Sono stata arrestata per essermi scontrata con le forze israeliane nel 2017, dopo che a mio cugino avevano sparato alla testa. A quasi un anno dal mio rilascio, anche mio fratello quindicenne – come molti altri bambini – è stato portato via.
Ahed Tamimi (*)
Un anno fa mi trovavo in una prigione israeliana, privata dei miei diritti fondamentali e spogliata della mia infanzia. Il crimine che portò agli otto mesi di carcere non era il mio, ma quello della continua occupazione israeliana della Palestina.
Come per molti prigionieri bambini che sono soggetti agli orrori della detenzione delle forze armate israeliane, una delle più difficili lotte quotidiane era lo stare separata dalla mia famiglia. La settimana scorsa, la mia famiglia è stata lacerata di nuovo: questa volta, le forze israeliane sono venute a portare via mio fratello quindicenne Mohammed.
Questo è il prezzo che paghiamo per l’occupazione israeliana. Ogni madre e padre sono costretti a vivere nella paura che i propri figli siano il prossimo obiettivo. I palestinesi nella West Bank sono soggetti alla legge marziale, che è impiegata come mezzo per reprimere, silenziare e impedire la nostra resistenza all’occupazione.
Non abbiamo gli stessi diritti dei coloni israeliani che vivono sulla terra rubata vicino a noi. Questo ci impedisce di condurre vite normali e minaccia le nostre esistenze, ma è consentito dal sistema legale israeliano.
Tutta la West Bank presenta un quadro di duplice regime giuridico: ai coloni ebrei sono riconosciuti diritti ai sensi della legge civile israeliana, mentre a noi palestinesi sono portati via dalla legge militare – due trattamenti e risultati molto diversi, attuati su base etnica. Gli esperti affermano che ciò corrisponda alla definizione di apartheid, e i bambini non sono immuni da questa sofferenza.
Al momento ci sono più di 200 bambini palestinesi nelle carceri israeliane, compreso mio fratello. Ogni anno, Israele arresta e processa circa 700 bambini, alcuni anche dodicenni. In genere sono accusati di aver lanciato delle pietre. Dopo essere stati separati dalle proprie famiglie, esposti ad abusi fisici, psicologici ed emotivi, molti bambini sono costretti a firmare confessioni messe loro davanti dagli interrogatori israeliani – spesso in una lingua che non capiscono. A pochissimi bambini è permesso consultare un avvocato o avere un membro della famiglia presente durante l’interrogatorio.
Con il 99% dei procedimenti giudiziari contro i palestinesi che si concludono in una condanna, firmare una confessione e arrivare a un patteggiamento è spesso presentato come la via più veloce per essere rilasciati e riuniti con la famiglia.
Dal momento dell’arresto, i bambini palestinesi vanno incontro ad abusi per mano delle forze israeliane. Nel 2013, l’UNICEF ha pubblicato un rapporto sul maltrattamento diffuso, sistematico e istituzionalizzato dei bambini nel sistema detentivo militare. Delle 38 disposizioni fissate per proteggere i bambini palestinesi, Israele ne ha attuato soltanto una. Secondo l’ente benefico Defence for Children International – Palestina, tre bambini su quattro sperimentano violenze fisiche e quasi la metà di loro risente dell’esperienza traumatica di essere strappati via dalle proprie famiglie, nel cuore della notte, da parte di soldati armati.
Il governo britannico è a conoscenza di ciò che accade. Una delegazione di giuristi fu inviata nel 2012 dal Foreign Office per relazionare sulla situazione. Fece ritorno con quelle che erano delle considerazioni di palese condanna, che un anno dopo rispecchiarono quelle dell’UNICEF.
Più recentemente, la Palestine Solidarity Campaign ha consegnato una petizione con più di diecimila firme per chiedere un’azione urgente, e i parlamentari hanno presentato una Early Day Motion (EDM 563) che è la quarta più appoggiata in questa sessione legislativa.
Oggi, per la Giornata Internazionale dei Prigionieri Palestinesi, mi unisco a loro per chiedere al governo britannico di ritenere Israele responsabile e restituire ai palestinesi la propria infanzia.
Il mio caso si è guadagnato l’attenzione internazionale e sono grata per i molti messaggi di sostegno ricevuti dalla gente del Regno Unito durante la mia angosciante esperienza in prigione. Ma non sarò completamente libera finché non lo saremo tutti noi.
(*) Ahed Tamimi è un’attivista palestinese che è stata imprigionata per aver aggredito un soldato israeliano nel dicembre 2017. È rappresentata dalla Palestine Solidarity Campaign e diverse organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno organizzato campagne in suo favore.
Trad. Invictapalestina.org