“Siamo qui, fermi in un limbo. Bloccati… Perché?”, Gizat siede all’esterno di una delle tante baracche del sobborgo di Menahria, Addis Abeba.”Io mi chiedo perché succede tutto questo? Perché dobbiamo stare separati?”.
Addis Abeba – Giugno 2018 – Davide Lemmi, Franco Zambon, Marco Simoncelli
“Siamo qui (Addis Abeba), fermi in un limbo. Bloccati… Perché?”, Gizat siede all’esterno di una delle tante baracche del sobborgo di Menahria, Addis Abeba.”Io mi chiedo perché succede tutto questo? Perché dobbiamo stare separati?”
In questo povero quartiere della caotica capitale etiope vivono i Falash Mura, gli ultimi membri dell’antichissima comunità ebrea etiope dei Falashà che non hanno ancora realizzato l’Aliyah, il viaggio verso la “terra promessa”.
Come molti membri della comunità, quando era bambino Gizat si è trasferito ad Addis dalla regione dell’Amara assieme alla sua famiglia nella speranza di migrare in Israele. Ora, dopo 19 anni d’attesa, la maggior parte dei suoi cari ha ottenuto il permesso per partire, mentre lui è rimasto solo.
Si stima che in Etiopia vivano ancora più di 8mila ebrei etiopi, 2mila dei quali si trovano ad Addis Abeba mentre il resto vive ancora nei dintorni di Gondar, l’insediamento storico di questa comunità le cui origini restano ancora oggi sconosciute. Alcune teorie religiose sostengono che la comunità dei Falashà derivi dal frutto dell’unione tra Salomone e la Regina di Saba, ma l’ipotesi più plausibile è che discenda dalla fusione tra le popolazioni africane e un gruppo di ebrei fuggiti dopo la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. e in diaspore successive.
In Israele il dibattito sulle radici di questa comunità e sulla loro effettiva “ebraicità” va avanti da decenni. I loro riti e credenze sono praticamente identici a quelli ebraici, ma il pronunciamento su di loro di alcuni illustri rabbini arrivò solo negli anni 70 e portò al loro riconoscimento come probabili discendenti della tribù di Dan, una delle dieci tribù perdute dell’antico regno di Israele.
In quegli anni i Falashà erano minacciati da carestie e dal sanguinario regime del Derg, così Tel Aviv decise di trasportarli nel suo territorio, organizzando numerose operazioni militari coordinate dal Mossad. I ponti aerei dal Sudan e i voli direttamente dall’Etiopia si conclusero nel 1991 con l’operazione “Salomone”, con oltre 22mila ebrei etiopi trasferiti in Israele.
Quasi l’85% dei Falashà venne trasferito in quegli anni e oggi si stima che la comunità ormai stabile in Medio Oriente sia di circa 135 mila persone. Dopo quell’esodo, però, le porte di Israele si sono improvvisamente chiuse e qualcuno è stato lasciato indietro.
Ed è qua che si torna alla storia di Gizat e dei Falash Mura. I loro antenati vennero costretti a convertirsi al cristianesimo da missionari anglicani per un breve periodo durante il XIX secolo. Per questa ragione non sono stati riconosciuti come ebrei, né hanno potuto usufruire della Legge del Ritorno.
Inoltre molti nuclei familiari sono stati separati. Ad alcuni infatti è stato permesso di fare l’Aliyah perché secondo i precetti ortodossi, solo gli ebrei da parte di madre possono compiere il “ritorno”.
Oggi questi ebrei vivono in condizioni difficili a Gondar o ad Addis Abeba. Abitano in minuscole baracche di legno, pietre e lamiere circondate da rifiuti e fogne a cielo aperto. Hanno difficoltà a trovare lavoro e ad integrarsi per via del forte stigma sociale che subiscono quotidianamente.
“Qua viviamo come rifugiati”, ci dice Abere, uno studente di ingegneria che, nella comunità, si occupa di coordinare le attività dei più giovani nella sinagoga: “Non è solo una questione economica, anche dal punto di vista dell’istruzione siamo emarginati”.
Gli zii e i cugini del giovane Falaschà si trovano a Tel Aviv adesso: “Ogni giorno sento la loro mancanza, ormai sono quattro anni che non li vedo”. Nonostante la segregazione e le violenze che subiscono da parte delle altre comunità i Falash Mura, da più di vent’anni, continuano a praticare il loro culto in umili sinagoghe di fortuna. Nel frattempo gli ultimi ebrei etiopi aspettano, lanciando appelli e scioperi della fame per tenere alta l’attenzione di Israele.
Da qualche anno, grazie alla pressione di gruppi simpatizzanti in Israele e al lavoro della comunità Falasha in Medio Oriente, è in corso un forte dibattito politico-religioso sui loro diritti e sulla loro accoglienza. Fino ad ora però le istituzioni israeliane, per lo più governate da partiti di destra come il Likud di Netanyahu e influenzate dalla lobby ortodossa, hanno tenuto una linea molto restrittiva.
Gli attivisti accusano l’esecutivo di razzismo e “voluta inefficienza” per evitare l’arrivo in massa di quelli che considera “ebrei di serie B”.
Nel 2015 il Knesset aveva approvato un disegno di legge per mettere fine al capitolo dei Falash Mura. Con un piano da 284 milioni di dollari in 5 anni si sarebbe dovuto provvedere al trasporto e all’inserimento graduale degli ultimi ebrei etiopi, ma tre mesi dopo la votazione, il governo Netanyahu si è rimangiato il testo di legge giustificandosi con l’impossibilità di sostenerlo economicamente.
Dopo infinite polemiche, attualmente i fondi da destinare al rientro dei Falash Mura devono essere approvati ogni anno e l’esecutivo lo fa con sempre meno interesse. Nei primi due anni il denaro è stato stanziato in ritardo, mentre nella legge di bilancio previsionale 2018-2019 i Falash Mura non sono stati nemmeno inclusi. Mentre i sit-in e gli scioperi della fame continuano, il futuro di questa comunità resta incerto. Lo testimoniano le dichiarazioni fatte dal presidente israeliano Reuven Rivlin in Etiopia i primi di maggio. “Israele è responsabile di tutti gli ebrei”, queste le parole del Capo di Stato durante un incontro con la comunità nell’Ambasciata di Addis Abeba: “Giustizia deve essere fatta, ma purtroppo, ad ora, non è possibile fare promesse”.
Fonte: http://www.occhidellaguerra.it/52512-2/