storici sono stati modificati. Foreste sono state letteralmente piantate sopra i nostri villaggi, cancellando i resti della nostra storia e le tombe dei nostri antenati. Quindi, per favore, cercate di capire: quando etichettate questo cibo come “israeliano”, partecipate a un vasto processo di sostituzione che va ben al di là di ciò che c’è su un piatto, è negare ai Palestinesi di avere un posto al tavolo globale”.

Munayyer affermò che i tweet di Ray avevano contribuito a “una cultura in cui ai Palestinesi, come popolo, viene spesso detto che non esistono”. In altre parole, prendendo il cibo palestinese e ribattezzandolo come israeliano, i Sionisti compiono un atto di genocidio culturale.

Tutto ciò deve aver fatto girare la testa di Rachael Ray. Non rispose direttamente alle conseguenze del suo passo falso, ma passò rapidamente a twittare sulla cucina greca. Per quanto possa sapere, il suo errore di etichettare la cucina palestinese come israeliana fu in gran parte dovuto all’ignoranza. Non ha legami particolari con Israele al di là dall’avere un amico che ci andava e le riportava le ricette. Sicuramente non è un’irriducibile Sionista. Ad esempio, nel 2008, Ray fu accusata di dare un sostegno morale alla “jihad assassina palestinese “, per essere apparsa in uno spot pubblicitario di Dunkin Donuts indossando una sciarpa che “assomigliava troppo a una kefiah”.

La risposta sionista

I Sionisti e i loro sostenitori  fornirono una risposta a queste lamentele, ma è una risposta che, come tutte le loro altre argomentazioni, si basa sull’assoluta mancanza di volontà nell’ assumersi la responsabilità delle proprie azioni collettive. Quello che fanno in questo caso è parlare del problema in generale, evitando di prendere in considerazione il quadro completo. La loro risposta principale, fornita da Alex Kay, è la seguente: “La cucina israeliana è una bellissima celebrazione di Ebrei provenienti da tutto il mondo, inclusi 800.000 Arabi ebrei cacciati dai Paesi arabi. In Israele abbiamo cibo orientale e occidentale mescolato perfettamente … I Palestinesi non possiedono l’insalata o lo za’atar tritati “.

Ma il punto non è se la cucina israeliana sia o  meno “una bella celebrazione degli Ebrei di tutto il mondo” o che “in Israele ci sono cibi orientali e occidentali mescolati perfettamente”. Il contesto della denuncia di appropriazione del cibo non ha nulla a che fare con la celebrazione di “ebraicità” o con una fusione di cucine. Né, francamente, ha a che fare con l’accusa che 800.000 Ebrei arabi siano stati “cacciati dai Paesi arabi” subito dopo la fondazione di Israele. Quest’affermazione è uno degli elementi più esagerati del più ampio mantra sionista. Nella maggior parte dei Paesi arabi, gli Arabi ebrei dovettero affrontare molta meno ostilità di quanto affermino i Sionisti, soprattutto considerando che, a quel tempo, i Sionisti avevano iniziato a ripulire etnicamente la Palestina. Le comunità ebraiche arabe subirono invece fortissime e continue pressioni sioniste per emigrare. E quando giunsero in Israele, furono discriminate a causa della loro eredità araba.

L’unica affermazione pertinente nella risposta sionista è “I Palestinesi non possiedono insalata o za’atar tritati”. Eppure, nel contesto più ampio in cui l’appropriazione israeliana del cibo palestinese ha luogo, la verità è che i Palestinesi “possiedono” questi alimenti – non solo storicamente, ma anche moralmente. Come notato sopra, il contesto più ampio è quello della distruzione intenzionale del popolo palestinese, e questo fa la differenza. Finché gli Israeliani praticheranno la pulizia etnica e proseguiranno lungo la strada di Stato dell’apartheid (come hanno fatto con la loro recente legge sulla nazionalità), la loro rivendicazione su qualsiasi aspetto del patrimonio palestinese – sia esso terra o cibo – è de facto un atto di genocidio. E se questa forma di razzismo distruttivo dovesse diventare sempre più frequente, ogni aspetto dell’appropriazione sionista deve essere combattuto, fino all’ultimo falafel “israeliano”.

 

Trad Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org

Fonte:https://www.redressonline.com/2018/08/israeli-food-theft-as-a-form-of-genocide-of-palestinian-culture/

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