Il cibo qui è diventato politicizzato – in un certo modo, quasi un’arma – un microcosmo delle forze che plasmano la crisi umanitaria di Gaza.
Miriam Berger – ottobre 2018
Le due sorelle gazawi chiedono di poter fare passare il vassoio di dolci attraverso il checkpoint israeliano. “Per favore”, supplicano, “nostra sorella è incinta e tutto ciò che vuole è anche solo sentirne il profumo”.
L’uomo addetto alla prima fase del controllo di sicurezza, Palestinese lui stesso, rifiuta.
Le regole di Israele per ciò che è permesso far passare da Gaza possono spesso sembrare arbitrarie: quel giorno di novembre, in seguito a una nuova direttiva, il loro vassoio di cibo era un no-go. Poco dopo, l’uomo fa cenno alle donne di passare attraverso il controllo successiva del valico di Erez – l’unico punto di entrata e di uscita tra Israele e la striscia di Gaza – mentre i dolci delle donne, insieme agli altri articoli vietati trovati nelle loro borse, come cosmetici e pentole di terracotta, sono rimandate nella Gaza assediata.
Questa scena è solo un esempio di come il cibo qui è diventato politicizzato – in un certo modo quasi un’arma, – un microcosmo delle forze e degli interessi che modellano la violenza e le crisi umanitarie a Gaza. Dalle aggressioni alle restrizioni israeliane su ciò che può essere fatto entrare o uscire, dalla spaccatura politica palestinese al governo repressivo di Hamas, dalle debolezze di un’economia dipendente dagli aiuti – per capire cosa sta succedendo a Gaza, basta chiedere a qualcuno cosa sta mangiando e perché .
Consideriamo il caso della trentunenne Warda, un’affabile chef e madre divorziata di tre figli che vive con la sua famiglia molto conservatrice a Gaza City. (Munchies usa solo il suo nome per motivi di privacy.) Il cibo è fonte di molti dei piaceri della sua vita, oltre che un indicatore di tanti suoi dolori e preoccupazioni.
Warda non ha mai lasciato Gaza, una enclave costiera di soli 365 chilometri quadrati in cui abitano quasi due milioni di persone. Durante tutta la sua vita, le chiusure periodiche dei valichi hanno limitato i suoi movimenti. Ma poi, nel 2007, Israele e Egitto imposero un blocco dopo che Hamas vinse le elezioni sconfiggendo la rivale, l’Autorità Palestinese (PA), guidata dal partito di Fatah. Dopo tre guerre e dopo continui bombardamenti israeliani Gaza, che è uno dei luoghi più densamente popolati della terra, sta crollando a causa di poche ore di elettricità al giorno, acqua piena di liquami, ospedali gravemente sottodimensionati e disoccupazione diffusa che peggiora ogni giorno.
“Non ho libertà”, mi ha detto Warda a giugno. È alta e robusta e ha un carattere irrequieto, anche se occasionalmente si ritira in se stessa. “Dove altro posso andare?” Chiede lei quietamente.
Warda si oppone ad Hamas, che ha imposto una forma integralista di Islam e i cui militanti, dice, cercano ogni scusa per multare le persone e finanziare il governo corrotto a corto di soldi (o per intascarle). Quando iniziò il blocco, gli abitanti di Gaza furono in grado di alleviare l’assedio importando tutti i tipi di merci attraverso i tunnel sotterranei collegati alla vicina penisola del Sinai in Egitto. Ma il commercio dei tunnel si interruppe nel 2013, dopo che l’Egitto crollò, e nei cinque anni successivi l’economia di Gaza si è praticamente arrestata.
Warda gestisce ora una società di catering con diverse altre donne, ma sente di camminare costantemente su di un terreno instabile . Ha iniziato il lavoro a gennaio, perché ama cucinare e vuole risparmiare abbastanza denaro per ampliare la casa della sua famiglia e avere un po’ più di spazio per se stessa. Le società di catering, i cui clienti sono quei fortunati abitanti di Gaza con un po’ di reddito disponibile, riescono a malapena a cavarsela. Non possono infatti esportare i loro prodotti in Israele o nella Cisgiordania occupata, dove si trova l’Autorità Palestinese, a causa dei divieti israeliani. Nel frattempo, la divisione tra Hamas e Fatah si è approfondita: l’anno scorso l’AP ha smesso di pagare Israele per l’elettricità di Gaza in una mossa punitiva verso Hamas.
