Una nuova generazione di attiviste lavora per migliorare la salute mentale della popolazione femminile, logorata dal vivere in zone occupate, così come per sradicare il machismo nella società.
Foto: Tradizione e modernità convivono nella società palestinese assediata dall’occupazione militare israeliana e dal machismo culturale. Inaki Makagaza
Inaki Makagaza – 28 Agosto 2018
La finestra aperta, Budour Hassan studia gli ultimi argomenti di un Master in Diritto Internazionale presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Ha 29 anni, condivide l’appartamento con sua sorella e fa parte della rete di giuristi del Centro per i Diritti Umani e Legali di Gerusalemme (JLAC). Durante il giorno, risolve i problemi legali che i Palestinesi residenti nelle aree controllate da Israele devono affrontare, come le limitazioni per il rinnovo del permesso di soggiorno, gli ordini di demolizione delle case e le richieste di permesso per accedere ai servizi più basilari come istruzione, salute o cibo; di notte, studia la legislazione internazionale che definisce illegali tutti quegli ostacoli che lei cerca di risolvere durante il giorno. “Mentre studio, sento gli spari dell’esercito. Il mio attivismo non è un’opzione, è un obbligo. ”
Oggi in ufficio Hassan ha ricevuto 15 famiglie, ma ci sono ancora donne che aspettano il loro turno, in silenzio. “La burocrazia dell’occupazione è un’altra tecnica di repressione: genera un danno invisibile più duro di quello fisico ed è la forma più crudele di pulizia etnica”. Hassan parla chiaramente e direttamente in un castigliano che ha imparato attraverso la radio. Nonostante sia cieca dalla nascita, conduce una vita attiva, impegnata e indipendente. Hassan lo sa. E non perde tempo.
Da quando Israele è nato, 70 anni fa, e ha scelto Gerusalemme come sua capitale, oltre il 70% dei Palestinesi è stato espulso e la città è stata divisa in due. Hassan sta ora lottando per risolvere “la burocrazia dell’occupazione che cerca di mantenere all’interno della città non più del 30% della popolazione palestinese “. Allo stesso tempo, sei milioni di Palestinesi vivono come rifugiati nella diaspora e circa cinque milioni resistono tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, sottoposti a severe misure militari e assediati da un muro di 840 chilometri. Inoltre, 700 checkpoint dell’esercito israeliano controllano l’accesso giornaliero a strade, villaggi e campi. “Qui di Terra “Santa” è rimasto ben poco, la vita quotidiana per un Palestinese è un inferno”.
Questa situazione, come quella nel resto dei Territori Occupati, causa un logoramento psicologico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha già messo in allarme sulle sue conseguenze, ovvero “un aumento del comportamento impulsivo della popolazione generale, l’indebolimento di relazioni durature, problemi emotivi e comportamentali e gravi disturbi della personalità”. Ecco perché, insieme al lavoro legale, l’organizzazione di Hassan ha rinforzato il sostegno psicologico.
“Qui di Terra “Santa” è rimasto ben poco, la vita quotidiana per un Palestinese è un inferno”.
L’Oms precisa che a Gerusalemme 110.000 Palestinesi hanno bisogno di aiuto psicologico. Il Palestinian Neuroscience Institute parla del 36% di popolazione con depressione cronica nell’intera Cisgiordania. E un recente studio di un gruppo di ricercatori indipendenti legati all’Università di Washington avverte che la salute mentale è la peggiore di tutto il Medio Oriente, con oltre il 78% della popolazione palestinese vittima di almeno un’aggressione dell’esercito nella propria casa o ai danni della propria famiglia .
Per l’OMS, “l’occupazione è di per sé una delle cause principali dei problemi” di salute. Le donne inoltre devono fare i conti anche con un machismo con alti livelli di violenza intrafamiliare, con matrimoni precoci e con la radicalizzazione dei movimenti di resistenza araba.
A dodici chilometri dall’ufficio di Hassan a Beit Sahur, Juani Rishmani, coordinatrice del Comitato per la Salute delle Donne, lavora a cottimo gestendo quattordici cliniche, due ospedali e diverse unità mobili per la cura della popolazione palestinese. Da un anno ha dato priorità all’assistenza psicologica come prevenzione alle nuove malattie: “Il clima di violenza è diffuso nelle case e riprodotto nelle famiglie”.
Per Rishmani, la parte peggiore dell’occupazione la subiscono le donne: “Da un lato, l’esercito israeliano, dall’altro il machismo della tradizione araba”. Ha appena trascorso due mesi in Spagna, da cui la sua famiglia ha origine, per cercare nuovi contatti e nuovi finanziamenti per i suoi progetti. Ha uno staff di 230 persone, per lo più personale sanitario, che si occupa di circa 350.000 pazienti l’anno, e non ha un minuto da perdere.
Oggi chiude lei il day-hospital che hanno appena costruito a Beit Sahur, vicino a Betlemme. Mentre spegne le luci delle diverse stanze, m’illustra il suo progetto. “Ora abbiamo venticinque letti, vogliamo aumentare il numero e diventare un centro aperto 24 ore.” Ma dovrà tornare in Spagna per rafforzare i contatti e reperire altri finanziamenti.
