Copertina – Fatima Feisal, 78 anni, campo profughi di Ein al-Hilweh, Sidone, Libano. Originaria di Tarshiha in Galilea.
di Amena ElAshkar, Ali Ibrahim e Nadine Osama (*), 17 maggio 2019
Settant’anni fa i palestinesi subirono la Nakba – o catastrofe – quando la maggior parte di loro fuggì o fu costretta dalle milizie sioniste a fuggire dalla Palestina per fare spazio alla creazione dello stato di Israele e assicurare una maggioranza ebraica. Circa 750.000 finirono come rifugiati registrati presso le Nazioni Unite. Molti altri si arrangiarono da soli. Non è mai stato loro permesso di tornare nelle loro terre o case confiscate dallo stato nascente, e molti dei loro villaggi in seguito furono distrutti. Qui – e qui, dall’interno della Palestina – i sopravvissuti raccontano le loro storie.
Posso chiudere gli occhi e ricordare ogni singolo dettaglio di quel villaggio. Le strade, il quartiere. Gli alberi di fichi e bacche. Ogni singolo dettaglio. È come se potessi vederlo proprio davanti ai miei occhi. La mia famiglia viveva di agricoltura. Avevamo più di 100 capre. La più grande era la mia preferita. La cavalcavo come una bici. La chiamavo “la mia bici”.
Una volta stavo portando da mangiare al pastore che lavorava per noi. I coloni mi hanno visto e mi hanno chiesto perché ero lì. Dissi loro che stavo consegnando del cibo per il pastore che era con le nostre capre vicino a uno degli insediamenti. Mostrai loro il cibo, ma non mi credettero. Pensavano che stessi passando informazioni e che fosse un combattente per la libertà. Lo catturarono e torturarono. Poi ne hanno bruciato il corpo.
Avevo 9 anni quando gli aerei bombardarono Tarshiha. E’ stata la peggiore notte della mia vita. C’era gente in cerca di rifugio nella casa del sindaco. Lui era della famiglia Huwari e aveva una grande casa. Ho visto come la casa fu bombardata. Ho visto anche come gli abitanti del villaggio cercavano di salvare le persone intrappolate sotto le macerie.
Ero separata dalla mia famiglia e da mio fratello, Ali, e non avevo altra scelta che andare a cercarlo. Era più piccolo di me. Sembrava il giorno del giudizio. Gente che correva e urlava. Mi diressi alle grotte al limite del villaggio. Erano piene di gente che si riparava dai lanci. Cominciai a chiamare il suo nome. Alla fine mi rispose. Lo presi per mano e ci allontanammo dal villaggio. Abbiamo camminato per due ore verso un altro villaggio chiamato Sabalan dove ci siamo ricongiunti con la nostra famiglia. Poi abbiamo proseguito per il Libano.
Ho un ultimo desiderio. Ho 78 anni. Sarà il mio ultimo desiderio. C’era un albero di bacche proprio di fronte a casa nostra a Tarshiha. Voglio tornare là e mangiare una bacca. Un’ultima bacca.
Reportage e foto di Amena ElAshkar
Sono nata in un villaggio chiamato Deir Tarif. Mio padre possedeva dei cammelli che gli servivano per trasportare merci da un posto all’altro.
Avevo uno o due mesi quando ci fu la Nakba. I villaggi della nostra zona furono attaccati, uno dopo l’altro, e l’intera area assediata e lasciata con risorse alimentari scarse. I miei genitori andarono a prendere del cibo nella città più vicina e mi lasciarono alle cure di mio fratello e mia sorella. Mio fratello, a 15 anni, era al momento il più grande. Ma i nostri genitori non poterono tornare perché la strada per il nostro villaggio era stata bloccata e i sionisti si stavano avvicinando al nostro villaggio.
Il sindaco del villaggio riunì tutti i bambini su un grosso camion e ci portò in un villaggio chiamato Shuqba. Siamo rimasti lì per un po’. Gli adulti si prendevano cura dei bambini senza genitori. Sono stata allattata al seno da diverse donne con bambini. Ne abbiamo persi molti lungo la strada. Mio zio e sua figlia appena fidanzata furono uccisi senza motivo. C’erano cadaveri che giacevano nelle strade, ed era difficile dare a tutti una degna sepoltura. Solo le donne e le ragazze venivano sepolte. Il cadavere di mia cugina dovette essere recuperato durante la notte correndo grossi rischi.