Come quasi tutti i residenti di Gaza, Warda fa affidamento sugli aiuti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro (UNRWA), che fornisce gli alimenti di base e gestisce scuole e cliniche. A gennaio il presidente Donald Trump aveva sospeso alcuni degli aiuti degli Stati Uniti all’UNRWA, per poi tagliarli del tutto alla fine di agosto, causando agli abitanti di Gaza tagli ai servizi e costanti minacce di ulteriori tagli a venire. L’aiuto alimentare dell’UNRWA non è il più salutare, e decenni dopo l’inizio delle distribuzioni, Gaza non può ancora permettersi di farne a meno. E’ una necessità perché non c’è alcuna alternativa in questo momento, dice Warda. Tutti i soldi che risparmia sono per quella stanza tutta per sè, e questo la pone tra i fortunati: ogni pasto porta con sé un po’ più di speranza.
Warda ha recentemente deciso di diventare vegetariana (o flexitariana, dato che mangia ancora coniglio): non le piaceva molto la carne e si preoccupava degli ormoni in essa contenuti, quindi, come parte della sua spinta all’indipendenza, ha deciso di mangiare solo ciò che le piace. C’è una battuta piuttosto comune in Medio Oriente, comunemente così ossessionato dalla carne, e cioè che essere vegetariani è motivo per essere ricoverati in manicomio, ma anche questa battuta a Gaza ha un finale più duro, visto che Warda non ha vie d’uscita.
Storicamente, però, Gaza ha avuto una cucina molto saporita, ricca e sana, come Laila El Haddad racconta nel suo libro di cucina del 2013, The Gaza Kitchen.
“Mentre Gaza fa parte del grande universo alimentare mediterraneo costituito da olive, pesce, ceci e ortaggi, è anche un ponte per i mondi culinari del deserto d’Arabia, del Mar Rosso e della Valle del Nilo”, scrive El Haddad. ” La cucina della costa urbana – nota per i suoi sofisticati piatti a base di pesce – è chiaramente distinguibile da quella dell’interno, più agricolo, ricca di verdure e legumi”.
L’idea stereotipata è che a un Gazawi piaccia il cibo speziato: la shatta, la salsa piccante mediorientale fatta di peperoni rossi tritati, è un alimento base in ogni casa di Gaza. Storicamente, Gaza era al centro del commercio di terra e di mare che collegava l’Africa e l’Asia, una centralità che influenzava la sua cucina con una varietà di spezie e di stili. Il popolare daqqa (a volte scritto dagga), ovvero insalata di pomodori freschi, peperoncini piccanti, olio d’oliva e aneto- include in sé il patrimonio culinario unico di Gaza. Ciò che troviamo sul tavolo riflette anche gli avvenimenti della storia contemporanea: i profughi palestinesi che nel 1948 si sono rifugiati a Gaza dopo la creazione di Israele e in seguito alla Nakba, hanno apportato alla cucina gazawi molti cambiamenti, arricchendone sia l’identitaà che i sapori .
A causa del suo attuale isolamento geografico, i piatti di Gaza sono molto meno conosciuti rispetto ad altri prodotti di provenienza palestinese e mediorientale. C’è un piatto famoso, ad esempio, probabilmente assente al di fuori di Gaza: la Knafa arabiya, una sorella con noci e bulgur della più famosa knafa nablusieh, una sorta di pasta sfoglia farcita di formaggio e immersa nello zucchero .
Raramente questo dolce viene preparato al di fuori di Gaza e non c’è praticamente più modo di farlo passare attraverso i valichi. E anche a Gaza, i custodi di questo piatto tradizionale cominciano ad essere stanchi: “È difficile mantenere la tradizione”, mi ha detto nel 2017 Mahmoud Saqallah, proprietario di Saqallah Sweets, che serve una delle migliori knafa arabiya e che è a Gaza City da oltre cento anni. “Al momento è difficile ottenere i prodotti necessari e tutto è più costoso”.
