E la reazione contro Omar che alza la voce perché ci sia giustizia di fronte all’oppressione dei palestinesi e alla complicità degli Stati Uniti nel suo perpetuarsi, è la prova che i giorni in cui Israele può opprimerci impunemente stanno per giungere al termine.
di Mariam Barghouti, 14 febbraio 2019
Guardare Ilhan Omar affrontare gli attacchi per le sue critiche nei confronti di Israele è stato scoraggiante e rivelatore di come sia teso il discorso che circonda Israele negli Stati Uniti. Come palestinese che vive sotto occupazione israeliana in Cisgiordania, avere Omar, un membro del Congresso degli Stati Uniti, che parla apertamente a nostro nome è stata una boccata d’aria fresca. E vederla attaccata per averlo fatto è stata una lezione obiettiva sulla capacità di Israele di esportare la repressione del dissenso.
A dire il vero non sono sorpresa dell’enorme reazione negativa contro Omar. Perché, come scritto in un recente pezzo di opinione sul New York Times, siamo nel bel mezzo di un “attacco progressista a Israele”.
Il pezzo è stato scritto dall’ex redattore capo di The Jerusalem Post, Bret Stephens. Ma per una volta, Stephens ha ragione. E’ in corso un attacco contro Israele in area progressista.
È ora, soprattutto perché la storia ci ha insegnato che qualsiasi oppressione procurerà ipso facto una forma di resistenza ad essa.
E la reazione contro Omar che alza la voce perché ci sia giustizia di fronte all’oppressione dei palestinesi e alla complicità degli Stati Uniti nel suo perpetuarsi, è la prova che i giorni in cui Israele può opprimerci impunemente stanno per giungere al termine.
Non dobbiamo più serbare le nostre critiche per spazi sicuri. Non dobbiamo più sussurrare le nostre richieste di giustizia e libertà per timore di recriminazioni.
Le nostre grida per una pace costruita sulla giustizia sono finalmente ascoltate.
Ma questa fine non arriverà senza combattere, e il pezzo di opinione di Stevens è utile in quanto evidenzia i contorni lungo i quali si svolgerà quella lotta.
Tanto per cominciare, agli occhi di Israele e dei suoi sostenitori, gli antisionisti saranno sempre rappresentati come antisemiti. Come ha affermato Stevens, “l’antisionismo – cioè il rifiuto non solo di questa o quella politica israeliana, ma anche dell’idea stessa di uno stato ebraico – sta diventando una posizione rispettabile tra le persone che non appoggerebbero mai l’eliminazione di nessun altro paese in qualsiasi altra circostanza. E sta scatenando una nuova ondata di bigottismo apertamente antiebraico sulla sua scia”.
Questo è ovviamente falso. Sempre più ebrei stanno diventando anti-sionisti. La vita dei regimi oppressivi può durare solo per un po’ e opporsi allo Stato di Israele, una nazione sovrana, non è affatto paragonabile al bigottismo contro un’etnia.
Ma questa tattica diffamatoria viene regolarmente usata per mettere a tacere i palestinesi e i loro sostenitori. È pericoloso e fortifica la falsa idea che essere ebrei o non essere antisemiti significhi essere inequivocabilmente a favore di Israele. E, naturalmente, questa denigrazione è in parte il risultato di un Israele che esporta le tattiche con cui reprime i palestinesi che affrontano il suo regime brutale, anche in modi nonviolenti come il movimento BDS.
Israele viene spesso presentato come il rifugio sicuro degli ebrei da un mondo che è stato storicamente a loro ostile. Questa immagine è quella che riconosce le gravi ingiustizie che hanno e di fatto continuano ad affliggere la comunità ebraica in tutto il mondo. Non si può negare che l’antisemitismo sembri essere in aumento in questa epoca di neo-nazismo e violenza, con l’incendio di sinagoghe e persino l’omicidio in Francia e negli Stati Uniti. È quindi comprensibile che Israele dia di sé l’immagine di rifugio per l’ebraismo globale.
Ma sin dal suo inizio, quel rifugio è la nostra repressione. Ancora oggi, 70 anni dopo la Nakba che ha visto palestinesi massacrati ed espulsi, Israele continua a costruire ancor più insediamenti e dislocare altri palestinesi. Controlla il movimento dei palestinesi e vieta il matrimonio fra palestinesi di Cisgiordania e Gaza con quelli che hanno cittadinanza israeliana. Ha eretto un muro di cemento alto otto metri dietro il quale applica un sistema di apartheid in cui una popolazione è privilegiata rispetto a quella autoctona.
Ancora più grave è il modo in cui la politica israeliana è costruita attorno all’annullamento dell’identità palestinese, cosa che si può vedere in tutto: dal rinominare le strade di Hebron all’appropriazione della cucina araba, alla rappresentazione semplicemente simbolica dei membri palestinesi della Knesset come esibizione di tolleranza israeliana verso la sua popolazione “araba”.
Spesso sentiamo Israele descritto come “l’unica democrazia in Medio Oriente”. Eppure, come si può chiamare democrazia un paese che occupa milioni di persone senza concedere loro diritti civili di base?
Invece di concentrarsi su tutti i modi in cui Israele non riesce a essere una democrazia, Stevens e gente come lui sono soliti invece fare confronti fra Israele e i suoi vicini arabi, inclusa la brutale dittatura della Siria.
“Se lo stato ebraico è davvero così malvagio, perché non si comporta come il Bashar al-Assad della Siria o il Vladimir Putin della Russia?” chiede Stevens.
È come se essere migliore della Siria rendesse Israele degno di una sorta di premio. Peggio ancora, qui è in atto un imbroglio. Si presume che Israele sia migliore della Siria e di altri tiranni mediorientali perché Israele non opprime il suo stesso popolo.
Ma, naturalmente, l’oppressione assume più di una forma. Mentre i tiranni nel mondo arabo opprimono la loro stessa popolazione, Israele opprime i palestinesi. E Israele ha oppresso la sua comunità ebraica Mizrahi per il suo arabismo, reprimendo le loro proteste e le loro voci. Mentre Stephens prende atto della loro posizione nella società israeliana, non riconosce che gli ebrei Mizrahi in Israele sono stati storicamente oppressi, tenuti nelle classi socioeconomiche più basse di Israele e sono regolarmente discriminati, con un pregiudizio sistemico e un razzismo inestricabile dalla stessa Israele.
E mentre Stevens nota che “Arafat praticava il terrorismo”, proprio l’anno scorso, quando Gaza ha intrapreso un movimento di protesta nonviolenta contro l’assedio israeliano lungo ormai dieci anni, manifestanti disarmati sono stati uccisi, inclusi giornalisti, medici e bambini che non rappresentavano nessuna minaccia per l’esercito israeliano.
Se Israele e i suoi difensori ritengono che l’appello per il boicottaggio sia un attacco, dovrebbero dare una lunga occhiata all’attuale attacco alle vite palestinesi che sono state parte integrante di Israele fin dal suo inizio.
Ma alla fin fine, hanno ragione ad essere preoccupati. Ciò che il gran trambusto di Omar ha mostrato è che la sinistra non si accontenta più di essere progressista su tutto tranne che su Israele. Era ora.
Mariam Barghouti è una scrittrice che vive a Ramallah.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org