Dopo che le è stato rifiutato l’ingresso e dopo la deportazione forzata dalla sua terra natia, la Palestina, ad opera della colonialista occupazione israeliana, Susan Abulhawa ha rilasciato sui social media la seguente dichiarazione pubblica. È un documento commovente e potente che dovrebbe essere ampiamente condiviso.
Dichiarazione al Festival della letteratura palestinese di Kalimat:
Desidero esprimere la mia profonda gratitudine al Festival della Letteratura Palestinese di Kalimat, in particolare a Mahmoud Muna, e all’Istituto Kenyon per avermi invitata, assumendosi le spese per la mia partecipazione al Festival di quest’anno, e per avere sostenuto la causa legale nel tentativo di assicurarmi il mio diritto ad entrare.
Come ormai sapete, le autorità israeliane mi hanno negato l’ingresso nel mio Paese e quindi non ho potuto partecipare al Festival. Mi fa molto male non essere con i miei amici e colleghi scrittori nella nostra patria per esplorare e celebrare le nostre tradizioni letterarie con i lettori e tra di noi.. Mi addolora il fatto che possiamo incontrarci in qualsiasi parte del mondo tranne che in Palestina, il luogo a cui apparteniamo, da dove nascono le nostre storie e dove tutti i nostri giri alla fine convergono. Non possiamo incontrarci su un terreno che per millenni è stato fertilizzato dai corpi dei nostri antenati e annaffiato dalle lacrime e dal sangue dei figli e delle figlie della Palestina che ogni giorno combattono per lei.
Dopo la mia deportazione, ho letto che le autorità israeliane hanno dichiarato che dovevo “coordinare” in anticipo il mio viaggio con loro. Questa è una bugia. Infatti, all’arrivo all’aeroporto mi è stato detto che mi era stato precedentemente chiesto di richiedere il visto per il mio passaporto statunitense e che questa richiesta non sarebbe stata accettata fino al 2020, almeno cinque anni dopo la prima volta in cui mi era stato negato l’ingresso. Hanno detto che saperlo era mia responsabilità anche se non mi fu mai comunicato di essere stata stato messa al bando. Poi hanno detto che la mia prima deportazione del 2015 venne decisa perché mi rifiutai di comunicare il motivo della mia visita. Anche questa è una bugia. Ecco i fatti:
Nel 2015 andai in Palestina per costruire parchi giochi in diversi villaggi e per tenere cerimonie di apertura in quelli che nei mesi precedenti erano già stati costruiti. Un altro membro della nostra organizzazione stava viaggiando con me. Era Ebrea, e le permisero di entrare. Nel corso di circa 7,5 ore diversi interrogatori israeliani mi fecero le stesse domande in modi diversi. Risposi a tutto, come dobbiamo fare noi Palestinesi se vogliamo avere la possibilità di andare a casa, anche solo come visitatori. Ma non fui sufficientemente deferente, né fui capace di esserlo al momento. Ma fui certamente composta e – il requisito per tutte le persone violate – “civile”. Infine, fui accusata di non cooperare perché non sapevo quanti cugini avevo e quali erano tutti i loro nomi e i nomi dei loro coniugi. Solo dopo che mi fu detto che mi era stato negato l’ingresso alzai la voce e rifiutai di andarmene in silenzio. Sì urlai, e non smentisco tutto ciò che urlai. Secondo Haaretz, Israele disse che nel 2015 al Ponte di Allenby “mi comportai con rabbia, crudeltà e volgarità”
Quello che dissi nel 2015 ai miei interrogatori, e che fu riportato anche da Haaretz, era che avrebbero dovuto essere loro ad andarsene, non io; che io sono una figlia di questa terra e che nulla potrà cambiare questa realtà; che la mia storia è immersa in questa terra e loro non possono districarla; che per quanto invochino mitologiche fiabe sioniste, e pur desiderandolo, non potranno mai rivendicare un tale personale lignaggio familiare.
Suppongo che tutto ciò possa sembrare volgare alle orecchie dei sionisti. Doversi confrontare con l’autenticità, nonostante l’esilio, della “indigeneità” palestinese e dover affrontare le loro apocrife e sempre mutevoli narrazioni coloniali.
La mia mancanza di deferenza nel 2015 e la scelta di non accettare tranquillamente la decisione arbitraria di un illegittimo guardiano del mio Paese sono state apparentemente aggiunte accanto al mio nome e, al mio arrivo il 1 ° novembre, hanno determinato la mia immediata deportazione.
La vera volgarità è che diversi milioni di Europei e di altri stranieri vivono in Palestina mentre la popolazione indigena vive in esilio o sotto i crudeli stivali dell’occupazione israeliana; la vera volgarità è nelle file dei cecchini che circondano Gaza, prendendo attentamente la mira e sparando ad esseri umani che non hanno modo di difendersi, che osano protestare contro il loro imprigionamento collettivo e contro la miseria loro imposta; la vera volgarità è vedere la nostra gioventù sanguinare a terra, languire nelle carceri israeliane, desiderare un’educazione, desiderare di poter viaggiare, di poter imparare o di avere una qualche opportunità che permetta loro di vivere pienamente nel mondo; la vera volgarità è il modo in cui hanno preso e continuano a prenderci tutto, come hanno scarnificato i nostri cuori, rubato il nostro tutto, occupato la nostra storia e alterato le nostre voci e la nostra arte.