Le restrizioni di Israele su ciò che gli abitanti di Gaza possono importare ed esportare hanno di fatto reso il cibo, in ogni fase della catena alimentare, un oggetto politico, dicono i Palestinesi e i gruppi per i diritti umani.
Al valico di Kerem Hashalom, il principale punto di entrata e di uscita delle merci tra Israele e Gaza, “c’è davvero una mancanza di politica” in ciò che è permesso esportare o importare , dice Miriam Marmur di Gisha, un’organizzazione israeliana per i diritti umani. Tra il 2007 e il 2010, Israele ha imposto vaste restrizioni sull’uscita dei beni e delle persone da Gaza. Durante questo periodo, tutto, tranne alcune eccezioni, è stato proibito per motivi di sicurezza, ma la lista dei prodotti permessi non è mai stata resa disponibile al pubblico, ha detto Marmur.
Nel 2012, Gisha pubblicò alcune di queste informazioni dopo averle ottenute tramite una petizione sulla libertà di informazione. I documenti mostrarono che nel 2008 l’esercito israeliano aveva calcolato con precisione la quantità giornaliera di calorie necessarie per evitare la malnutrizione a Gaza (2279 per persona, in accordo con le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) così da determinare la quantità di cibo da lasciar passare.
“Il governo israeliano non voleva che i residenti di Gaza morissero di fame, ma neppure che fossimo troppo pieni, felici e soddisfatti”, mi ha detto Marmur a giugno. L’ha definita una forma di “guerra economica” volta a ” spremere le persone per fare pressione su di loro nel rovesciare Hamas”.
“Sono passati undici anni e quella politica non ha funzionato”, ha aggiunto.
I militari negarono che il calcolo fosse inteso a limitare il flusso di cibo, ma piuttosto ad evitare una crisi umanitaria.
L’esercito israeliano ha allentato alcune delle restrizioni, in particolare nel 2010, quando iniziò a consentire l’entrata di tutti i beni tranne quelli definiti a “doppio uso”, un’ampia categoria che comprende tutto ciò che potrebbe potenzialmente essere usato per costruire un’arma.
Ma i Palestinesi sostengono che molte delle restrizioni sono decise in modo arbitrario e basate sul mantenimento del vantaggio economico di Israele piuttosto che sulla sicurezza. Secondo i ricercatori israeliani Aeyal Gross e Tamar Feldman, nel corso degli anni le importazioni di cioccolato, coriandolo macinato e margarina industriale sono state vietate, anche se sono consentite altre erbe come issopo e altri tipi di margarina. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, nel 2009, pasta e lenticchie furono rimosse dalla lista vietata solo dopo che il senatore John Kerry e altri rappresentanti statunitensi visitarono la Striscia di Gaza e rimasero sconvolti nello scoprire che erano proibiti.
“Questo ha instillato negli abitanti di Gaza un forte senso di incertezza e di completa mancanza di controllo sulle loro scelte alimentari”, hanno scritto Gross e Feldman in uno studio del 2015 sul “Berkeley Journal of International Law”. “Alcune delle aggiunte alla lista sono state fatte anche per promuovere interessi economici israeliani, come la protezione dei prezzi di mercato degli agricoltori locali israeliani in caso di prodotti agricoli in eccesso”.
Gross e Feldman hanno notato che la tahina, o pasta di sesamo, prodotta in Israele, ha assunto il controllo del mercato di Gaza dopo che Israele aveva periodicamente vietato l’importazione di semi di sesamo. La tahina rossa, prodotta con semi appositamente tostati, è uno dei cibi preferiti di Gaza diventato troppo costoso da preparare.
