Nel quartiere di Pisgat Ze’ev, a Gerusalemme, non pensavamo a noi stessi come a dei coloni, nonostante il fatto che vivessimo oltre la Green Line e che i nostri vicini fossero Palestinesi.
Ofer Matan – 1 Ottobre 2018
Foto di copertina: Il muro di separazione israeliano circonda l’insediamento di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme Est di, 9 aprile 2011. (Activestills.org)
Il primo arabo che entrò nella nostra casa fu Sabah. La prima volta che ci incontrammo, in una fredda mattina dopo le vacanze ebraiche,Sabah si stava lavando le mani nel lavandino della cucina, poco prima di aiutare mia madre a far partire la sua Renault12 gialla. All’inizio degli anni ‘80, l’auto aveva già avuto problemi con il motore e Sabah, dopo averla messa in folle, soleva spingerla verso la discesa. Avrebbe quindi schiacciato la frizione e messo in seconda, facendo scoppiettare il motore e infine accendersi. Mia madre sapeva di dover ringraziare Sabah in anticipo, poiché dal momento in cui il motore si metteva in moto e lei iniziava a guidare, lui sarebbe svanito nell’irrilevanza.
Nei giorni in cui non doveva spingere la macchina, , Sabah iniziava la sua mattina pregando in cima alla scogliera alla fine della nostra strada, dove anni dopo sarebbero stati costruiti dei condomini a schiera. Faceva sempre freddo là, ma la sua giacca impolverata lo teneva caldo. Di notte dormiva nel cantiere, molto probabilmente nel camion della betoniera. Quando qualcuno nella nostra strada restava senza elettricità, o ogni volta che un vicino di casa sentiva il bisogno di lamentarsi del fatto che la cera del suo pavimento era troppo levigata, chiamava “Sabah, Sabah” e lui appariva.
Una volta, mentre stava passando vicino all’asilo, ci alzammo tutti sulla recinzione e cantammo un’umiliante filastrocca per bambini contro gli Arabi. Rimasi impressionato dal fatto che chi gestiva il nostro quartiere aveva trovato un Arabo che sapeva come avviare i motori, era esperto di cera e cui non importavano le nostre canzoni.
Il giorno in cui l’ultimo edificio del quartiere si trasformò in un’abitazione completa, i gestori scambiarono le firme con Sabah e gli augurarono buona fortuna. Secondo i miei calcoli, questo accadde poco prima che l’Italia ospitasse la Coppa del Mondo nel 1990. Non avevo ancora 10 anni.
Abu Ali, il secondo arabo a entrare nella nostra casa, possedeva un negozio di mobili in paglia sulla strada principale del quartiere di Shuafat a Gerusalemme, a volte erroneamente chiamato Beit Hanina. Accanto al suo negozio c’era Sani 2000, un negozio di caramelle di proprietà di cristiani che vendeva babbi natali di cioccolata e Pepsi. Mio padre mi spiegò che la Pepsi era una Coca Cola inferiore, e che solo gli Arabi la vendevano, perché Pepsi ci boicottava. Non capii una parola.
Un giorno, nel periodo in cui Seoul ospitava le Olimpiadi, Abu Ali entrò nel nostro salotto con una libreria di paglia, che posizionò in diversi punti intorno alla casa seguendo le istruzioni di mia madre. La chiamò “Miss” e lei disse che era un vero artista. Anni dopo, nel 2004, quando mi trasferii nel mio appartamento nel centro di Gerusalemme ed ero indeciso su cosa mettere in una delle nicchie del corridoio, mia madre mi suggerì di metterci un cassettone di Abu Ali. Come se non fossero passati vent’anni e l’uomo fosse ancora seduto nella nostra strada stretta, costruendo armadietti in legno.
Il terzo arabo arrivò insieme alla tv via cavo nell’estate del ’94. Negli Stati Uniti si stava svolgendo La Coppa del Mondo, i Bulls stavano affrontando i Suns nel soggiorno, e nel cortile io avevo un bar mitzvah gestito dal ristorante La Rachelle. Un Arabo baffuto, che portava i pantaloni a vita alta come la leggenda dell’NBA Moses Malone , arrivò reggendo una serie di vassoi di alluminio.
