Le relazioni israelo-sudanesi sono state sempre caratterizzate da tensioni pubbliche e collaborazioni segrete – con il destino dei rifugiati sudanesi in Israele in bilico.
Inbal Ben Yehuda – 1 marzo 2020
Immagine di copertina: Manifestanti su di un treno proveniente da Atbra, circa 300 km da Khartoum, durante la rivoluzione sudanese 17 Agosto 2019. (Osama Elfaki/Wikimedia)
L’incontro dello scorso mese tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il leader ad interim del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, ha provocato una protesta diffusa all’idea di una normalizzazione dei legami tra i due Paesi.
Entrambi i due politici si trovano in una posizione complicata: Netanyahu è coinvolto in affari illegali e sta conducendo la terza campagna elettorale dell’anno, mentre al-Burhan – un comandante militare e capo del consiglio sovrano del Sudan – sta cercando di prendere le distanze dal regime di Omar al- Bashir, il cui trentennale regime tirannico si è concluso lo scorso aprile. Al-Burhan e alcuni dei suoi colleghi nelle istituzioni di transizione sono state figure chiave durante il regno di al-Bashir e hanno partecipato alla sua violenta repressione dei gruppi emarginati e dei dissidenti politici in tutto il Paese.
Netanyahu e al-Burhan rappresentano due Paesi le cui relazioni storiche sono state caratterizzate da tensioni e ostilità, nonché da collaborazioni segrete e tentativi di avvicinamento.
Per decenni Israele ha considerato il Sudan uno “Stato nemico”, mentre allo stesso tempo lo vedeva come un potenziale obiettivo nella cosiddetta “alleanza della periferia”, una politica con la quale nei suoi primi decenni Israele cercò di trovare partner tra i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa, spinta principalmente da meri interessi politici e di sicurezza. Negli anni ’50, alla vigilia dell’indipendenza del Sudan, Israele e il partito sudanese Umma fecero reciproci tentativi di creare un’alleanza per frenare l’influenza dell’Egitto in Sudan e nel Medio Oriente.
Nella metà degli anni ’60, con l’incerta situazione politica del Sudan, il governo israeliano bloccò i rapporti con Khartum, sostenendo contemporaneamente i movimenti di liberazione del Sud Sudan. Questi gruppi si ribellavano contro la loro esclusione politica e contro il controllo violento del governo sudanese sul sud del Paese; col tempo, la loro lotta si trasformò in guerra civile.
Nello stesso periodo, il regime di Khartum si identificò sempre più con l’Islam politico sviluppando, dopo la rivoluzione del 1979, stretti legami con l’Iran e con movimenti come Hamas e Hezbollah. In questo contesto, negli ultimi anni Israele ha condotto diversi attacchi aerei in Sudan, mirati a bloccare la produzione di armi e il loro invio nella Striscia di Gaza.
Nell’ultimo decennio, il Sudan è stato visto da Israele come il Paese di origine di migliaia di richiedenti asilo, la maggior parte dei quali appartenenti a etnie e gruppi emarginati nel conflitto con il regime di Khartum. Queste persone, insieme ad altri rifugiati africani, sono diventate uno strumento politico e un problema molto scottante nella società israeliana.
Argomenti xenofobi popolari riguardanti i posti di lavoro, i crimini e la cosiddetta “sinistra globale” vengono utilizzati unitamente ad un argomento anti-immigrazione prettamente israeliano: che essendo non ebrei, questi immigrati costituiscono un “rischio” per la maggioranza demografica ebraica. E nonostante l’immagine del Sudan come dittatura violenta sia ben presente tra gli israeliani, non sempre questa consapevolezza si traduce in una maggiore tolleranza verso i richiedenti asilo sudanesi.
Israele ottenne un posto significativo nella storia sudanese.