Oggi, gli alimenti processati sono in teoria autorizzati a lasciare Gaza per essere esportati all’estero “attraverso il valico di Kerem Shalom in accordo con l’approvazione del Ministero della Salute e soggette alle direttive sul controllo di sicurezza del valico”, affermava un portavoce del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori (COGAT) in una email inviatami in agosto. “Non vi è alcuna esportazione di prodotti alimentari processati dalla Striscia di Gaza in Israele o nelle regioni di Giudea e Samaria [il termine del governo israeliano per la Cisgiordania] a causa del rifiuto del Ministero della Salute”, ha continuato il COGAT.
Wa’el Al Wadia, l’amministratore delegato del più grande produttore alimentare di Gaza, esportava l’80% dei suoi prodotti in Cisgiordania, mi ha detto in aprile. Ma ora il suo commercio è solo una frazione di quello che era una volta: non c’è nessun posto dove i suoi sacchetti di patatine e snack possano essere esportati. Ha dovuto ricostruire la sua fabbrica dopo che le bombe israeliane l’avevano distrutta nelle guerre del 2009 e del 2014, e non ha ancora recuperato le perdite.
L’assedio ha ulteriormente sconvolto tutti i settori dell’economia alimentare locale. Abu Hasira Street è il posto dove andare a Gaza City per trovare il pesce più fresco. Lì, vi sono diverse pescherie di proprietà della famiglia Abu Hasira, e ogni Gazawi ha la sua preferita. Da Al Muneer Abu Hasira, il pesce viene servito appena sfornato e i gamberetti sfrigolano in un tegame di argilla con una tipica salsa di pomodoro piccante e saporita.
Ma milioni di litri di liquami grezzi si riversano ogni giorno nel mare di Gaza: Israele ha distrutto gran parte delle infrastrutture fognarie durante la guerra del 2014 e non c’è sufficiente elettricità per gestire ciò che ne rimane. Ciò rende la maggior parte dei prodotti ittici di Gaza, come l’amato granchio blu, un cibo proibito per coloro che sono preoccupati di ciò che i pesci possono aver ingerito. Altri semplicemente non possono più permettersi il pesce
Prima della vittoria di Hamas nel 2007, Gaza esportava pesce in Israele e in Cisgiordania. Ora, per supposti “motivi di sicurezza”, Israele permette ai pescatori di allontanarsi solo per poche miglia. A volte i soldati israeliani uccidono i pescatori che si avventurano oltre i limiti imposti; Israele afferma che rappresentano una minaccia come potenziali contrabbandieri. L’industria della pesca di Gaza è ormai solo una minuscola parte di quella che era.
Anche le aziende agricole di Gaza subiscono l’assedio in una miriade di modi. Molte delle principali aree agricole di Gaza sono al confine con Israele: le bombe israeliane cadute durante le guerre e il pesticida spruzzato nel frattempo (che secondo Israele impedisce ad Hamas di utilizzare le aree come copertura per tunnel e attacchi terroristici) ha reso inutilizzabile gran parte delle terre; l’alto costo dell’importazione di fertilizzanti e semi da Israele limita ulteriormente la produzione.
Tra i Palestinesi di Gaza, si è diffusa la voce che le verdure importate da Israele siano avvelenate, sebbene non ci siano prove a sostegno di ciò. Queste congetture non fanno altro che dimostrare come il cibo sia diventato un ulteriore tipo di arma.
Presso i centri di distribuzione UNRWA di Gaza ci sono borse e scatoloni pieni di riso bianco, farina, zucchero, lenticchie, ceci, lattine di sardine, latte in polvere, tahina e olio di semi di girasole. Circa un milione dei 1,9 milioni abitanti di Gaza vengono qui quattro volte l’anno per ricevere pacchi di viveri, mi ha detto Asem Abu Shawish, capo dell’UNRWA Field Relief and Social Services Program. I più bisognosi, il 68% dei destinatari, riceve una quantità maggiore.
Al di fuori delle strutture di cemento squadrate, la folla si raduna e alcune persone vendono barattoli di tahina o lattine di sardine in cambio di contanti necessari per altri bisogni urgenti.