Il quarto arabo arrivò accompagnato dal quinto, sesto e settimo – i suoi lavoranti – per posizionare nuove piastrelle. Erano allineate in diagonale, perché mia madre decise che così facevano sembrare la casa più grande. L’ottavo arabo venne con me nell’ottobre del 2000, un uomo senza volto che continua a vivere nella mia testa
Ma noi non siamo un insediamento
La prima persona a mettere tutto in discussione apparve in casa nostra negli anni ’70. Il suo nome era Nissim e fumava hash accanto alla culla di mio fratello a una festa di Purim. Io non facevo ancora parte della scena, ma non mi ci volle molto per sentire parlare di lui. I miei genitori provenivano da Carmel, la zona più ricca di Haifa, lui era della zona più popolare della città. Loro erano seri, lui era un artista. Loro erano sposati da anni, lui aveva avuto figli in tutti i tipi di paesi diversi.
Nissim si rifiutò di venire a Pisgat Ze’ev perché era oltre la Green Line. I miei genitori fecero del loro meglio per dimostrare che ciò non li aveva feriti. Accadde in macchina, come la maggior parte delle conversazioni, dal momento che le distrazioni erano spesso la migliore cura per il mio mal d’auto. Di tanto in tanto alzavo la testa solo per chiedere – abbiamo passato il garage arabo? Abbiamo raggiunto Zeituni? Una volta intravidi un campo pieno di pecore verdi che sembravano immobili . Mio padre mi spiegò che erano sarcopoterium e che, se fossimo rimasti bloccati, avremmo sempre potuto stendere una coperta e dormirci sopra. Ma dove siamo? Samaria. Una volta mia madre mi disse che non era sufficiente restare sdraiati sul sedile posteriore, ma che sarebbe stato meglio sdraiarsi sul pavimento. Perché? Papà si è perso, siamo entrati accidentalmente in una zona araba ed è notte.
Gli Arabi erano ovunque, ma si vedevano appena. A volte li scorgevamo nei campi mentre stavamo cercando tartarughe o pezzi di legno per i nostri falò Lag B’Omer. Cos’è quella zona accanto ai garage? Un campo profughi. Cosa significa? Persone che vivono in case di fango Cos’è Anata? E’ vicino ad Anatot. Perché l’insegna ha delle parole in inglese? Perché sono cristiani. Dov’è Hizme? Dopo il quartiere Bneh Beitcha.
Le loro case erano facili da riconoscere perché erano circondate dai campi, e i tetti avevano antenne dalle strane forme che mi ricordavano la Torre Eiffel. Le pareti esterne non erano prefabbricate, ma costruite con pietre ammaccate che sporgevano come nel vecchio Katamon. Davanti c’erano rimorchi e autobus abbandonati senza loghi aziendali, alcuni dei quali erano stati da tempo trasformati in biotopi di erbe infestanti. I loro cani non erano di nessuno in particolare, e abbaiavano cose che i loro proprietari avrebbero tanto desiderato poter gridare. Qua e là si vedeva un gatto leccare un pannolino, e ogni paio d’anni vedevamo un gruppo di adolescenti del nostro vicinato scappare dagli Arabi con un asino rubato. Alla fine sarebbe stato legato vicino al supermercato perché tutti lo vedessero. Una volta fu persino legato a una sukkah in un parco vicino, e poi un certo punto scomparve.
A Yom Kippur, alcuni degli Arabi più audaci guidavano lungo l’arteria principale del nostro quartiere. Li aspettavamo con le pietre, perché ci interrompevano mentre stavamo giocando a calcio sulla strada. L’unica volta che ebbi il coraggio di prendere parte alla “cerimonia”, afferrai una zolla di terra asciutta dall’isola spartitraffico su Moshe Dayan Boulevard e la gettai nel baule degli Arabi. L’auto si fermò bruscamente, un agente di polizia uscì e urlò: “Cosa stai facendo, ragazzo?” Quindi ripartì.
Nissim non venne mai a trovarci a Pisgat Ze’ev, ma Rafael “Raful” Eitan, un importante politico di destra, sì . Se l’anno 1992 avesse un poster sarebbe così: Raful in piedi al centro della strada, la schiena verso i condomini a schiera, la valle di fronte a lui, sullo sfondo il logo delle Olimpiadi di Barcellona. Raful porta la verità al potere, disse mio padre, mentre annuiva verso la televisione.
