Biodiversità e speranza fioriscono nel primo museo di storia naturale della Palestina.

La visione  ispiratrice del museo è quella di una comunità sostenibile in cui gli uomini e la natura lavorano e vivono insieme in armonia.

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Megan Giovannetti -29 marzo 2019

Foto di copertina:  Il Dr Mazin Qumsiyeh nel giardino botanico del Museo di Storia Naturale della Palestina (MEE / Megan Giovannetti)

Orgoglioso di ciò che lo circonda, il dott. Mazin Qumsiyeh è seduto sotto il sole primaverile nel giardino del primo ed unico museo di storia naturale della Palestina,.

“Così come ho creato un ambiente in cui queste piante crescono, così ho creato un ambiente in cui gli esseri umani possono crescere, prosperare, avere successo”.

Oltre ad essere un difensore dei diritti umani, Qumsiyeh è un noto scienziato, oratore e scrittore con una grande quantità di studi sulla genetica pubblicati su riviste internazionali. Insegna alle università di Betlemme e di Birzeit e in precedenza ha lavorato nelle facoltà delle università del Tennessee, Duke e Yale negli Stati Uniti, dove ha vissuto per 24 anni.

Il Dott. Qumsiyeh mostra a un gruppo di ragazzini verdure ed erbe coltivate con il sistema acquaponico nella serra del museo (MEE / Miriam Deprez)

Per Qumsiyeh, che con la moglie Jesse nel 2008 è tornato a Betlemme dagli Stati Uniti, lo studio della  biodiversità in Palestina e l’impatto ambientale dell’occupazione israeliana sono strettamente legati.

Cinque anni fa, Qumsiyeh e sua moglie  piantarono i semi del Museo di Storia Naturale della Palestina  utilizzando i loro risparmi.  Con l’Università di Betlemme crearono anche un centro di ricerca, l’Istituto Palestinese per la Biodiversità e la Sostenibilità, e oggi l’istituto e il museo sono i principali centri di ricerca scientifica sulla biodiversità in Palestina.

 “Ciò che cerchiamo è un luogo di energia positiva che contagi tutta  la comunità.” Dr Mazin Qumsiyeh

La visione  ispiratrice del museo è quella di una comunità sostenibile in cui gli uomini e la natura lavorano e vivono insieme in armonia. Questo obiettivo è  perseguito in tre modi: ricerca, educazione e conservazione.

Ma il museo è più di un semplice istituto di ricerca o di una showroom piena di pietre interessanti e di animali imbalsamati. “È un’oasi”, dice Mohammed Abu Sarhan, 23 anni, principale biologo  del museo. “L’atmosfera che c’è qui al museo non esiste da nessun’altra parte in Palestina”.

Ad Abu Sarhan, come a molti altri , il museo ha cambiato la vita.

“È qualcosa che ti fa cambiare il modo di pensare e di agire nel mondo  intorno a te”, dice Abu Sarhan. “Non solo rispetto all’ambiente naturale, ma anche  alla società o alla politica”.

Qumsiyeh, autore di “La Resistenza popolare in Palestina: una storia di speranza e di responsabilizzazione” e di diversi libri sulla natura selvatica della Palestina, lascia un’impressione duratura in  tutti i suoi visitatori.

Gli scolari locali imparano qui a conoscere la questione globale dei cambiamenti climatici e lasciano il museo con la consapevolezza di potere cambiare qualcosa nelle loro comunità. I viaggiatori internazionali scoprono la situazione politica in Palestina e se ne vanno con nuove conoscenze sulla lotta per la giustizia ambientale.

Soprattutto, “la gente viene qui e se ne va eccitata, energizzata”, dice Qumsiyeh.

“Questo è quello che stiamo cercando, un luogo di energia positiva che sia contagioso nella comunità”.

Combattere su due fronti

Gli obiettivi principali del museo e dell’istituto sono di fare ricerca, di educare e di conservare l’ambiente naturale. In tutto ciò, gli effetti dell’occupazione militare israeliana non possono essere ignorati.