Mutasem, 24 anni, guadagna alcuni shekel trasportando con il suo asino gli scatoloni di alimentari nelle case della gente. Ha una laurea in servizi sociali ed è il più giovane di dodici fratelli. “Questo è l’unico lavoro che sono riusciuto a trovare”, mi ha detto a giugno.
L’UNRWA ha iniziato a distribuire cibo nel 1950, due anni dopo che Israele aveva cacciato o espulso 700.000 Palestinesi dalle loro terre, persone i cui discendenti oggi sono ancora classificati come rifugiati. Sin dalla sua fondazione, l’UNRWA ha agito come rappresentante ufficiale dei rifugiati palestinesi e fornisce cibo, istruzione e servizi sanitari a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, Libano e Siria.
“Ciò che rende ancora più disperata la situazione dei rifugiati di Gaza, è che il loro unico sbocco è l’UNRWA”, spiega Abu Shawish, lui stesso rifugiato ed educato nelle scuole dell’UNRWA. Dice che lui è abbastanza fortunato da non aver bisogno di aiuto, ma senza i pacchi alimentari, avverte, molti altri patirebbero la fame. Dopo che l’America, storicamente il più grande donatore dell’UNRWA, ha tagliato del tutto i suoi aiuti ad agosto, l’UNRWA si è impegnata a raccogliere fondi e a cercare di evitare tagli diffusi, forse mortali, a Gaza. L’UNRWA rimane essenziale anche per i discendenti dei profughi palestinesi, poiché mantenendo il loro status di rifugiati, mantengono la loro rivendicazione legale sul diritto al ritorno nell’attuale Israele ( cosa a cui invece si oppongono i leader di Israele e degli Usa).
Nel corso degli anni, i requisiti applicati dall’UNRWA per ottenere aiuti alimentari sono cambiati. Secondo Abu Shawish, al 68 per cento che costituiscono le persone con bisogni più gravi, l’UNRWA mira a fornire l’80 per cento del fabbisogno calorico giornaliero (1.675 su una media di 2100 calorie).
Non tutte le calorie, tuttavia, sono uguali. Per decenni, la farina bianca, il riso, l’olio di colza e il latte in polvere di qualità inferiore hanno avuto un costo, sia su come le ricette di Gaza hanno dovuto essere riadattate a causa di questi prodotti scadenti, sia sulla salute generale delle persone.
“A Gaza le agenzie internazionali distribuiscono principalmente farina bianca e meno cereali tradizionali, come la frika (grano verde), il bulgur e l’orzo”, hanno scritto Gross e Feldman nel loro documento del 2015. “A causa della dipendenza della popolazione di Gaza da queste agenzie per la fornitura di cibo, questi grani nutritivi sono stati quasi completamente eliminati dalla loro dieta, minando sia la cultura della cucina locale che la salute”.
“L’aiuto alimentare dovrebbe avere una chiara strategia per il raggiungimento dell’autonomia, evitando di creare dipendenza”, continuano.
Certamente questo non è il caso di Gaza. Ed è una delle critiche centrali che i Palestinesi fanno all’UNRWA: da decenni, l’Agenzia è diventata uno strumento dello status quo –occupazione e debole leadership palestinese incluse. Ma mentre i Palestinesi stessi criticano il modo in cui viene gestita l’UNRWA, chiunque viva questa realtà sa che i tagli degli Stati Uniti danneggeranno solo le persone e causeranno maggiore instabilità, senza portare a riforme produttive.
“Sono molto critico nei confronti dell’UNRWA”, mi ha detto Omar Shabaan, economista politico di Gaza educato nelle scuole dell’UNRWA e che ha lavorato per l’Agenzia. “Ma che la critica possa portare alle riforme …. Non si possono interrompere gli aiuti degli Stati Uniti all’UNRWA e chiedere all’UNRWA di continuare a fare da strumento per la stabilità … Si ucciderebbe l’UNRWA. ”
Trovandosi sotto questa minaccia, a volte sono riluttanti a decidere dei cambiamenti “, ha aggiunto.