Dal momento in cui scoprii che mio padre aveva votato per il partito di Raful, Tzomet, sviluppai l’impulso di iniziare a esternare le mie ovvietà proprio nelle sue vicinanze, il tutto per sentirlo controbattere con la stessa affermazione “Esattamente! Esatto! “che esclamava spesso mentre guardava le interviste di Raful. Se diamo loro delle pistole, finiranno per usarle contro di noi, sia io che Raful siamo d’accordo (lo slogan sarebbe diventato un adesivo per i paraurti). Per qualche ragione si arrabbiava con me quando dicevo alla gente che aveva votato Tzomet, arrivando persino a dire al papà del mio amico che “Ofer parla troppo”.
Mio padre promise le seguenti cose: non accadrà mai che tutti ritireranno i loro soldi dalla banca nello stesso giorno; quando nascono i figli , i genitori apriranno un conto di risparmio per loro, in modo che quando saranno cresciuti avranno un sacco di soldi; la nostra squadra nazionale ha una grande difesa, non lascerà che la Colombia segni un gol; non saremo mai cacciati da qui, persino gli Arabi lo capiscono. Vogliono che lasciamo i Territori e evacuiamo tutti gli insediamenti, ma noi non siamo un insediamento. Siamo qualcos’altro. Sia gli Americani che gli Europei dicono così. E comunque, ci sono già 10.000 persone in questo quartiere, e se includi Neve Yaakov e Gilo e la collina francese e East Talpiot sono quasi 50.000. Tutti sanno che non è realistico.
La differenza era chiara: i coloni indossavano sandali e camicie button-down anche quando giocavano a pallacanestro, e avevano sempre bandiere israeliane sui loro tetti. Noi indossavamo sandali solo quando camminavamo nell’acqua, le nostre camicie button-down erano riservate per il Seder pasquale e sventolavamo la nostra bandiera dai finestrini della Mitsubishi.
Mia madre aveva amici che pensavano che vivessimo in un insediamento, ma non smise di bere il caffè con loro, perché con chi se no avrebbe potuto berlo? Chi non conosceva i miei genitori pensava che fossero di sinistra perché non osservavano lo Shabbat e il kosher, non avevano mai avuto dolci in casa e viaggiavano in posti strani come il Galles senza un viaggio organizzato.
Una volta all’ATM di Ramat Eshkol, dopo aver contrattato con la donna araba che vendeva fichi d’India e averla fatta scendere a otto sicli, mia madre mi lasciò inserire il codice segreto e selezionare l’importo. Ad un certo punto, l’anziana donna dietro di noi si stufò di aspettare e urlò: “Dai, gente di Ratz!” Riferendosi al partito di sinistra predecessore del partito Meretz di oggi. Mia madre rise. A loro piaceva il fatto che la gente pensasse che fossero qualcosa che non erano, e quando mio padre veniva preso per un Ashkenazita, spingeva gli occhiali verso il viso e diceva: “Puro Sefardita dal Carmelo”.
Arabi nelle nostre case
Come tutto nell’esercito, il nostro quartiere era diviso in tre sezioni: famiglie che si erano trasferite da Neve Yaakov e che erano considerate in ascesa; giovani coppie che cercavano uno stile di vita più borghese; famiglie con molti bambini che erano considerati “ragazzini dei bassifondi ” e che giravano con pantaloni sportivi fosforescenti di qualche taglia troppo piccola. A volte venivano chiamati Arabi, e il più duro tra noi organizzò persino un boicottaggio contro di loro, ridendo di uno dei padri che si prendeva gioco di lui sull’autobus. Solo anni dopo, grazie all’attivista sociale israeliana Daphni Leaf, imparai a dare loro un nome: casi da assistenza sociale, da alloggi popolari ,schizofrenici.
Anche noi ci trasferimmo da Neve Yaakov. Mio padre si rifiutò di vendere l’appartamento agli Arabi, nonostante avesse avuto delle offerte. Voleva proteggere il quartiere da un’invasione araba ma non sapeva come esprimerlo a parole (a Gerusalemme abbiamo solo il termine Hithardut, che indica quando gli Ebrei ultra-ortodossi iniziano a trasferirsi in quartieri più secolari). L’arabo che sembrava essere il compratore più serio sedeva nel nostro salotto e sosteneva di chiamarsi Yosef Hatib, ma loro chiesero di vedere il suo documento, che diceva Yousef Khattab. Mio padre, cui non piaceva il fatto che avesse finto di essere ebreo, cancellò l’accordo.