“A Betlemme Il museo si trova nel mezzo dell’occupazione “, dice Majid Douglas, un ingegnere di Nablus socio del museo. “Quindi non può essere solo un progetto sulla protezione dell’ambiente, perché l’ambiente viene continuamente  attaccato dagli Israeliani”.

L’impatto dell’occupazione sull’ambiente della Palestina storica si presenta in molte forme, risalenti addirittura a prima della creazione dello stato di Israele.

Il biologo del museo, Mohammed Abu Sarhan, aiuta a spostare il compost (MEE / Miriam Deprez)

“L’introduzione di specie invasive, in particolare i pini” è un esempio che Abu Sarhan  utilizza per spiegare in che modo l’inizio del progetto coloniale ha colpito drammaticamente l’ambiente. Arrivarono gli europei e “piantarono alberi di pino sulla terra palestinese distrutta e ciò ebbe conseguenze catastrofiche”.

Qumsiyeh dice che all’inizio della creazione di Israele, “i colonizzatori sionisti che  vennero qui,  fecero progetti come prosciugare le zone umide della riserva di Hula e ciò  portò alla scomparsa di 119 specie diverse”.

 “In Palestina, la situazione politica influisce profondamente sull’ambiente”. Mohammed Abu Sarhan, biologo

La  lunga occupazione militare ha un effetto dannoso anche sul paesaggio naturale della Palestina.

“Un altro esempio importante è proprio dall’altra parte della strada, l’insediamento di Har Homa”, dice Abu Sarhan, indicando dalla finestra uno dei più grandi insediamenti illegali della Cisgiordania, su una collina appena fuori Betlemme. ” Lì solo 20 anni fa c’era una foresta, ora l’area è totalmente popolata.”

L’infrastruttura degli insediamenti ha alterato drammaticamente il paesaggio naturale della Palestina ma, come sottolinea Qumsiyeh, anche “gli insediamenti industriali scaricano i loro rifiuti tossici, e sia  i Palestinesi che l’ambiente soffrono di queste attività colonialiste”.

Scolari guardano le foto degli uccelli autoctoni in Palestina, in una delle mostre del museo (MEE / Miriam Deprez)

Abu Sarhan  cita i numerosi articoli scientifici pubblicati dall’istituto e dal museo, che denunciano la distruzione di habitat da parte di Israele, compresi gli effetti dello scarico di rifiuti tossici.

“Quindi sì,” dice Abu Sarhan. “In Palestina la situazione politica  influisce profondamente sull’ambiente”.

Riconnettersi  alla terra

“I coloni vogliono la stessa cosa”, dice Qumsiyeh. “Vogliono la terra e vogliono creare una nuova realtà senza le persone che vivono su quella terra”.

Il land- grabbing sistematico, il regime di permessi imposti e la “ghettizzazione” dei Palestinesi in piccole enclavi urbane conosciute come “Area A” sono solo alcuni dei meccanismi che Qumsiyeh spiega  essere usati da Israele per separare fisicamente i Palestinesi dalla terra.

Studentesse  in visita  al museo vicino allo stagno nel giardino che si affaccia sull’insediamento israeliano di Har Homa (MEE / Miriam Deprez)

Ma così facendo, i Palestinesi vengono separati anche dalla loro cultura e dalla loro storia.

“In passato la maggior parte del nostro lavoro era in agricoltura”, dice Mohammed Najajrah, 26 anni, un co-coordinatore di un nuovo progetto culturale del museo che  consiste nella raccolta di dati e di manufatti della storia agraria palestinese.

“Non abbiamo accesso alle nostre terre e il lavoro agricolo ci costa di più che lavorare negli insediamenti”, dice Najajrah al MEE. “Così molte persone hanno smesso di coltivare la terra”.

 “Rispetto: rispetto per te stesso, rispetto per gli altri, rispetto per l’ambiente”. Dr Mazin Qumsiyeh

Najajrah dice che il museo allestirà una nuova mostra con strumenti tradizionali, vecchie foto e  detti incentrati sull’agricoltura.

“Israele sta cercando di far sparire la storia palestinese dalla nostra terra e di creare una storia israeliana”, dice Najajrah.

