Un popolo colto è un popolo pericoloso perché è una potente valanga rischiosa per i governi. Rappresenta la possibilità di mettere continuamente in funzione il cervello…
Andrea Camilleri – Gennaio 2014
Nella sua accezione più elementare si può dire che l’arte è un mezzo di espressione e di comunicazione connaturato all’essere umano. Già l’uomo primitivo disegnava, scolpendole sulla roccia, figure di bufali per indicare che nelle vicinanze si trovavano mandrie da cacciare. La cosa interessante è che disegnava in forma stilizzata, realizzando una figura che non fosse solo un “affare con quattro piedi” bensì una forma riconoscibile, il “bufalo”, distinguibile da un cavallo o da un altro quadrupede. In quella forma c’era già il principio di un concetto artistico, la stilizzazione, una stilizzazione operata senza che si perdesse però il contatto con la realtà. Già questa era una primitiva forma d’arte.
L’artista cerca, da sempre, di oggettivare una sua esperienza, una sua urgenza di comunicare. Così, attorno a questo suo messaggio, ha una larga possibilità di consenso nel significato etimologico del termine di “senso con lui”. Anche l’arte più raffinata ha sempre in sé qualcosa che colpisce. Basta pensare alla Maestà di Duccio, così ferma e conclusa nella sua perfezione, e a ciò che accadde nel momento in cui il dipinto uscì fuori dalla bottega del pittore e attraversò le strade per arrivare al Duomo di Siena. Una descrizione straordinaria, che ho avuto la fortuna di leggere in una cronaca dell’epoca, parla di una processione di persone, di una folla intorno che piangeva e si commuoveva e addirittura di interi balconi abbattuti per far passare l’opera. In tutto questo può essere individuato il momento assoluto dell’arte, quando la comunicazione raggiunge in pieno la moltitudine di genti.
Sempre in Italia accadde una cosa simile quando furono tirati su dal mare i bronzi di Riace. Davanti alla galleria che li ospitava, per giorni e giorni si osservava una fila di gente che pazientemente attendeva, in coda, di ammirarli. Questo è un episodio che ci fa comprendere il significato profondo della validità universale dell’arte. Un artista non è mai figlio di un solo padre. Ne ha uno naturale che l’ha fatto nascere. E poi altri dieci, quindici padri che lui si è scelto. Sono i maestri, coloro che ci formeranno nella nostra educazione artistica. La bellezza di questi maestri è che non devono necessariamente avere il nostro stesso sangue, parlare la nostra lingua o essere nostri contemporanei. Possono essere vissuti svariati anni prima eppure li riconosciamo immediatamente come “padri” perché il linguaggio dell’arte è universale, non ha frontiere.
L’arte negra sconvolse così tanto Picasso da far nascere il cubismo: dov’erano allora i confini? Per un artista è molto importante nutrirsi dell’interscambio, della conoscenza di quello che fanno gli artisti nelle diverse parti del mondo. Oggi ci sono riviste e media che si occupano di arte, che ci informano e ci tengono aggiornati, ma quando questi strumenti mancano cosa accade? Durante il fascismo noi non sapevamo assolutamente nulla delle esperienze che si vivevano in Francia o negli altri paesi; eravamo diventati filonazisti e quell’arte era definita degenerata. I nostri pittori erano bravi a contrabbandare la buona pittura ma non avevano una conoscenza diretta dell’arte fuori dell’Italia.
L’artista è come un albero che, se non riceve continuamente linfa vitale da tutte le parti, finisce col rinsecchirsi, morire o mettere poche foglie stente. L’artista necessita sempre della conoscenza del lavoro altrui.
L’arte a Gaza
A Gaza esiste un’incredibile, inimmaginabile e fervente attività artistica di cui quasi nessuno sa niente. I mezzi d’informazione non ne parlano, preferendo dare notizie di morti e distruzioni invece di segnalare le molteplici manifestazioni di chi lotta pacificamente ed esistenzialmente in nome dei valori dell’arte.