I nostri genitori ci trovarono dopo averci cercato per giorni. Ci spostammo in diversi villaggi in cerca di cibo e riparo. Andammo a Qibya, poi a Kafr Thulth, poi ci trasferimmo a Deir Ammar.
La mia famiglia in seguito andò in Giordania e rimase nelle tende vicino a Wadi al-Seer. Poi, intorno al 1955, ci trasferimmo nel campo di Wihdat. Eravamo in sette e dovevamo dormire tutti in una stanza. Non potevamo permetterci un tetto di metallo, così coprimmo la nostra abitazione con un grande telo.
Tutti i miei ricordi sono legati al campo. Lo considero la mia casa ma non rinuncerò mai al mio diritto al ritorno. La gente al campo vive una vita dura e soffre molto, ma questo crea anche una profonda solidarietà nella nostra società. Cerco di impegnarmi il più possibile nelle attività politiche e culturali all’interno del campo. Mi sono unita al movimento nazionalista arabo nel 1962 e in seguito al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Ero solita ospitare riunioni politiche segrete a casa mia.
Mi mancano quei giorni, le persone erano più dedite e fedeli alla loro causa.
Mio figlio Ali era andato a studiare a Beirut. Quando ci fu l’invasione israeliana, lo chiamai e gli dissi che non aveva altra scelta che combattere e difendere Beirut. Ero costantemente preoccupata per lui, ma lo ero allo stesso modo anche per tutti i combattenti che stavano difendendo Beirut.
Il ritorno un giorno ci sarà. I poveri e i ricchi, i senzatetto e le persone nei palazzi e tutte le diverse persone potranno tornare. Il diritto al ritorno è sacro. E se non vivrò fino a tornare, tornerai tu, figlio mio. E se non ritornerai, i tuoi figli alla fine torneranno.
Reportage di Ali Ibrahim, foto di Nadine Osama
Sono nata a Betlemme e frequentavo la Friends boarding school a Ramallah. Mi sono diplomata poche settimane prima della Nakba e fui riportata a casa a causa dell’escalation della situazione politica. Alcuni studenti giordani furono scortati in Giordania dall’esercito giordano. Dovetti andare a Gerusalemme per prendere un taxi per Betlemme.
Dopo la Nakba, andai a studiare al college femminile dell’Università americana di Beirut. E, quando tornai, Betlemme era un posto completamente diverso.
Betlemme era unica nel suo essere sia villaggio che città, un luogo di tradizione e modernità. Era un centro per i molti villaggi intorno e la sorella minore di Gerusalemme. Le donne dei villaggi venivano nelle nostre case a Betlemme a vendere diversi prodotti. Mi è sempre piaciuto il loro spirito e la vivacità con cui raccontavano storie di vita rurale. Il sabato i contadini tenevano anche mercati settimanali nelle principali città. È lì che ho iniziato a collezionare piccoli pezzi di ricamo e poi abiti interi.
Dopo la Nakba, Betlemme è stata tagliata fuori da Gerusalemme e da molti villaggi circostanti. Molti abitanti dei villaggi sono diventati dei rifugiati a Betlemme, vivendo in piccoli spazi o in campi profughi. Queste persone erano abituate a lavorare terre di cui si erano occupati per secoli. Avevano costumi e tradizioni diversi e diversi stili di ricamo che definivano la loro identità. Ho iniziato a collezionare questi abiti insieme alle storie delle donne che stavano dietro a loro.
Per me, il ricamo palestinese riflette identità, società e terra. Riflette identità perché ogni villaggio in Palestina aveva il proprio stile attraverso il quale orgogliosamente si relazionava con la propria eredità. È un riflesso della società, un caleidoscopio di storie, fili, culture e colori diversi intrecciati insieme. L’abito palestinese racconta dei bei vecchi tempi in cui le donne erano parte attiva della società, e nel loro tempo libero si riunivano nei ventosi pomeriggi estivi e lavoravano insieme sui loro abiti scambiandosi le loro competenze.
Riflette anche la terra perché i simboli e i colori sono stati presi dalla terra. Il cipresso è un famoso simbolo che spesso vediamo nei disegni di abiti. La maggior parte delle persone era solita piantare cipressi attorno alla propria terra per segnare i confini e proteggere i raccolti dai forti venti. I colori erano ricavati di solito da piante locali, come il sommacco per il rosso.
