Intervista a Monica Maurer

Qui lavoravo proponendo temi sulla controinformazione, sulla lotta per la casa, sui cinegiornali liberi, controcultura. In quel periodo ho avuto modo di lavorare su e con grandi del cinema italiano come Zavattini, Bertolucci, e Carmelo Bene.

 Sonia Valentini, maggio 2019

Se si parla di cinema palestinese il suo nome non può non venire subito in mente. Monica Maurer è una regista e documentarista tedesca, membro del consiglio direttivo dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma, nonché curatrice di numerosi festival ed eventi cinematografici in giro per il mondo. Sin dagli anni ’70 ha contribuito significativamente sia alla realizzazione di film sulla Palestina che alla promozione internazionale dei prodotti cinematografici dei giovani talenti palestinesi di oggi e dei cineasti storici del passato. Ho avuto modo di intercettarla a Roma e di farle alcune domande sulla sua carriera e sui progetti ai quali sta attualmente lavorando.

 

Hai studiato sociologia, scienze della comunicazione passando per il giornalismo. Come sei poi arrivata al cinema?

Il cinema è arrivato quasi subito. Ho iniziato a lavorare con materiale d’archivio all’università, lavorando per un programma di cultura ed educazione. Lavoravo nell’archivio, usando i vecchi film per creare dei fillers, montavo nuovi filmati utilizzando materiale d’epoca. Mi ero già avvicinata alla cinepresa soprattutto per trattare il tema dell’immigrazione, che ho sempre considerato come il simbolo dell’incontro del terzo mondo con il primo mondo.

Dalla Germania me ne sono andata presto, per la mia militanza avevo passato alcuni guai così sono andata negli USA per fare un film su New York, sul suo essere crocevia di lingue e culture. Ho poi lavorato per un editore vivendo in una stanzetta da 25 dollari a settimana e bagno in comune. Mi sentivo vicina alle posizioni di quotidiani come Rampires, che si opponevano alla guerra in Vietnam, all’azione della CIA all’interno del paese, e promuovevano i diritti civili.

Successivamente sono venuta in Italia, paese a cui ero profondamente legata fin da bambina. Qui lavoravo proponendo temi sulla controinformazione, sulla lotta per la casa, sui cinegiornali liberi, controcultura. In quel periodo ho avuto modo di lavorare su e con grandi del cinema italiano come Zavattini, Bertolucci, e Carmelo Bene. In realtà non era quello il mio mondo, io venivo da un cinema militante, da un attivismo politico lontano da questi lavori che invece potevano considerarsi più di politica culturale. Ma non nego che mi abbiano insegnato moltissimo.

Ti sei interessata anche al contesto socio politico cileno nel corso degli anni ’70. Cosa puoi dirci della tua esperienza in Cile?

Chiesi di essere mandata in Cile per fare dei reportage per la Radio sull’Untad, United nations trade and development, che avrebbe riunito per la prima volta paesi in via di sviluppo e industrializzati per trattare temi specifici. Era la prima volta che la Cina partecipava e che una conferenza del genere si svolgeva in America Latina. Sentivo l’importanza storica di essere lì. Poi decisi di trattenermi per filmare sia le grandi sollevazioni popolari e contadine in favore di Allende che le periferie di Santiago. Era lì che viveva il subproletariato, completamente abbandonato a se stesso. In questo contesto di estremo disagio e povertà, il MIR, Movimento di sinistra rivoluzionaria organizzato su più fronti, quello delle donne, dei lavoratori, dei contadini ecc, aveva richiesto al governo sostegni economici e materiali per creare e costruire infrastrutture sanitarie, culturali, educative attraverso la partecipazione. Nel contempo stava iniziando a montare la destra, con essa i sabotaggi e tutto ciò che sappiamo.

Come e quando ti sei avvicinata al mondo arabo?

Molto presto, a quattordici anni, con la guerra per l’indipendenza algerina. A quel tempo, di nascosto dai miei, seguivo un corso di arte presso un’accademia frequentata in maggior parte da esiliati, soprattutto algerini che avevano lasciato la Francia. Provavo grande solidarietà nei confronti di chi era vittima di forze occupanti, colonialiste e imperialiste. Ho capito subito che non si può stare in mezzo, si deve prendere una posizione. Da queste posizioni poi, è stato naturale per me avvicinarmi alla Palestina, soprattutto in un periodo storico in cui un’isteria pro-Israele sembrava proliferare in Germania.

Io invece vivevo in mezzo agli immigrati, agli esclusi. I palestinesi non erano molti, ma dimostravano un’incredibile coesione e organizzazione politica. Conobbi Abu Al Jabbar, responsabile dell’Unione dei lavoratori, personaggio di grande carisma, leadership e saggezza.