Nel 2016, l’UNRWA ha lanciato un nuovo “cesto” alimentare, più sano e con cibi più ricchi di componenti energetici: hanno introdotto lenticchie, ceci e latte in polvere, sostituito la carne in scatola con le più nutrienti sardine in scatola e ridotto la quantità di zucchero.
“Uno dei criteri con cui vengono introdotti i cambiamenti, è che la comunità sia d’accordo”, ha affermato Abu Shawish. Per questo motivo lo zucchero è stato diminuito ma non eliminato, ha spiegato, perché anche le famiglie più povere hanno bisogno di qualcosa di dolce una volta ogni tanto.
“Se non hai nulla da mangiare, ti fai il tè con lo zucchero e lo mangi con il pane”, ha detto.
I prodotti alimentari distribuiti sono importati da tutto il mondo, mi ha riferito a giugno Awni Madhoun, 61 anni, un funzionario dell’UNRWA Warehousing Officer a Gaza. Il riso, ad esempio, viene attualmente dal Pakistan, l’olio dalla Turchia e il latte dall’Argentina attraverso una società in Giordania.
Le commesse vanno al più basso offerente e alcuni Paesi hanno piccoli monopoli su queste industrie. Questo processo mette in una posizione di svantaggio i produttori locali di Gaza.
“I fornitori locali hanno costi diversi, come l’elettricità, il costo delle materie prime da Israele”, ha detto Madhoun. “Hanno un sacco di spese che rendono il prezzo più alto di quello esterno.”
La farina è il principale prodotto fornito internamente: circa il 30 percento della farina proviene dalle fabbriche di Gaza e il 70 percento dall’esterno, in gran parte dalla Turchia, ha detto Madhoun. La quantità esatta, tuttavia, cambia ogni volta in base ai calcoli monetari.
Madhoun ha rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda sulla politica: quello, ha detto, non faceva parte del mandato dell’UNRWA.
Sabah Abdul Kareem Jarbewa, 50 anni, vive in un vicolo impoverito a Gaza City, in una fatiscente casa di cemento senza delle vere e proprie porte e senza un tetto decente. Lei e suo marito, che è disabile, stanno lottando per pagare l’affitto e sostenere i loro sette figli.
“A volte vendo cose dell’UNRWA per avere dei soldi con cui comprare una busta di zaatar [un mix di spezie] o pomodori”, mi dice. Il suo cibo preferito è il maftoul, una sorta di couscous, ma non può permettersi la carne tradizionalmente cucinata per accompagnarlo. Ora con il denaro e con gli aiuti che diventano sempre più limitati, ha sempre più bisogno di soldi e ha meno articoli che può vendere per ottenerli.
“Vorrei del pollo, vorrei dei pomodori …” dice, la voce che si affievolisce.
C’è stato un tempo, però, in cui attraverso i tunnel si poteva ottenere qualsiasi cosa, persino il pollo fritto KFC consegnato fresco dall’Egitto (anche se a un prezzo molto alto). Tra il 2008 e il 2013 c’erano circa 1.000 tunnel in uso, ha detto Shaban, l’economista di Gaza, una redditizia soluzione all’assedio di terra e di mare da parte di Israele.
“Fino al 2013, forse il 95 percento del cibo arrivava attraverso i tunnel”, ha detto Shaban. “Perché era molto più economico, quindi la gente preferiva i tunnel.”
“L’industria” dei tunnel ha permesso ad Hamas di continuare ad importare armi e combattenti. Ma è anche servita da principale fonte di finanziamento per il loro governo. “Il budget esatto del governo non è chiaro”, ha detto Shaban, ma lui e altri hanno stimato che tassando i tunnel Hamas guadagnava mezzo miliardo di dollari all’anno.
Per un po’ funzionò: Hamas poteva combattere Israele e contrastare la sua rivale PA in Cisgiordania, mantenendo tutte le sue basi. Ma poi nel 2013 i militari egiziani riconquistarono il controllo del governo e repressero i movimenti islamisti. Mentre nel Sinai infuriava l’’insurrezione, i militari inondarono e bombardarono i tunnel nel tentativo di isolare Hamas e gli altri islamisti.