Reportage di Ali Ibrahim, foto di Nadine Osama
Il mio villaggio era così bello. Posso ancora vedere i campi proprio come posso vedere te. Eravamo soliti coltivare di tutto, melanzane, pomodori, grano. Mio padre era un contadino, ma mia madre veniva dalla città. Era di Haifa. Amavo andare con mio padre ad Haifa per vendere i nostri prodotti. Una volta che non ero riuscita a trovare le mie pantofole che calzavo per andare con lui, andai scalza.
Tutto iniziò quando il sindaco del villaggio venne a bussare alla nostra porta. Ci disse che gli inglesi avevano dato tutto agli ebrei e ora stavano venendo per farci fuori. “Dovete nascondervi!” Fino ad allora non c’erano stati problemi con gli ebrei di Neshar [un insediamento sionista]. Le case nell’insediamento non assomigliavano alla nostra. Vivevano in piccole case colorate. Gli ebrei vendevano i loro prodotti nel nostro villaggio e noi vendevamo i nostri a Neshar.
Il giorno in cui fuggimmo, il sindaco arrivò con tre macchine. Ci portò a Nazaret e di là andammo in Siria, a Tel-Mnin. Siamo rimasti un mese intero in un granaio. Poi andammo in quello che in seguito divenne noto come il campo profughi di Yarmouk a Damasco.
Reportage e foto di Amena ElAshkar
Mio padre era un ingegnere civile con le autorità britanniche del mandato e lavorava in diverse località della Palestina. La famiglia è originaria di Nablus, ma sono nato a Gerusalemme nel 1930 dove mio padre era impiegato a quel tempo. Considero Gerusalemme la mia casa. Ho studiato e trascorso la mia infanzia lì. Ricordo ancora ogni strada e posso guidarti attraverso qualsiasi percorso o scorciatoia.
La Nakba è iniziata prima del 1948. Ricordo che una volta mio padre fu trasferito a Nablus per un anno. Ci fu un attacco da parte dei combattenti per la libertà contro le truppe britanniche che annunciarono un coprifuoco in città. Mi annoiavo, così andai sul balcone. Tutte le strade erano vuote tranne che per un veicolo corazzato dell’esercito con un grosso cannone in cima a pattugliare la zona.
Un vecchio, noto a tutti in città per essere sordo, probabilmente non sentì l’annuncio del coprifuoco. Il soldato puntò la pistola contro di lui e lo avvertì, ma quello continuò a camminare. Ricordo ancora che cadde a terra. Chiaramente non era una minaccia, ma il soldato non aveva esitato a sparargli. Nessuno poté rimuovere il suo corpo fino al giorno successivo.
Volevo assolutamente visitare Gerusalemme nel 2000 per i miei 70 anni. Era quasi impossibile ottenere un permesso per entrare in città in quel periodo, ma ero determinato a entrare, in un modo o nell’altro. Indossai un tipico completo da turista occidentale – pantaloncini, un cappello, una maglietta leggera – e appesi al collo la videocamera. Volli pagare il prezzo intero per un taxi condiviso perché l’autista mi portasse attraverso le strade secondarie di Gerusalemme. Gli dissi che potevo entrare in città senza problemi.
Purtroppo, c’era un posto di blocco, dopo tutto. I soldati parlarono con l’autista, e quando chiesero il mio documento risposi solo in italiano e nella lingua dei segni. Ci credettero e ci lasciarono andare. Parlavo solo in italiano con i soldati dentro la città. Andai nella mia vecchia casa, che ora è un centro culturale turco. Chiesi loro se potevo andare un po’ in giro e me lo concessero quando dissi loro che un tempo vivevo lì con la mia famiglia. Ho anche visitato la mia vecchia scuola e i ristoranti dove di solito mangiavo con la mia famiglia. Ho camminato per strade e mercati che mi erano ancora familiari.
Ho pianto in ogni luogo.
Reportage di Ali Ibrahim, foto di Nadine Osama
(*) Amena ElAshkar è una giornalista e fotografa che vive nel campo profughi di Burj al-Barajneh a Beirut.
Ali Ibrahim è un giornalista che vive ad Amman.
Nadine Osama è una ricercatrice e fotografa ad Amman.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org