Nel frattempo, è riuscita a migliorare l’assistenza ginecologica, assistenza cui più si rivolgono le donne vittime di violenza. “Lavoriamo con comitati sparsi in tutta la Palestina per far si che le donne siano indirizzate a noi. Cerchiamo di rafforzare al massimo la loro situazione con colloqui e altre iniziative di empowerment”. Sono loro, le donne, la spina dorsale della resistenza all’occupazione “nel prendersi cura delle famiglie, degli anziani e dei malati, oltre che occuparsi anche delle famiglie con membri in prigione o disoccupati”. Di più di 6.000 prigionieri politici che scontano condanne nelle carceri israeliane, 70 sono donne; più di 350 sono minori, secondo l’Ong Addamrer a sostegno dei prigionieri palestinesi.
In questo Paese la donna che divorzia è totalmente emarginata sia nella famiglia che nella società.
Per le Nazioni Unite, oltre all’occupazione le donne subiscono anche le conseguenze di un serio problema culturale all’interno del loro ruolo dedicato alla cura della famiglia. Più del 90% delle vittime della violenza di genere sceglie di non denunciare, con oltre il 46% di loro convinte che la violenza sia legittima. Solo lo 0,7% ha richiesto assistenza. Eppure, secondo l’Ufficio Centrale di Statistiche Palestinese (PCBS), oltre il 40% ammette di avere subito violenza anche all’interno del matrimonio.
Pertanto, Rishmani spegne le luci dell’ospedale consapevole che di là dei mezzi tecnici, il miglioramento della vita delle donne passa attraverso una trasformazione culturale e ripone tutte le sue speranze negli incontri che ha programmato nei Territori Occupati. “La violenza è diventata così naturale da non essere né denunciata, né fermata, né respinta. Quella esercitata dai soldati contro gli uomini è successivamente riprodotta nelle case palestinesi. Le donne sono sole e in una situazione molto vulnerabile. ”
L’uguaglianza di genere, nuova priorità
Fino allo scorso marzo, l’articolo 308 del codice penale permetteva allo stupratore di sposare la sua vittima per evitare la carcerazione. La campagna per la sua abolizione è iniziata in Giordania e in Palestina ed è stata guidata dal movimento femminista con il coordinamento di Amani Aruri, dell’Unione Palestinese dei Comitati Femminili (UPWC).
Aruri ha 26 anni, ha due bambini e un telefono cellulare che non smette mai di vibrare. La campagna contro l’articolo 307 è stata diffusa attraverso i social network. E tale è stata la risposta che molte donne hanno iniziato a contattare l’organizzazione per condividere le proprie esperienze. Ora Aruri tramite WhatsApp è in contatto con molte di loro. “Grazie alla nostra organizzazione denunciamo all’Autorità palestinese gli abusi dei diritti delle donne da parte dell’occupazione e anche da parte della società araba”. Quindi ne informano le organizzazioni internazionali e progettano campagne di advocacy.
Lei conosce bene le conseguenze della tradizione. Ha impiegato più di un anno per ottenere il divorzio, così come la tutela dei suoi due figli di sette e cinque anni che il marito aveva “rapito”. “In questo paese la donna che divorzia è totalmente emarginata sia nella famiglia che nella società”. Nel processo per l’affidamento dei figli, la giudice le ha rimproverato di aver chiesto il divorzio, visto che voleva vivere con loro . Aruri esprime con lo sguardo la reazione tra la rabbia e il dolore che il commento le aveva provocato. Ora assiste altre donne nelle procedure di divorzio.
I divorzi, secondo la sua organizzazione, sono aumentati di oltre il 30%. “Molte giovani donne vengono fatte sposare dalle loro famiglie prima dei 18 anni, per garantire loro un futuro. Alla fine, trasformano le loro vite in un altro incubo. ” Ora vuole anche impegnarsi contro i femminicidi. Ventisette sono quelli documentati nell’ultimo anno, una cifra che passa inosservata in una società segnata dalla violenza dell’esercito israeliano e dalla presenza di colonie illegali.
Oltre che nel resistere all’occupazione, in Palestina una nuova generazione di attiviste si sta impegnando nella lotta per l’uguaglianza delle donne. “Arriverà il giorno in cui vivremo con le finestre aperte e fuori non sentiremo più il suono dei proiettili, così come dentro non sentiremo più le lacrime della violenza “, dice Hassan. Fino ad allora, la sua vita, come quella di Rishmani e di Aruri, continuerà a essere dedicata alla lotta contro l’occupazione israeliana e contro le tradizioni della società patriarcale, così come al miglioramento della salute mentale, barometro dell’efficacia del loro lavoro . “È giunto il momento per le donne di avere una propria voce nella resistenza contro l’occupazione del nostro Paese e delle nostre vite”, afferma Hassan.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://elpais.com/elpais/2018/08/09/planeta_futuro/1533825831_036243.html
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