Israele usa i diritti degli animali per distogliere l’attenzione dai suoi crimini di guerra.

Nel 2015 le Forze di Difesa Israeliane si sono autodefinite come un esercito “vegan- friendly ” , come se la gentilezza verso gli animali compensasse una lunga serie di crimini di guerra contro gli umani.

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Azeezah Kanji, Truthout – 18 aprile 2019

Foto di copertina: Israele promuove il suo esercito “vegano” e l’impegno per diritti degli animali mentre i Palestinesi soffrono. (Chameleonseye /Shutterstock.com)

Mentre secondo le parole di Noura Erakat, avvocatessa per i diritti umani, i Palestinesi disarmati continuavano a essere “uccisi come uccelli nella loro stessa terra”, la notizia del salvataggio di un pappagallo ha ampiamente occupato i media israeliani e internazionali. “Pappagallo malato di Gaza salvato da un’associazione israeliana per i diritti degli animali”, proclamava  il titolo del Times of Israel.

La storia di Koki, il pappagallo cinerino operato da un veterinario israeliano specializzato in uccelli dopo aver ingerito accidentalmente della candeggina, è stata persino riportata dal Washington Post e dal New York Post, una copertura decisamente negata alle migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi a cui ogni anno viene impedito di accedere a interventi medici altrettanto vitali perché Israele  rifiuta i permessi per i trattamenti non disponibili nella Striscia di Gaza bloccata.

La rappresentazione di Koki  come beneficiario della generosità di Israele nasconde il fatto che anche lui è stato vittima delle politiche coloniali dello Stato sionista. L’oppressione esercitata dell’occupazione è stata il sottaciuto contesto responsabile della sventura del pappagallo: come ha sottolineato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, la ragione per cui i veterinari sono così scarsi a Gaza è perché il soffocante blocco illegale impedisce agli studenti aspiranti veterinari di andare all’estero per la formazione.

Gli effetti anti-umani e anti-animali delle pratiche di colonizzazione di Israele, il muro che divide le famiglie palestinesi e blocca le rotte di migrazione degli animali;  lo sradicamento degli ulivi che distrugge un mezzo di sostentamento dei Palestinesi e gli habitat degli animali; il sistema di smaltimento delle acque reflue che avvelena le acque e l’ambiente in cui vivono uomini e animali; le ricorrenti  azioni  militari con il loro seguito di  bombardamenti e di  distruzioni che causano un pesante tributo di vite sia dagli animali che dalle persone, vengono oscurati dalla rappresentazione  di Israele come una Shangri-La di tutte le specie.

Nel 2015, ad esempio, le Forze di Difesa Israeliane si sono autodefinite come un esercito “vegan- friendly ” , come se la gentilezza verso gli animali compensasse una lunga serie di crimini di guerra contro gli umani.

Organizzazioni per i diritti degli animali del Nord America come Mercy fo Animals e People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) hanno esaltato Israele per la sua presunta “rivoluzione vegana”. Non importa se secondo i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il tasso pro capite di consumo di carne in Israele è non solo tra i più alti del mondo, ma anche quasi quattro volte più alto di quello dei Palestinesi. Molti Palestinesi sono privati ​​del privilegio di poter scegliere di essere vegetariani o no, dal momento che la carne è in gran parte un lusso inaccessibile nei territori palestinesi soffocati dall’occupazione, dove il 31,5% delle famiglie è a rischio dal punto di vista alimentare.

 “I Palestinesi sono privati ​​del privilegio di poter scegliere di essere vegetariani, poiché la carne è in gran parte un lusso inaccessibile”.

Gli Israeliani vengono celebrati per la loro supposta umanità verso gli animali, mentre i Palestinesi, al contrario, vengono rappresentati come disumani. Ad esempio PETA ha recentemente stigmatizzato Hamas per aver dichiarato  di avere usato dei falchi per trasportare materiale incendiario in Israele, affermando che “gli animali non rivendicano fedeltà a nessuna nazione, non scelgono da che parte stare e possono contare sugli esseri umani solo per avere la loro compassione, ed è quindi  inaccettabile usarli come armi da guerra “. Il fatto che le forze israeliane usino abitualmente  i cani come  ” armi da guerra ” quando conducono incursioni  nelle case dei civili palestinesi, una pratica  contestata da organizzazioni come Palestinian Animal League, è passata del tutto inosservata .

