Vento di primavera con Ibrahim

Il weekend del 9 /10 Marzo ha portato a Roma uno dei più brillanti e prolifici letterati del mondo arabo contemporaneo, Ibrahim Nasrallah.

Copertina: Lo scrittore col suo editore Wasim Dahmash

Lo scrittore, diretto come ogni anno a Cagliari per far parte della giuria del Festival del documentario arabo e palestinese “Al Ard”, ha fatto una breve ma intensa sosta nella capitale per presentare una sua raccolta di poesie, ora tradotta anche in Italiano dal professor Wasim Dahmash e pubblicata da Edizioni Q , dal titolo “ Specchi degli angeli”.

Al termine di un reading poetico incredibilmente emozionante e suggestivo, ho avuto modo di fare una chiacchierata con lui e di saperne di più di uno dei più importanti esponenti della poesia e del romanzo palestinese.

Intervista di Sonia Valentini, marzo 2019

Quando ha iniziato a scrivere e perché?

Ho iniziato a scrivere quando avevo dodici anni e frequentavo la scuola media, ho iniziato con una scrittura molto semplice propria di un bambino di quell’età. Poi, durante la scuola secondaria, mi sono cimentato con romanzi e poesie. Ho cominciato a scrivere seriamente dopo la scuola, il primo diwan (raccolta di poesie, ndr) che ho pubblicato ha vinto un premio in Giordania. Quello è stato l’inizio vero e proprio. Il motivo? E’ difficile dare una motivazione precisa, credo che la scrittura per me sia la maniera più autentica per esprimere le mie emozioni, ciò che affronto nel corso della mia vita.

Quali autori l’hanno formata maggiormente e com’è arrivato a loro?

Innanzitutto gli scrittori e poeti arabi conosciuti grazie alla scuola. Quando iniziai a scrivere in maniera professionale, mi ero già costruito un background letterario non da poco che comprendeva, oltre alla letteratura classica, anche il teatro, soprattutto quello americano.

Nonostante non abbia completato i miei studi di pedagogia, ho sempre sentito la necessità di continuare a studiare, tanto da essermi preparato un programma di studi da autodidatta. Ho iniziato a leggere poesia classica, dall’Iliade e l’Odissea, passando per il teatro e la critica greca. Mi sono poi interessato al romanzo del diciannovesimo secolo, alla sua evoluzione e al cinema, mia grandissima passione. Ho dedicato settimane a vedere tutti i film di Elia Kazan, di Fellini, di Visconti. Sono stato anche molto influenzato dai romanzi di autori italiani come Buzzati, per non parlare del mio amore per Pirandello.

In effetti il suo primo romanzo, Febbre, può ricordare al lettore italiano la spazialità e il tempo che si respirano ne “Il deserto dei tartari “di Buzzati.

Lo immagino, ma sa, a quel tempo non lo conoscevo! L‘ho letto solo successivamente. Poi, ho capito che c’era qualcosa che ci legava.

Mahmoud Darwish una volta affermò che in alcuni casi la prosa può commuovere, toccare le corde dell’anima più in profondità della poesia. Lei che ne pensa?

Quando ho iniziato a scrivere mi sono trovato a realizzare sia romanzi che poesie. Nel mondo arabo, la poesia ha sempre occupato una posizione preminente e ha esercitato un’influenza profondissima fino alla fine degli anni ottanta. A tal proposito ricordo che quando volevo pubblicare il mio primo romanzo, Febbre, il mio editore era molto contrariato e voleva che continuassi con la poesia. Molti poeti vorrebbero scrivere romanzi, lo stesso Darwish, ma per scrivere un romanzo non basta pensarlo, bisogna farlo. Per me sono piante diverse di un medesimo giardino, che annaffio ed alimento in momenti diversi della mia vita.

Credo che negli ultimi dieci anni la vitalità del romanzo sia aumentata incredibilmente e che abbia acquistato una forza unica che prima non aveva. Allo stesso tempo però credo che se ci si allontanasse troppo dalla poesia perderemmo una parte della nostra identità.

Il suo progetto letterario dal titolo “La commedia palestinese” è un’opera epica che ad oggi conta all’incirca dodici volumi , ce ne può parlare?