Fu lui ad introdurmi nella comunità palestinese locale e questo mi permise di vedere la guerra del ‘67 con gli occhi dei più vulnerabili. Poi, nel periodo successivo alle olimpiadi di Monaco, il clima divenne ancora più teso, la repressione da parte dello stato tedesco fu molto violenta, quasi fosse una caccia all’arabo.

Quando arrivò il tuo primo film sulla Palestina?

Il primo film sulla Palestina arrivò nel ’77, realizzato con i compagni dell’istituto di cinema palestinese. Ci eravamo conosciuti al festival di Lipsia, che all’epoca era la mecca di tutti i documentaristi. Mi dissero: “vai in Cile, vai nelle fabbriche, perché non vieni da noi?”.

Così partii. Inizialmente con un gruppo di Solidarietà medica ed entrai inevitabilmente in contatto con la Mezzaluna Rossa palestinese, ente che garantisce il servizio di salute pubblica di base a tutti. Avevano creato un’infrastruttura di cultura e salute incredibilmente raffinata – che neanche a Cuba! – ed era ancora più sorprendente pensare che fosse messa in atto da un movimento di liberazione nazionale.

Certo, la lotta armata era fondamentale, ma il fatto che l’OLP si concentrasse tanto sulla cultura, sul diffondere il cinema, quella era la vera rivoluzione che si estendeva al futuro. Il mezzo culturale poteva essere la chiave per un’ulteriore mobilitazione popolare. Venivano garantite scuole di formazione professionale, corsi di alfabetizzazione, centri di maternità, cliniche in tutti i campi, sanità pubblica gratuita e possibilità di accesso alla sanità anche per i libanesi poveri. Fui colpita dal sistema di tutele che il movimento di liberazione era stato in grado di creare ed ho pensato che fosse necessario parlare di questo. I mie primi documentari parlano dunque delle sofisticate infrastrutture ed istituzioni sociali, sanitarie, produttive e culturali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nei campi profughi in Libano. Dal punto di vista stilistico, la maggior parte dei miei film sono di breve durata così da stimolare e lasciare spazio per il successivo dibattito. La brevità di questi documentari contribuì notevolmente alla diffusione capillare che L’OLP ne fece. Ad esempio il presidente della Mezzaluna Rossa decise di portare il mio documentario all’ assemblea annuale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e usarlo come documento ufficiale che mostrasse l’operato della Mezzaluna nei campi profughi. Il film/slogan fu inviato ad ogni sezione della Mezzaluna, venne distribuito in ogni paese arabo, in Sudamerica e in Nordamerica!

Hai vissuto in Libano per circa sette anni, sei stata testimone sia della guerra civile che dell’invasione israeliana. Cosa ricordi?

Ricordo quando nel 1981 gli israeliani hanno bombardato Beirut a mezzogiorno, tutte le famiglie erano a casa. Otto squadroni, ognuno con nove aerei. In mezz’ora fecero più di trecento morti e mille feriti. Come non parlarne al mondo? Interruppi ciò a cui stavo lavorando per questo. Volevo realizzare qualcosa di veloce, che fosse il più diretto possibile. Abbiamo filmato 24 ore dopo l’attacco, mentre la gente a migliaia si recava nei cimiteri a commemorare i propri martiri.

Con la guerra anche i temi dei miei film cambiarono. Girai un primo documentario sull’invasione israeliana del 1978 e poi realizzammo ”Born out of death”, uno dei lavori dei quali vado più orgogliosa. Il film rappresenta la metafora politico-poetica sull’unità libano-palestinese: la volontà di resistere viene raccontata attraverso il bombardamento israeliano dell’area più densamente popolata di Beirut, avvenuto il 17 luglio 1981, che costò la vita a 300 civili e ferì più di mille persone.

Il cambiamento dello scenario politico ebbe effetti anche nella scelta dei soggetti cinematografici, così nel corso degli anni ’80 hai sentito l’esigenza di puntare i riflettori e le cineprese sulla realtà dei territori palestinesi occupati, sul furto di risorse idriche, sul furto di terre, sulle leggi militari, sulle punizioni collettive messe in atto dalle forze di occupazione israeliane. Puoi parlarcene?

Nel dicembre 1987 scoppiò la prima Intifada. Decisi di realizzare un documentario, “Palestina in fiamme”. Si trattava di un omaggio a René Vautier, un regista che viveva in Algeria, che realizzò l’unico documentario durante la guerra di indipendenza algerina dal titolo appunto “Algerie en flammes”. Questo mio documentario tenta di rintracciare le radici storiche, politiche della prima Intifada. Ho cercato di fare chiarezza su alcuni luoghi comuni che non erano veritieri, come il fatto che si dicesse sempre che si trattava di un’insurrezione spontanea, mentre fu il culmine di lotte che venivano portate avanti fin dagli anni ’20.