Avevo già 24 anni quando Israele si ritirò da Gaza. Chiesi ai miei genitori cosa avrebbero preferito nel caso in cui anche noi fossimo stati evacuati: avrebbero lasciato la casa agli Arabi o l’avrebbero distrutta? Mia madre disse che sarebbe stato un peccato distruggere tutto, mentre mio padre mi calmò dicendo che non sarebbe successo. Gli Arabi avevano fatto pace con quartieri come il nostro. Accade così quando si annette improvvisamente.
Provai a immaginare gli Arabi nella nostra casa al posto nostro. Avrebbero anche loro lasciato scorrere l’acqua nella vasca da bagno nelle notti di neve così che i tubi non scoppiassero? Scriveranno in arabo il nome di ogni stanza accanto agli interruttori nell’armadietto elettrico? Avranno anche loro un timer per lo scaldabagno? Gli Arabi usano anche le intercapedini?
Una volta ogni tanto torneremmo a visitarla. Dal nulla, diremo loro che una volta vivevamo qui, chiedendo se possiamo dare un’occhiata in giro, per il bene dei bambini, e diremmo che l’odore nella tromba delle scale non è cambiato per niente. Loro diranno, venite, entrate e ci offriranno un caffè. Voi mettete il bollitore sul tavolo, interessante. Noi lo mettevamo sul bancone. È bello che abbiate lasciato la vite. Sì, risponderanno, produce un’uva strana, molto piccola.
Un membro della loro famiglia ci accompagnerà nella visita come una guida della Casa Bianca, che si assicura che nessuno rubi alcun candelabro. Descriveranno come quando piove si formi una gigantesca pozzanghera nella curva intorno all’edificio, e come il loro figlio più piccolo sia quasi scivolato lì lo scorso inverno. Naturalmente, dirò, è a causa della terribile pianificazione, e loro parleranno di come hanno cambiato tutti i nomi delle strade, e io dirò che dovrebbero davvero chiamare la curva Sabah Path, dal momento che è esattamente dove si trovava la sua scogliera, e loro diranno che si sta facendo tardi.
La sinistra ipocrita
Vivono in città da 50 anni, ma si sentono ancora nati e cresciuti a Haifa. Si riferiscono ai gerosolimitani come “loro” e ridono del fatto che usano borse di plastica come borsette mentre fanno commissioni. Tutti quelli che sono come i miei genitori si sono da tempo trasferiti nella periferia di Gerusalemme o a Tel Aviv, andando in città solo per un piccolo “assaggio” di cultura. Ma i miei genitori preferiscono il supermercato di Freij a Shuafat piuttosto che i grandi centri commerciali e negli ultimi due anni hanno seguito lezioni di arabo. Questo è esattamente il motivo per cui la sinistra è ipocrita, dice mia madre, gente che ama gli Arabi ma ha paura di parlare con loro.
Degli Arabi sono seduti nel nostro salotto proprio in questo momento, bevendo tè alla verbena e mangiando biscotti al sesamo. Mio padre dice che lui è un dottore dell’ospedale Hadassah e sua moglie è un’assistente sociale. Si chiede se debba vendere agli Arabi. Cos’è cambiato? Lui vede le cose in modo diverso. Diverse come? Diverse. È anche una questione di età. Sono Arabi Israeliani moderati, educati, vogliono un appartamento dove possano crescere i loro figli. Quindi perche no?
Interessante, venderai la casa a dei Palestinesi. Non sono Palestinesi, sono Arabi Israeliani di Nazareth. Lui è un dottore e lei è un’assistente sociale. Non vogliono un quartiere arabo, solo una buona zona con buone scuole per i loro figli e una metropolitana leggera per portarli ad Hadassah. Hai mai pensato che non tutti gli Arabi vogliono essere chiamati Palestinesi? Forse a loro piace vivere qui? Forse non vogliono vivere sotto il governo arabo? Forse vogliono un centro comunitario e attività per i loro figli? Oh, prima che tu vada, c’è una borsa nel rifugio antiaereo con la tua vecchia uniforme militare e i tuoi scarponi. Cosa ne devo fare?
Ofer Matan scrive per Yedioth Ahronoth. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte:https://972mag.com/we-told-ourselves-we-werent-settlers-we-were-something-different/137965/