Nel 1948, nel 1967 e nel 1973, i soldati sudanesi furono inviati a sostenere l’esercito egiziano nelle sue guerre contro Israele. Dopo la guerra dei sei giorni del 1967, Khartum ospitò la conferenza degli Stati arabi che votò contro la pace con Israele, contro il suo riconoscimento e contro i negoziati. Questa agenda era in linea con quella del generale Jaafar al-Nimeiri, salito al potere circa due anni dopo con un colpo di stato militare, che rafforzò sempre di più l’identità araba del Sudan e, contemporaneamente , anche la sua identità popolare.
Ciò nonostante, negli anni ’80 al-Nimeiri collaborò con funzionari israeliani e alla fine del 1984, come parte dei suoi sforzi per rafforzare i legami del Sudan con gli Stati Uniti, permise agli ebrei etiopi di emigrare attraverso il Sudan con la cosiddetta “Operazione Mosè”. Questo gesto fu in realtà un tentativo di al-Nimeiri per garantire la sua sopravvivenza politica; ma se anche portò alcuni benefici finanziari, alla fine contribuì alla caduta del suo regime.
L’eredità del dominio coloniale in Sudan e la sua situazione una volta indipendente – un vasto territorio etnicamente e culturalmente diversificato – scatenarono una “guerra di visioni” sul fatto che il Paese fosse da considerare “arabo” o “africano”, musulmano o multi-religioso e multiculturale. Con lo sfociare di questa contesa in una guerra civile, il movimento indipendentista del sud si basò principalmente sul sostegno cristiano regionale e globale, nonché sul sostegno israeliano
I successivi governi sudanesi abbracciarono una forte identità arabo-musulmana, acquisendo legittimità come africani nel mondo arabo attraverso, tra le altre cose, la propaganda contro Israele riguardo alla sua oppressione dei palestinesi. Questa propaganda, specialmente durante l’era di al-Bashir, fu integrata e rafforzata dall’influenza dei media arabi fuori dal Paese e aiutò a inserire Israele nella coscienza pubblica sudanese.
Di conseguenza, per alcuni gruppi di dissidenti sudanesi il cambiamento negli atteggiamenti ostili verso Israele e gli ebrei andò di pari passo con una generale opposizione al regime. I liberali urbani, i sostenitori del secolarismo o dell’Islam riformista, gli attivisti delle periferie in contrasto con il regime, e gli immigrati e i rifugiati all’estero tra gli altri, iniziarono a guardare ad Israele come ad un Paese complesso e multi-narrativo e non solo come ad una “entità sionista.” Per alcuni, ciò si manifestò prendendo contatto con gli israeliani per conoscere narrazioni diverse sullo Stato e sui suoi abitanti e persino per imparare l’ebraico.
Allo stesso tempo, emerse un senso di nostalgia per l’ex piccola comunità ebraica del Sudan, che gradualmente aveva lasciato il Paese dopo l’indipendenza. Oggi tra i liberali sudanesi nel Paese e nella diaspora, si può trovare una varietà di atteggiamenti nei confronti della cooperazione con Israele. Tra questi vi sono gruppi fortemente influenzati dai crescenti sforzi di propaganda filo-israeliana (anche in arabo), che cerca di contrastare gli oppositori che condannano Israele per la sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi.
Strada accidentata verso la normalizzazione
Il Sudan sta attualmente affrontando un periodo di transizione difficile. Le persone che sono scese in piazza in massa per rovesciare il regime di al-Bashir, e quelle che hanno sostenuto la rivoluzione dalla diaspora, sono piene di speranza e di preoccupazione per l’impegno delle istituzioni di transizione di portare in Sudan stabilità politica, sicurezza ed economica, e persino un governo democratico.
In queste condizioni, Israele offre al Sudan una possibile linfa vitale per evitare un disastro economico molto temuto. L’incontro tra Netanyahu e al-Burhan è stata fino ad ora la mossa più pubblicizzata dai leader dei due Paesi, in quanto suggerirebbe un riavvicinamento tra i due.
