FOTO: Una donna stende il bucato nel campo profughi di Shatila – 23 febbraio 2018 – Beirut – Libano. Foto di Darrian Traynor
Marika Sosnowski – 6 settembre 2018
La luce è fredda e umida, scivola giù a livello del suolo in strade appena sufficienti a lasciar passare una macchina, tra edifici da due a sei o sette piani che sono cresciuti a partire dagli anni settanta, quando è stato istituito il campo profughi di Shatila, in Libano. In alto e lungo le pareti serpeggia una miriade di tubi e fili che collegano l’elettricità, l’acqua, la rete fognaria e il flusso di dati. A volte i tubi scoppiano, sputano acqua o fogna, o le linee elettriche si spezzano, fulminando le persone colpite dai cavi.
La nostra guida ci conduce lungo un vicolo anonimo e attraverso un tunnel buio, illuminato solo dalla luce di un bulbo al tungsteno che penzola dall’alto. Mi meraviglia che sappia dove andare o a quale porta bussare.
Entriamo nella casa di una famiglia palestinese recentemente arrivata dalla Siria. Il loro alloggio è più una prigione che una casa: una stanza principale, una piccola cucina, un bagno con una finestrella chiusa con assi di legno, così come una porta, per impedire ai topi di entrare. Quando la famiglia arrivò cinque anni fa, la stanza era disponibile e accettò di pagare 200.000 LBP (circa $ 130) al mese di affitto.
Seduta per terra, Tahiya racconta come la famiglia lasciò Yarmouk, un campo palestinese alla periferia di Damasco, all’inizio della guerra. Sua figlia era rimasta traumatizzata dall’esplosione di una bomba vicino alla loro casa, quindi decisero di andarsene. “La nostra vita era perfetta a Damasco”, ricorda Tahiya. “Avevamo sicurezza, avevamo una casa nostra, tutto era disponibile e accessibile.”
Inizialmente, quando suo marito le aveva suggerito di andarsene a causa della guerra civile, Tahiya non aveva obiettato. Da quello che aveva visto in televisione, il Libano sembrava una seconda Parigi. “Ma siamo venuti qui e ora stiamo vivendo con i topi, ci sono topi che si muovono in giro tutta la notte, giocando. Abbiamo lasciato il paradiso per l’inferno. ”
Il campo di Shatila fu fondato nel sud di Beirut per ospitare i Palestinesi in fuga dallo stato di Israele appena creato. Con l’Accordo del Cairo, firmato nel 1969 tra il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, e l’Esercito libanese, il piccolo campo rimane fuori dal controllo ufficiale dello Stato libanese. E’ invece gestito da un Comitato Popolare interno che, insieme all’UNRWA e ad altre ONG, fornisce sicurezza e un’ampia varietà di servizi sanitari, educativi e sociali per una popolazione che si è gonfiata fino a raggiungere circa 40.000 abitanti, molti dei quali sono Palestinesi appena arrivati dalla Siria.
I nonni di Tahiya arrivarono in Siria nel 1948, come rifugiati da Haifa. I suoi genitori sono nati in Siria e, come tanti altri Palestinesi, hanno conservato le chiavi della loro casa ancestrale nella speranza di potervi un giorno tornare. Suo padre e sua sorella sono rimasti a Yarmouk, recentemente riconquistato all’Isis dal governo siriano. “Mi sento siriana”, dice Tahiya. “Non ho mai saputo di essere Palestinese finché non sono arrivata a Shatila. Qui, in Libano, ho imparato che come Palestinese non hai diritti “. Secondo la legge libanese, i Palestinesi, compresi quelli nati nel Paese, non possono ottenere la cittadinanza libanese, possedere proprietà o esercitare una serie di professioni. Inoltre non hanno accesso ai servizi sociali libanesi, come l’assistenza sanitaria o l’istruzione.
Per i molti Palestinesi provenienti dalla Siria a causa della guerra civile, la transizione alla vita in Libano è stata stridente. Rispetto alla loro esperienza in Siria, dove godevano di un accesso ai servizi e ai diritti quasi in uguale misura come i Siriani, la discriminazione legalizzata in Libano è stata scioccante.
Nonostante gli ostacoli incontrati qui dalla sua famiglia Tahiya, registrandosi presso l’UNRWA, è in grado di mandare i suoi figli nella scuola gestita dall’Agenzia , situata appena fuori Shatila. Tahiya è felice che a sua figlia Sunduz e a suo figlio Ali piaccia andare a scuola e stiano bene. Ad Ali piace giocare a calcio e Sunduz ama il basket. Mentre parliamo, Sunduz, 8 anni, si prepara a uscire per le lezioni pomeridiane. Ali, 12 anni, l’accompagna, poiché non è sicuro camminare da soli a Shatila.
È molto importante per Tahiya che i suoi figli ricevano un’educazione. Dice, però, che molti bambini sono segnati dalla guerra e che nelle scuole possono esserci disordini, persino violenze. Alcuni bambini vagano per le strade senza alcun interesse o intenzione di frequentare le lezioni. Altri, anziché andare a scuola, lavorano per aiutare economicamente la famiglia.
L’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di fornire servizi e supporto ai Palestinesi sia che provengano dalla Palestina che dalla Siria, si trova sotto una tremenda tensione. Il governo degli Stati Uniti, il principale donatore dell’UNRWA, ha recentemente annunciato che cancellerà i fondi all’Agenzia. Di conseguenza, è probabile che scuole come quelle di Sunduz e Ali saranno tra le prime a chiudere: un disastro per le famiglie come Tahiya che credono nelle opportunità offerte dall’educazione, per non parlare delle implicazioni sulla sicurezza nella regione.
Mentre Tahiya preferirebbe tornare in Siria, dice che la sua famiglia rimarrà a Shatila – al buio e con i topi – finché la situazione della sicurezza non migliorerà. A volte, la famiglia rimane sveglia fino alle prime ore del mattino a ricordare la loro casa piena di luce, un giardino e una grande cucina bianca. Tahiya ricorda i giorni in cui la sua preoccupazione principale era quale cibo cucinare, cosa pulire e dove andare. Per ora però, la famiglia è intrappolata tra l’incudine e il martello, impossibilitata a tornare e lottando per restare in un posto dove la vita può spesso essere insopportabile.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://muftah.org/shatila-refugee-camp-seventy-years-on/#.W54upqYzbIV