Negli ultimi anni, fra le altre cose, ti sei impegnata, con il contributo di Emily Jacir, a digitalizzare circa 33 bobine del documentario “Tell Al Zaatar”, che risale agli anni ’70 . Puoi parlarci del progetto originale e di come questo materiale sia finito in Italia?

Abu Ali e Jean Chamoun girarono nel 1976 all’incirca 100 ore di filmato sul campo profughi di Tell Al Zaatar. I documenti audiovisivi raccolti mostravano la quotidianità della vita nel campo, l’assedio e l’indomani del massacro ad opera delle milizie falangiste libanesi. Ma l’unico laboratorio di sviluppo e montaggio di Beirut, lo studio Baalbek, era stato distrutto nella guerra. Abu Ali attraverso un compagno del partito comunista libanese, si mise in contatto con la Unitelefilm, la casa di produzione del partito comunista italiano, chiedendole aiuto per la post produzione ed il montaggio della pellicola.

Fu un esempio di ciò che la solidarietà internazionale ed il cinema rivoluzionario erano in grado di creare insieme. Abu Ali e Chamoun rimasero a Roma per svariati mesi, portando a termine il montaggio della versione araba originale. Il Partito comunista, che aveva collaborato attivamente al progetto, lanciò l’idea di realizzarne una versione italiana da poter far circolare. L’incarico fu dato a Pino Adriano, cineasta militante, che si occupò del doppiaggio italiano. Le copie arabe furono poi rispedite in Libano, purtroppo nel 1982 tutto il materiale audiovisivo conservato nell’istituto di cinema e nell’archivio del cinema di Beirut, andò distrutto o fu trafugato dall’esercito israeliano.

Tutti i tagli finirono nell’archivio dell’Unitelefilm e nel 1979, quando il PCI volle disfarsi dell’archivio, Cesare Zavattini si oppose all’idea, decidendo di creare una Fondazione per salvare il patrimonio contenuto nell’archivio. Nacque così l’AAMOD, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.

 

Il materiale non montato è rimasto per circa trent’anni nel deposito. Come nasce l’idea di recuperarlo?

Cinque anni fa, quando fummo costretti a spostare del materiale dal vecchio al nuovo deposito, mi ritrovai fra le mani le trentatré bobine di Tell Al Zaatar. Per digitalizzarle però occorrevano dei fondi, così contattai Emily Jacir, un’artista palestinese molto conosciuta e molto intraprendente, grazie alla quale abbiamo raccolto il denaro sufficiente alla digitalizzazione di questo patrimonio.

L’importanza di questo recupero si comprende soprattutto alla luce del fatto che tutte le copie arabe sono andate distrutte o perse. Grazie al ritrovamento di un mix arabo siamo riuscite addirittura a ricostruire una copia il lingua originale che abbiamo fatto girare e presentato ad Amman fra gli apprezzamenti generali del pubblico e la mia personale soddisfazione. Si tratta di un esempio di recupero della memoria cultuale e storica della comunità di Tell al Zaatar, dislocata in tutto il mondo a causa del massacro. Questa comunità già da qualche anno, grazie alla potenza del web, è riuscita a ricucire legami che la guerra e lo smembramento familiare sembravano aver tagliato per sempre.

E’ in nome di questa memoria, affinché venga alimentata e viva, che voglio che tutto il mio materiale documentario sia digitalizzato e torni in Palestina, soprattutto per i giovani, che non hanno documenti audiovisivi a testimonianza di questo momento storico, incredibilmente importante nell’evoluzione della coscienza politica di un popolo intero. Questo materiale audiovisivo deve tornare nelle biblioteche, nei centri di ricerca, culturali, nei musei per essere a disposizione di tutti i palestinesi.

E la promozione del cinema palestinese in Italia?

Sono anni che portiamo avanti qui a Roma Cineforum Palestina, iniziativa che propone un film al mese. Purtroppo per motivi di salute non ho potuto seguirlo nella prima metà di quest’anno ma siamo tornati in sella proponendo due film per il 15 maggio, giornata di commemorazione della Nakba e giornata scelta da Trump per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Il focus della serata sarà proprio sulla città santa, proietteremo un breve film di 7 minuti del regista Ali Siam, realizzato nel ’69, “Zahrat al Maydan”, che valorizza Gerusalemme ed il suo essere culla delle civiltà. L’altro film in programma è “Jerusalem est side story” di Mohammad Alatar in cui viene descritta la politica israeliana di giudaizzare la città per ottenere una maggioranza ebraica, allontanando i palestinesi dalla città. Il documentario include interviste con leader politici palestinesi e israeliani, analisti politici e attivisti per i diritti umani.

Vi invito a partecipare numerosi per una serata in nome del buon cinema palestinese!

 

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