Quindi questo progetto del patrimonio culturale è finalizzato a contrastare questo degrado della conoscenza storica. “Stiamo riportando la gente alla terra”, dice Qumsiyeh. “Ricollegarsi alla terra come persone native, è una forma di resistenza”.

Douglas, partner del museo,  ribadisce l’importanza di mostrare la vita agricola dei Palestinesi prima della colonizzazione. L’agricoltura “era il nostro modo di connetterci con il mondo e contemporaneamente ci separava da esso”, dice.

“Abbiamo bisogno di mostrare al mondo che prima dell’occupazione avevamo una vita normale. Non siamo solo un gruppo di persone che subisce l’occupazione”, dice Douglas.

“Esistere è resistere”

“Il nostro lavoro qui è la liberazione mentale”, dice Qumsiyeh. “Libertà dalla colonizzazione mentale”.

Il motto del museo è “Rispetto: rispetto per te stesso, rispetto per gli altri, rispetto per l’ambiente”. In questo ordine, specifica Qumsiyeh. “Non posso rispettare la natura o le altre persone se non rispetto me stesso, se non mi sento autonomo.”

 

La co-fondatrice  del Museo di storia naturale, Jesse Qumsiyeh, controlla i peperoncini e le altre piante coltivate all’interno della serra del museo (MEE / Miriam Deprez)

L’atmosfera che Qumsiyeh ha creato al museo è un veicolo di auto-potenziamento sia per i Palestinesi che per  gli internazionali . “Quando la tua mente è libera puoi fare molte cose, anche in circostanze difficili, dice”.

Più che produrre ricerca, “stiamo producendo nuove realtà”, aggiunge Qumsiyeh.

 “Ci sono un sacco di ostacoli, ma a volte possono essere visti come opportunità”. Mohammed Abu Sarhan, biologo

La chiave è la creatività. “Ci sono un sacco di ostacoli”, dice Abu Sarhan, “ma a volte possono essere viste come opportunità”.

Con uno spazio fisico e un accesso alle risorse naturali limitati , conseguenza dell’occupazione e dei cambiamenti climatici, in Palestina la spinta verso la sostenibilità diventa molto più rilevante.

Il giardino del museo utilizza varie modalità per educare le persone a vivere in modo autonomo, compresi i sistemi idroponici e acquaponici , ovvero metodi per coltivare piante e pesci insieme, senza suolo, usando soluzioni minerali nutrienti in un solvente acquoso; un sistema di biogas, con creazione di gas da compost organico; e vari metodi di giardinaggio biologico.

“Abbiamo  fatto venire alcune persone da Gaza “, dice Qumsiyeh come esempio, “e le abbiamo istruite nell’acquaponica in modo che possano allevare il proprio pesce e la propria verdura in uno spazio molto limitato e con scarse risorse naturali. ”

Il museo sta anche lavorando a un progetto di orto comunitario, dove 25 piccoli appezzamenti di terreno sono stati ricavati dal giardino del museo per facilitare 25 famiglie dai campi profughi di Betlemme.

Appezzamenti di terreno per il  Il nuovo progetto di giardino comunitario (MEE / Megan Giovannetti)

“Attraverso il nostro lavoro sul patrimonio culturale, vediamo come in passato le persone lavoravano assieme “, dice Najajrah, aggiungendo che questo è uno dei motivi del giardino.

L’idea che sta dietro all’orto comunitario è quella di guidare la nuova generazione palestinese a lavorare insieme sulla propria terra.

Più in generale, progetti come l’orto comunitario promuovono semplicemente uno stile di vita sano e sostenibile. “Sviluppano un atteggiamento positivo nei confronti della vita” crede Qumsiyeh. “Forniscono  un’energia positiva alle  persone che vivono l’occupazione e la colonizzazione”.

“Quando siamo seduti qui all’aperto nel giardino del museo e vedo volare sui fiori tutte queste farfalle, questo è per me l’essenza del detto: ” Sono un essere umano e questa è la mia terra. ‘”

” Avere creato questo  museo ed essere qui a Betlemme è in realtà una forma di resistenza non violenta”, afferma con orgoglio Abu Sarhan. “Come si suol dire: esistere è resistere”.

 

Trad: “Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

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