Voglio essere la voce narrante di coloro che non ne hanno una. Chi non ama le storie?! Siamo tutti attratti dalle storie: di amore, speranza, sopravvivenza, resistenza e talvolta dolore.
di Malak Hijazi – Gaza, 24 luglio 2019
Quando mettevo piede in quello stretto vicolo della mia vecchia scuola elementare, all’improvviso sentivo come un gelo nell’aria, una brezza gelida che quasi mi sfiorava le spalle. Non posso entrare in quel vicolo senza coprirmi involontariamente le orecchie, non voglio sentire il suono di risatine che chissà come si diffonde ancora nell’aria. Qualche volta corro a cercare la ragazza felice che era la fonte della risata, ma ecco che scompare. Oppure sento la voce dura e ferma di un insegnante che ci ammonisce di stare zitti, che, se solo obbediamo, tutto andrà bene.
Peccato che non sia stato così. Non voglio ricordare cosa ho perso in quel vicolo: la mia infanzia, all’età di 9 anni.
Ricordi che perseguitano
Oggi riesco a malapena a ricordare dove ho messo il mio cellulare, ma quel giorno del dicembre 2008 è piantato nel mio cervello come un albero con radici profonde nel terreno. Quella ragazza alta e sottile, con i capelli lunghi fino alla vita e una risatina acuta, che adorava saltare la corda e cantare, era la mia amica Asil. Mi dispiace così tanto, Asil, non ricordare più il tuo viso!
Asil è diventata una domanda che mi perseguita e a cui non posso rispondere. La mia infanzia è stata piena di domande senza risposte.
“Baba, moriremo?”
“Solo Dio lo sa”, aveva risposto mio padre.
Aveva ragione, ovviamente, ma mi gelò il cuore e mi riempì di una confusione inquieta. Non volevo morire.
“Baba, cosa vuol dire “armi proibite a livello internazionale”? La radio dice che l’esercito israeliano le ha usate per bombardare la mia scuola.”
“Armi che nessuno può usare.”
“Ma le hanno usate!” risposi. Non disse altro.
Dopo che la casa dei nostri vicini fu bombardata con la maggior parte di loro dentro, cercavo di evitare di spingermi fino alla loro casa distrutta. Non volevo immaginare di sentire le loro voci, le urla o persino le risate. Il fatto che vivessero le loro giornate proprio come noi – prima che all’improvviso non ci fossero più – per me era troppo spaventoso. I bambini andavano a scuola, proprio come noi, ma ora le loro uniformi si potevano intravedere intrappolate tra le macerie. Studiavano matematica e scienze, proprio come noi, ma potevo vedere i loro libri fatti a pezzi, sparsi ovunque. Avevano mangiato, dato problemi, avevano pianto e guardato la TV, proprio come noi! Forse un giorno verremo assassinati anche noi, proprio come loro.
Sentii alla TV che questo era stato anche il destino di Asil: un proiettile israeliano era atterrato direttamente nel cortile fuori dalla casa della famiglia Al-Dib, dove era riunita la maggior parte dei parenti stretti. Nove membri della famiglia furono uccisi all’istante, 11 in totale, tra cui quattro donne e quattro ragazze. Questo è ciò che disse il giornalista; non diede nemmeno i loro nomi. Non disse che erano morti prima di poter pranzare; stavano aspettando che il fratello di Asil arrivasse a casa per poter condividere insieme il pasto. Non disse che questo ragazzo si era trovato improvvisamente senza famiglia.
In quei giorni, il mio cuscino era sempre bagnato di lacrime di paura e disperazione mentre cercavo di dormire. Ero perseguitata da un’ansia violenta che a volte mi rendeva difficile respirare.
Riscoprire Gaza
Sono cresciuta odiando Gaza. Si sono spenti i miei sogni, il mio senso di sicurezza, il mio ottimismo. Mi sono chiesta ripetutamente: “Perché sono nata in questo posto, quando ci sono così tanti altri posti nel mondo?” E perché non siamo liberi di scegliere un altro posto in cui vivere, come tante altre persone nel mondo?
Da allora ci sono state altre due guerre a Gaza. Ma gli anni e i nuovi ricordi non hanno attutito l’impatto di quei primi giorni. Chiudere le orecchie con le mani per non “sentire” i miei ricordi non funziona. Anche i più piccoli dettagli sono ancora nitidi. Anche quando esco da quel vicolo, la nebbia fredda indugia nel mio cuore.
Ma mi sono resa conto che dalla tragedia possiamo creare qualcosa di buono e utile. Dopo essermi unita al team di We Are Not Numbers, mi sembra quasi di essere “rinata”. Confesso di aver brontolato all’inizio, quando aspettavo di incontrare di persona le persone per intervistarle e scrivere su di loro. Non ero molto socievole e avevo pochi amici, quindi pensavo che farlo sarebbe stato difficile. Ma poi ho scoperto che ascoltare le persone parlare della loro tristezza, difficoltà, speranze e sogni e condividerlo poi con altri attraverso la mia scrittura, mi fa sentire meglio. Le persone che incontro e intervisto sono felici quando leggono i miei articoli, e la loro gratitudine è una gioia per il mio cuore. Ho cominciato a credere che ognuno di noi è una storia in attesa del suo narratore.
Voglio essere la voce narrante di coloro che non ne hanno una. Chi non ama le storie?! Siamo tutti attratti dalle storie: di amore, speranza, sopravvivenza, resistenza e talvolta dolore. We Are Not Numbers mi sta dando la possibilità di raccontare la mia storia e gli altri. Mi permette di scoprire che ho ancora passione e come sopravvivere in una città che ha visto tanta morte.
Una nuova “io”
Non dimenticherò mai il passato e, se ne avessi la possibilità, sicuramente lo cambierei. Ho sempre avuto paura del futuro. Ero terrorizzata dall’ignoto perché non volevo che fosse come il mio passato. Ma ora, scelgo di vivere nel “adesso” e mi concentro sulle cose che posso controllare, su quello che ho. Scelgo di pensare a ogni giornata e come affrontarla con soddisfazione, a come posso rendere l’oggi un po’ migliore di ieri, a come posso provare a dare gioia alle persone intorno a me e come far contare l’oggi. È l’unico modo possibile per prepararmi in modo significativo per domani.
È una nuova vita e un nuovo inizio!
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org