I principali clienti sono i ristoranti che vogliono evitare il vino prodotto negli insediamenti illegali.
Miriam Berger – 4 ottobre 2019
Immagine di copertina: Jascala, una delle due cantine arabe. Fotografia: volantino
Ai tempi dei crociati,le dolci colline verdi della Galilea erano piene di presse per il vino. Oggi, quelle fertili terre fanno parte di una fiorente industria vinicola israeliana.
Ma con ogni loro bicchiere, due cantine raccontano una storia diversa: la tradizione arabo-palestinese della vinificazione.
La cantina Ashkar, situata vicino al confine con il Libano, e la cantina Jascala, più a est, nell’Alta Galilea, sono le uniche cantine commerciali di proprietà palestinese all’interno di Israele.
“Riempiamo una nicchia”, ha detto Nemi Ashkar durante un tour della sua cantina a Kafir Yassif. I suoi principali clienti sono ristoranti di proprietà araba in città come Nazareth, Haifa e Acre, nonché i ristoranti di Tel Aviv che cercano di evitare il vino prodotto nei controversi insediamenti illegali israeliani nella Cisgiordania occupata. Vende anche al famoso chef israeliano Yotam Ottolenghi.
Ashkar è uno dei cittadini palestinesi di Israele, chiamati anche arabi israeliani, che comprendono quasi un quinto dei cittadini israeliani. La sua famiglia è cristiana e fa parte di quelle comunità arabe rimaste in Israele dopo la sua fondazione nel 1948. Altri 700.000 Palestinesi fuggirono o furono espulsi e i loro discendenti oggi sono rifugiati. I cittadini arabi di Israele hanno storicamente svolto un ruolo marginale nella politica nazionale; ma nel parlamento israeliano i partiti a maggioranza araba costituiscono ora una parte fondamentale del blocco che cerca di estromettere il primo ministro di lunga data, Benjamin Netanyahu.
Per Ashkar, la parte più importante della sua attività è l’etichetta incollata su ogni bottiglia, disegnata da sua figlia, una graphic designer. Mostra Iqrit, la casa ancestrale della sua famiglia, e la sua chiesa, che è tutto ciò che rimane dopo che le autorità israeliane distrussero il villaggio nel 1951. “Con questo vino, sto raccontando la storia di Iqrit “, ha detto.
Durante i combattimenti del 1948, i 500 residenti di Iqrit partirono volontariamente con la promessa delle forze israeliane di poter tornare presto. Non accadde mai. Al contrario, dopo la guerra Israele pose le comunità arabe presenti nel nuovo Paese sotto il dominio militare. La vigilia di Natale del 1951, Israele rase al suolo il villaggio di Iqrit, distruggendo tutto tranne la chiesa greco cattolica e il cimitero adiacente.
L’attuale comunità di Iqrit, composta da 1.700 abitanti e che vive principalmente nel nord di Israele, ha combattuto in tribunale per rivendicare la propria terra, finora senza risultati. “Ritorneremo, ne sono sicuro, nonostante i 70 anni di espulsione”, ha detto Ashkar.
Un sentiero non contrassegnato e non asfaltato conduce alla chiesa di Iqrit, dove la comunità si riunisce una volta al mese per le funzioni religiose così come per i funerali. Ciò che rimane del villaggio sembra essere fuori dal mondo, preservato dal passare del tempo da dolci brezze e circondato da un susseguirsi di verdi colline.
La vinificazione era da tempo il passatempo preferito di Iqrit. Mentre l’alcol è vietato nell’Islam, il vino era popolare tra gli arabi cristiani, sebbene nel corso dell’ultimo secolo la loro presenza in Medio Oriente sia fortemente diminuita.
“Era un hobby”, ha detto Ashkar. “La mia famiglia e i miei nonni erano viticoltori solo per uso familiare”. All’epoca utilizzavano uve autoctone selvatiche con un gusto più dolce rispetto ai vini delle varietà commerciali di oggi.
L’amore della famiglia Ashkar per la vinificazione non diminuì con il loro trasferimento a Kafir Yassif, a 30 km di distanza. Ma fu solo nel 2005, quando Ashkar, lavorando nell’industria tecnologica israeliana, fece un viaggio di lavoro nella Silicon Valley e si sentì ispirato dai viticoltori della California settentrionale, che ricominciò a produrre vino fondando, nel 2010, la sua cantina.
Il primo vigneto da cui Ashkar acquistò l’uva era gestito da un ebreo-israeliano, sulla terra che secondo lui faceva un tempo parte di Iqrit. Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, l’Autorità delle Terre di Israele confiscò i terreni di Iqrit, come peraltro fece con altri villaggi arabo-palestinesi spopolati, e ora presta parte di questa terra in varie modalità. In pratica, è estremamente difficile per un cittadino non ebreo affittare un terreno statale.
Ashkar dice di essere ora in buoni rapporti d’affari e anche amico del proprietario della vigna. Entrando nel mercato commerciale nel 2009, iniziò a comprare uva da altri due vigneti vicini non legati ad Iqrit e, un decennio dopo, sta cercando di espandersi di nuovo.
La cantina Jascala, nel villaggio di Jish, ha una storia ugualmente radicata. La vinificazione è una tradizione di lunga data per la famiglia Kharish, anch’essa cristiana, così nel 2003 decise di iniziare qualcosa di più professionale.
I fratelli Nasser e Richard sono ora il cuore dell’operazione: Nasser, 40 anni, coltiva l’uva e Richard, 44 anni, è l’enologo.
Nasser aveva appena conseguito una laurea in scienze politiche quando tornò a casa per aiutare l’anziano padre con i lavori agricoli, poi espletati da lavoratori thailandesi. Decise di restare.
“Mi sento davvero connesso alla terra”, ha detto della sua vita in vigna. “È diverso da qualsiasi cosa abbia fatto nella mia vita. È così soddisfacente … Per tutto il tempo hai a che fare con qualcosa che cresce con te. ”
Jascala ora produce 30.000 bottiglie all’anno e le vende principalmente a Ramallah e a Gerusalemme, così come ad Haifa, Nazareth e Tel Aviv.
Vi è, tuttavia, un mercato limitato in Israele per il vino non kosher: sia Ashkar che Jascala non sono kosher. In base alle restrizioni dietetiche ebraiche che dominano il mercato alimentare israeliano, il vino kosher può essere prodotto solo da ebrei che osservano il Sabbath in condizioni regolamentate o, in alternativa bollito, il che ne riduce la qualità.
Come cittadino israeliano, Nasser Kharish afferma di identificarsi anche come Palestinese, il che “è difficile per gli ebrei israeliani comprenderlo. Ma è vero. Sono Palestinese. Faccio parte del mio popolo “.
E aggiunge : “Non credo davvero che i produttori ebrei-israeliani mi guardino diversamente come palestinese o arabo, che non mi vogliano o che non piaccia loro. Mi trattano semplicemente come un enologo.”
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org