Cosa spinge gli uomini che abitano questa terra disgraziata alla necessità assoluta di esprimersi attraverso l’arte? Credo che l’arte sia, per queste persone, un grido estremo di speranza e di voglia di esprimersi, di conoscersi, di stringersi in un abbraccio che nasce da una società assediata incapace di intravedere soluzioni politiche a breve o medio termine. Mi sono subito appassionato agli artisti che operano in questa massacrata terra, dove avviene una vera e propria sperimentazione in corpore vili, non solo di armi sempre più perfezionate bensì di qualcosa di assai più tredemendo: il tentativo di distruzione dell’uomo attraverso la distruzione del suo sistema psicologico, del suo sistema nervoso, che gli sottrae progressivamente la certezza non solo della sua esistenza ma anche di quella degli affetti a lui più cari.
Questa sperimentazione in atto a Gaza non è nient’altro che la possibilità della mutazione psicologica dell’individuo che subisce tale perversione. Incontrando gli artisti di Gaza ho compreso che per loro fare arte è una necessità, un’urgenza e soprattutto una concreta forma di sopravvivenza e di reazione. L’unica contro-guerra che queste persone sono in grado di esercitare in quelle condizioni con armi volutamente ed esclusivamente pacifiche.
Sostenerle, allora, significa partecipare a una guerra, la loro guerra quotidiana, fatta in nome dell’arte, con l’arte e attraverso i mezzi dell’arte. Quello che mi ha colpito di molti di questi artisti rispetto a quelli europei è il fatto che abbiano sempre un occhio attento all’educazione del loro avvenire, che non è più tanto, e non solo, il loro ma è l’avvenire dei figli e il loro orgoglio. E’ incredibile e meraviglioso constatare quanti si dedichino all’educazione artistica dei bambini, dei meno fortunati, dei menomati o malridotti di guerra, riconquistandoli attraverso l’arte per creare un futuro e far sì che essi diventino gli uomini di domani.
Quest’arte, quindi, non solo combatte con le sue armi ma si preoccupa, con estrema intelligenza, anche del futuro. Assume oggi, forse, il ruolo più sociale che si possa assegnarle. Se riuscissimo a fare uscire questi artisti da Gaza per qualche tempo, per farli conoscere in Italia e per mostrargli il lavoro degli artisti italiani sarebbe un enorme arricchimento reciproco. Perché nell’arte si prende e si dà, anche sapendo di non dare.
L’arte può essere espressione di sé, bella e pacifica ma in certi momenti può anche acquisire un valore aggiunto. Per gli artisti di Gaza è, oltre che una necessità, un dovere sociale. Un modo per dire che, malgrado la cenere sparsa sulla città, nelle viscere continua ad ardere un immenso fuoco. Occorre mantenere viva la fiamma dell’espressione migliore di un popolo, e in questo senso parlo di “resistenza”, che non deve essere per forza armata o passiva.
Non sempre chi fa lotta politica, magari violenta, riesce a comprendere quanto sia valida e forse più utile la resistenza attraverso l’arte, che è un continuo work in progress. Si tratta di un contributo importante, anche se delegittimato o misconosciuto in patria.
Non sempre chi detiene il potere ha piacere che i cittadini o i sudditi siano un passo avanti più di lui – o rischino di esserlo. I tagli che si operano a danno della cultura vengono fatti proprio per evitare che, per mezzo di essa, si acquisisca coscienza di sé, si abbia consapevolezza dei propri doveri ma anche dei propri diritti.
Un popolo colto è un popolo pericoloso perché è una potente valanga rischiosa per i governi. Rappresenta la possibilità di mettere continuamente in funzione il cervello del popolo che, per evidente egoismo e comodità dispotica, è meglio tenere assopito, attraverso spettacoli leggeri, quiz, reality. Qualunque mezzo purché non si pensi. Perché il pensiero, la cultura, l’arte, contengono quella parte di verità che può essere rivoluzionaria e la parola “rivoluzione” non è mai piaciuta a chi detiene il potere.
Questo testo di Andrea Camilleri è tratto dal libro stampato in occasione della mostra WINDOWS FROM GAZA con opere di Basel El Maqousi, Shareef Sarhan e Majed Shala’ svoltasi presso la Sala Santa Rita di Roma nel settembre del 2015.
Un progetto di FotografiSenzaFrontiere, Centro Italiano di Scambio Culturale “Vik” Gaza, Shababik Windows from Gaza for Contemporary Art.