Mentre sempre nuove storie dall’esito felice parlano di animali accolti in Israele, la demolizione di case palestinesi procede a un ritmo allarmante. I media internazionali si entusiasmano per l’allevamento di specie rare nei giardini zoologici israeliani, mentre gli abitanti di Gaza rimangono intrappolati in una gabbia a cielo aperto. Apparentemente, i progetti coloniali sono in grado di attribuirsi un capitale morale non solo dal  “salvare donne marroni”, come  notoriamente fece osservare il teorico post-coloniale Gayatri Spivak, ma anche dal salvataggio di animali in via di estinzione come i rinoceronti bianchi o la grande scimmia leonina.

Tutti questi sforzi, in quello che si potrebbe chiamare ” fur washing”, hanno una lunga storia coloniale. Nel discorso sulla “missione civilizzatrice” dell’Europa, il fatto che i popoli indigeni trattassero e utilizzassero gli animali in maniera discorde dalle norme europee venne  indicato come prova della loro natura “incivile”, razionalizzando così brutali progetti di dominio che colonizzavano sia gli animali umani  che non umani.

” Mentre sempre nuove storie dall’esito felice parlano di animali accolti in Israele, la demolizione di case palestinesi procede a un ritmo allarmante”.

Per esempio, i coloni britannici  punivano i Kenioti con dure pene corporali per il loro trattamento violento degli animali. Come l’eminente scrittore e accademico keniota Ngũgĩ wa Thiong’o ha scritto: “Per i coloni, i cani erano infinitamente più importanti dei Keniani; e i Keniani erano considerati  sia come  bambini, quindi  paternalisticamente amati ma non apprezzati come i cani, sia come  canaglie irragionevoli da frustare o uccidere”. Non sorprende che usanze britanniche che comportavano  danni agli esseri viventi, come la caccia e il colonialismo, non fossero ugualmente considerate e trattate come usanze retrograde.

In India, i colonizzatori britannici emanarono una legge che proibiva la crudeltà verso gli animali, ma la legge riguardava esclusivamente le pratiche indiane, mentre non veniva applicata all’uso che gli Inglesi facevano degli animali sia nelle ricerca che nello sport. Infatti in India gli scienziati britannici  colsero l’opportunità di compiere su animali  strazianti esperimenti che in patria  non avrebbero potuto condurre.

Una compassione selettiva per gli animali venne usata anche per giustificare la presenza coloniale in Egitto. Uno degli sponsor della Società per la Prevenzione della Crudeltà Verso gli Animali era il console generale britannico Evelyn Baring, il primo conte di Cromer, che in seguito a Londra divenne presidente di una società pro-vivisezione che difendeva pratiche crudeli di sperimentazione sugli animali. (Ad esempio, un membro della società fece ricerche sulle ferite da arma da fuoco sparando alla testa di cani vivi).

Tale ipocrisia  era normale per Baring,  che si proponeva come “liberatore” di donne nelle colonie mentre nel Regno Unito dirigeva la Men’s League for Opposing Woman Suffrage.

Le ipocrisie umanitarie continuano a essere mobilitate a sostegno degli attuali progetti coloniali e imperialisti. I media degli Stati Uniti e i siti web governativi, ad esempio, scrissero pezzi sdolcinati sui soldati che  avevano salvato cani randagi durante l’invasione illegale e l’occupazione dell’Iraq, mentre negli Stati Uniti gli attivisti per i diritti degli animali sono perseguiti come terroristi.

In Canada, la caccia degli indigeni alle foche è stata oggetto di una campagna di demonizzazione persistente e concertata, in un Paese in cui ogni anno oltre 800 milioni di animali vengono uccisi dopo essere stati cresciuti in allevamenti che negano loro adeguate protezioni legali contro sofferenze inaudite.

Nei regimi coloniali, la violenza contro gli animali umani e non umani è intimamente intrecciata. Ciò è reso evidente quando i colonizzatori tentano di legittimare l’oppressione contro i colonizzati paragonandoli agli animali; i politici israeliani, ad esempio, hanno fatto riferimento ai Palestinesi definendoli cavallette, coccodrilli, cani, serpenti e animali in genere. La premessa inespressa è che queste vite non umane non hanno valore  e possono essere considerate  come vite  “usa e getta”, e quindi le vite umane, a loro  comparate,sono per estensione ugualmente prive di valore.

Quando si  vuole veicolare l’idea che il colonialismo  ha la capacità di proteggere o di liberare sia gli umani che i non umani, c’è una sola espressione , tra l’altro legata agli animali, che mi viene in mente: un mucchio di stronzate.

 

Azeezah Kanji è una scrittrice studiosa di legge residente a Toronto. È direttrice della programmazione presso il Noor Cultural Center e collabora regolarmente con i media canadesi e internazionali su questioni relative al razzismo, ai diritti e alla giustizia sociale.

 

Trad: Grazia Parolari  – Invictapalestina.org

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