Tuttavia, vale la pena ricordare come durante gli ultimi anni del suo governo, e come al-Nimeiri prima di lui, al-Bashir avesse similmente considerato l’impegno con Israele come un canale per rafforzare i legami con gli Stati Uniti, nonostante proseguisse con la sua retorica anti-normalizzazione.
Ciò ha a che fare con il coinvolgimento del Sudan nella coalizione dei Paesi del Golfo Arabo e dell’Egitto contro Paesi come l’Iran e il Qatar, coinvolgimento in parte espresso dall’invio negli ultimi anni, da parte del Sudan, di decine di migliaia di soldati – anche bambini – nello Yemen per combattere contro l’Iran in una guerra per procura tra la Repubblica islamica e l’Arabia Saudita.
Israele condivide la posizione anti-iraniana di quest’ultima, e quindi ha fornito al Sudan il sostegno delle lobby presenti a Washington, portando gli Stati Uniti a revocare nell’ottobre del 2017 la maggior parte delle sanzioni economiche e commerciali contro il Sudan. Tuttavia il Sudan rimane per gli Stati Uniti ancora nella lista degli Stati “sponsor” del terrorismo. Aggiunta ad altre sanzioni, ciò rende difficile per il Sudan ottenere quegli aiuti economici che le autorità ritengono essenziali per il successo del periodo di transizione.
Mentre molti sudanesi vedono il rafforzamento delle relazioni con Israele come un’opportunità per la sopravvivenza economica, altri evidenziano il problema di un Paese che soccombe agli interessi economici e politici di influenti vicini arabi, di Israele e degli Stati Uniti, specialmente mentre è in difficoltà finanziarie e diplomaticamente svantaggiato.
Considerata la delicata situazione regionale suscitata dal cosiddetto “Deal of the Century” di Donald Trump, nonché le intricate dinamiche interne del Sudan, la resistenza alla normalizzazione si basa non solo su sentimenti religiosi o su un senso di nazionalismo arabo, ma anche su considerazioni pragmatiche.
Innanzitutto, Netanyahu ha incontrato il capo militare del Sudan ma non il capo del gabinetto civile, il dottor Abdalla Hamdok, un’apparente esclusione che ha suscitato grande scalpore. L’incontro ha evidenziato le numerose difficoltà del Sudan post-Bashir, inclusa l’incertezza su chi sia al comando – i militari o i civili – e verso dove i leader ad interim del Sudan stiano portando il Paese in un momento così fragile.
Nonostante la chiara opposizione alla normalizzazione con Israele presente in alcuni ambienti, gli interessi delle potenze straniere potrebbero costringere il Sudan a proseguire su questa strada. Nel processo, i richiedenti asilo sudanesi in Israele potrebbero diventare un ponte umano, culturale e sociale, oltre che un potenziale economico e commerciale. Questo gruppo avrebbe sia le conoscenze, sia le capacità per far cancellare i preconcetti sul Sudan e per fornire un contesto più informato al discorso sulla normalizzazione.
Tuttavia, nonostante un certo grado di integrazione e di coesistenza, resta il fatto che la realtà della vita dei richiedenti asilo in Israele è caratterizzata dal razzismo del Paese verso i non ebrei in generale e verso le comunità africane in particolare. Non sorprende che ci siano state speculazioni sulla potenziale deportazione in Sudan dei richiedenti asilo sudanesi in Israele, sotto l’egida della “normalizzazione” tra i due paesi.
Questo problema serve a ricordare al governo israeliano che i governanti del Sudan non rappresentano l’intero Paese e che si tratta di qualcosa di più di un semplice vantaggio strategico. Resta da vedere come Israele tratterà i cittadini del Paese con cui desidera collaborare, quando questi cittadini si trovano all’interno dei suoi confini.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta nel Forum for Regional Thinking (in ebraico).
Inbal Ben Yehuda è un blogger presso Local Call e un ricercatore associato al Forum for Regional Thinking.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org