In totale, Israele mi ha trattenuto per circa 36 ore. Nella cella del carcere non mi è stato permesso tenere alcuno strumento elettronico, penne o matite, ma ho trovato il modo di averle entrambe – perché noi Palestinesi siamo intraprendenti, intelligenti e con ogni mezzo che possiamo troviamo la nostra strada verso la libertà e la dignità. Ho foto e video di quel terribile centro di detenzione, scattate con un secondo telefono nascosto sul mio corpo, e dal letto sporco sul quale ho dovuto sdraiarmi ho lasciato per loro alcuni messaggi sulle pareti. Suppongo che troveranno volgare leggere: ” Palestina libera”, “Israele è uno stato di apartheid” o “Susan Abulhawa era qui e ha fatto entrare di nascosto questa matita nella sua cella”.
Ma la parte più memorabile di questa prova sono stati i libri. Avevo due libri nel mio bagaglio a mano quando sono arrivata in prigione e mi è stato permesso di tenerli. Ho alternato la lettura di ognuno, dormendo, pensando.
Il primo libro era un testo molto ricercato dello storico Nur Masalha, “Palestina: una storia di quattro millenni”. Avevo programmato di intervistare Nur sul palco della suo epica relazione sulla storia millenaria palestinese, storia raccontata non da narrazioni politicamente motivate, ma da quelle archeologiche e di altri forensi. È la storia di un popolo, che attraversa le identità disordinate e multistrato delle popolazioni indigene della Palestina dall’età del bronzo fino ad oggi. In una cella di detenzione israeliana, con altre cinque donne, tutte dell’Europa orientale, ognuna di loro chiusa nel suo privato dolore, i capitoli del libro di Nur Masalha mi hanno portato attraverso il passato pluralista, multiculturale e multi-religioso della Palestina, distorto ed essenzializzato da invenzioni moderne di un antico passato.
L’amara ironia della nostra condizione non mi è sfuggita. Io, una figlia di quella terra, appartenente a una famiglia radicata in quella terra da almeno 900 anni e che aveva trascorso gran parte della sua infanzia a Gerusalemme, io stavo per essere deportata dalla mia terra dai figli e dalle figlie degli ultimi arrivati, giunti in Palestina pochi decenni fa con l’ethos del darwinismo razziale di origine europea, invocando fiabe bibliche e diritti divinamente concessi.
Mi è anche venuto in mente che tutti noi Palestinesi – a prescindere dalle nostre condizioni, ideologie o luoghi della nostra prigionia o dell’esilio – siamo legati per sempre in una storia comune che inizia con noi e che viaggia verso l’antico passato verso un unico posto sulla terra, come le molte foglie e i molti rami di un albero che portano a un unico tronco. E siamo anche legati insieme dal dolore collettivo di vedere persone provenienti da tutto il mondo colonizzare non solo lo spazio fisico, ma anche gli spazi spirituali, familiari e culturali della nostra esistenza. Penso anche che in questa ferita infinita e mai guarita risieda il nostro potere. E’ da lì che scriviamo le nostre storie. Canta le nostre canzoni e danza la nostra dabka. Ricaviamo arte da questi dolori. In questo spazio raccogliamo fucili e penne, macchine fotografiche e pennelli per la pittura, lanciamo sassi, lanciamo aquiloni e alziamo pugni di vittoria e di potere.
L’altro libro che ho letto è stato l’acclamato e affascinante romanzo di Colson Whitehead, “The Underground Railroad”. È la storia di Cora, una ragazza nata in schiavitù da Mabel, la prima schiava fuggita dalla Randal Plantation. In questo racconto di finzione, Cora fugge dalla piantagione con il suo amico Caesar, con Ridgeway, che ha il compito di catturarli, sulle loro tracce lungo l’Underground Railroad – una metafora della vita reale trasformata nel racconto di un vero e proprio viaggio. In questo romanzo il trauma generazionale di una schiavitù inconcepibile è tanto più devastante, perché raccontato in modo concreto attraverso la visuale degli schiavi. La ferita collettiva di un altro popolo messa a nudo, un passato comune atrocemente potente, una fonte delle loro storie e delle loro canzoni.
Ora sono tornata a casa, con mia figlia e i nostri amati cani e gatti, ma il mio cuore non lascia mai la Palestina. Quindi, ci sono, e continueremo a incontrarci nei paesaggi della nostra letteratura, della nostra arte, della nostra cucina e in tutte le ricchezze della nostra cultura condivisa.
Dopo aver scritto questa dichiarazione, ho saputo che la conferenza stampa sarà tenuta a Dar el Tifl. Ho vissuto i migliori anni della mia infanzia lì, nonostante la separazione dalla mia famiglia e le condizioni a volte difficili che vivevamo sotto l’occupazione israeliana. Dar el Tifl è l’eredità di una delle donne più ammirevoli che abbia mai conosciuto – Sitt Hind el Husseini. Mi ha salvato in più modi di quanti lei potesse aver immaginato o che io all’epoca avessi capito. Ha salvato molte di noi ragazze. Lei ci ha radunate da tutti i frammenti spezzati della Palestina. Ci ha dato cibo e riparo, ci ha educato e ha creduto in noi, e a sua volta ci ha fatto credere che eravamo degne. Non c’è posto più appropriato di Dar el Tift per leggere questa dichiarazione.
Voglio lasciarvi con un altro pensiero che ho avuto in quella cella, ed è questo: Israele è spiritualmente, emotivamente e culturalmente piccolo nonostante la grande quantità di armi che punta su di noi – o forse proprio a causa loro. È a loro discapito il non voler accettare la nostra presenza nella nostra patria, perché la nostra umanità rimane intatta e la nostra arte è bella e affermativa, e noi non stiamo andando da nessuna parte se non a casa.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte:https://usacbi.org/2018/11/susan-abulhawas-statement-to-the-kalimat-palestinian-literature-festival/?fbclid=IwAR2WbvclzgHDI4VLbCudyBV-K2Z_kqysfe150lqaeNl1meZBzkTxMpgzlnk