Sempre più a corto di contanti, Hamas impose tasse su molti atti della vita quotidiana e del commercio. Per Wadia, il fondatore della più grande industria alimentaredi Gaza, ciò significava che su tutto ciò che importava doveva pagare pesanti tasse a tre autorità diverse.
“Paghiamo le tasse a Israele”, ha detto. “Paghiamo una tassa a Fatah. Paghiamo una tassa a Hamas. Abbiamo tre governi. Ci sparano tutti … Siamo oppressi da tutti”.
La mancanza di accordi tra Hamas e Israele, o tra Hamas e Fatah, “rende molto difficile la produzione”. Era stufo, dice. Ma aveva una fabbrica e un sogno da mantenere in vita. L’uomo fa girare i sacchetti di snack della sua compagnia, la sua principale fonte di orgoglio, esprimendo elogi per il loro gusto.
Hamas è notoriamente riservato e poco trasparente, quindi è praticamente impossibile quantificare l’entità della corruzione e dell’uso improprio dei fondi governativi, ha affermato Shaban.
La divisione del 2007 tra Hamas e Fatah ha polarizzato tutte le parti della società palestinese, incluso il welfare: gli abitanti di Gaza accusano Hamas di fornire servizi solo ai suoi sostenitori, non ai suoi oppositori.
“È impossibile verificare quanto sia trasparente la distribuzione [degli aiuti], per molte ragioni”, ha detto Shaban, quando gli è stato chiesto come Hamas avesse usato o abusato del cibo come mezzo per ottenere il sostegno pubblico. In parte, è dovuto anche al fatto che “questa è la cultura dei partiti politici in Palestina … danno la priorità ai loro membri. Potresti chiedere lo stesso all’AP quando ricevono cibo. Lo distribuiscono a tutti? No. Conosco un sacco di persone povere che non sono affiliate e non ricevono aiuti. Non ora, e neppure quando l’Autorità Palestinese era al potere.”
Israele accusa Hamas di usare i suoi soldi e le sue risorse per costruire più tunnel per il contrabbando di armi e e non per aiutare la popolazione afflitta da uno stato di sottosviluppo. A Gaza, molti Palestinesi mi hanno detto che sono arrabbiati per il fatto che i funzionari di Hamas vivono negli agi mentre le persone lottano tutti i giorni per mangiare e avere un posto dove dormire. Ma,vivendo sotto assedio, la gente dice che la frustrazione non è produttiva. Invece, i problemi di Gaza continuano a nutrirsi l’uno dell’altro.
“Puoi migliorare un po’ le condizioni di una prigione, ma resta comunque una prigione”, ha detto Shaban.
A Gaza, i tagli all’UNRWA sono solo l’ultimo calcio nello stomaco all’economia e alla società già affamata. Dopo tutto, per comprendere la follia dell’utilizzare le politiche alimentari come arma, basta chiedere a qualcuno cosa sta mangiando e perché.
Ghazi M. Mushtaha, 45 anni, è il proprietario di una delle gelaterie più famose di Gaza, Eskimo el Arousa. Tranne che durante le ultime due estati, mi dice che ha dovuto praticamente interrompere la produzione: i generatori per mantenere la fabbrica costano troppo, mentre le persone non possono permettersi l’elettricità per conservare il gelato. Prima di Hamas e dell’assedio, vendeva spesso i suoi gelati in Cisgiordania e visitava i sui contatti commerciali in Israele. Nel suo ufficio ha ancora una sua foto di venticinque anni fa, mentre sorride e sfoggia un paio di baffi neri con Tel Aviv sullo sfondo.
“Abbiamo affrontato problemi come questo prima e durante le ultime tre guerre, ma questa volta è più dura e difficile”, ha detto. “Ora quando ho sete e mi porti una piccola tazza d’acqua, penso che sia troppa.”
Trad : Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://munchies.vice.com/en_us/article/evw3v4/to-understand-gaza-start-with-what-people-are-eatingand-why?fbclid=IwAR3jdGjPdcxOmqFSqS0C-JzRV7MQO6uf7xacOiCbacKzE4ysN8b6oJK3TJU