Questo progetto nasce dall’idea di voler scrivere un romanzo lungo sulla Palestina pre 1948. Io, da lettore, ho cercato a lungo un romanzo del genere senza riuscire a trovarlo. Così ho iniziato a raccogliere dati per la scrittura dell’opera, e più ne raccoglievo più mi rendevo conto che era impossibile racchiudere la Palestina in un solo lavoro. Così ho avuto l’idea di scrivere una serie di romanzi indipendenti fra loro ma che si potessero collocare in una cornice comune.

Il primo romanzo della serie non venne alla luce se non 22 anni dopo. Oggi la commedia copre 250 anni di storia moderna della Palestina a livello umano, nazionale e storico. In questi giorni ho pubblicato una trilogia di romanzi sulle città palestinesi, uno parla di musica, l’altro di amore e l’ultimo di fotografia. E’ anche un omaggio ai palestinesi cristiani e al ruolo che questi hanno avuto nella resistenza nazionale. Le tre città di cui parlo sono infatti Gerusalemme, Betlemme e Bayt Sahour. Ad oggi l’opera conta dodici romanzi ma è un progetto che non finisce qui, è in continua espansione. Ad esempio vorrei scrivere un romanzo sui palestinesi nelle carceri israeliane, ho già molto materiale al riguardo. E’ un tema che mi sta molto a cuore se si considera che almeno un quarto del popolo palestinese è stato in carcere.

“La seconda guerra del cane” che ha vinto il Premio Internazionale per il romanzo arabo, è un romanzo fantascientifico parla di un futuro distopico, di una società abbruttita senza etica e valori morali. Come mai la scelta di un genere inedito per la sua produzione letteraria? E, secondo lei, il mondo sta effettivamente perdendo la sua umanità?

A livello tecnico, mi piace molto variare e sperimentare perché senza la diversità non puoi scoprire nulla di nuovo né di te stesso né del mondo. E poi il futuro era l’unico arco temporale che non avevo visitato nei miei scritti!

A livello mondiale gli ultimi vent’anni hanno causato ferite profonde in ciascuno di noi, c’è stata una ferocia – iniziata dai governi che si è diffusa poi nelle società – fra noi uomini che ci ha abbruttiti. L’estremismo non è stato l’unico fattore ovviamente, al contrario, punto il dito contro governi che hanno distrutto paesi e popoli interi.

Quindi la domanda che mi sono posto è stata: se si continua sulla via della violenza estrema, a cosa arriveremo? Arriveremo a questo romanzo.

Lo considero innanzitutto un romanzo di fantasia sociale, e parlando del futuro ho inevitabilmente preso in prestito elementi fantascientifici. Ad essere onesti, il romanzo è stato per me un lavoro molto duro da partorire, non credo sarei in grado di scriverne un altro simile.

L’ultima domanda è sul cinema. Lei è membro della giuria del festival “Al Ard”, a che punto è il cinema palestinese e cosa si aspetta da questa nuova edizione?

Ibrahim Nasrallah con Fawzi Ismail di Al Ard

Penso che il festival Al Ard di Cagliari sia un successo incredibile. Sono contento che tutti i film che hanno vinto questo festival abbiano poi avuto fortuna. Ogni anno rappresenta per me un’occasione unica per vedere tantissimi film documentari che altrimenti non avrei modo di conoscere, dato che la scena moderna purtroppo preferisce i film di finzione a quelli documentaristici.

Ogni edizione offre almeno 10 film che poi conquistano uno spazio importante nel mondo, il documentario palestinese sta acquistando maggiore notorietà e successo. E se, si prendono in considerazione le condizioni in cui questi film vengono girati, non possiamo solo che plaudire per questo encomiabile lavoro. Ci sono molte tematiche, è bellissimo che vi sia una generazione di documentaristi che ci propone modelli d’alta qualità, sia tecnica che contenutistica. Quest’anno poi si aggiunge alla consueta programmazione dei documentari in concorso e delle fiction fuori concorso una sezione speciale, L’eco del campo, dedicata alla produzione audiovisiva proveniente dai campi profughi palestinesi! Io credo che negli ultimi vent’anni il documentario palestinese abbia realizzato più di quanto si sia realizzato nel passato. Il cinema, come la scrittura, è un mezzo per fare cultura e per non lasciare nell’oblio la memoria di un popolo intero, e con la cultura promuoviamo il progresso ma soprattutto alimentiamo la speranza.

 

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