I principi che hanno guidato i governi israeliani in 52 anni di occupazione sembrano dettare la risposta alla presenza del coronavirus nei Territori Occupati.
Lior Amihai, 11 marzo 2020
Immagine di copertina: forze di sicurezza palestinesi bloccano l’ingresso alla città di Betlemme in Cisgiordania, 8 marzo 2020. (Wisam Hashlamoun / Flash90)
Giovedì scorso, con il coronavirus e la crisi politica israeliana in pieno svolgimento, il Ministro della Difesa temporaneo Naftali Bennett ha annunciato il blocco militare completo a Betlemme, dopo che alcuni residenti in città sono stati trovati positivi al COVID-19. Tre giorni dopo, il Ministero della Sanità ha annunciato che chiunque fosse stato a Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour doveva essere messo in quarantena per due settimane.
I residenti di queste comunità non possono più entrare in Israele, anche se molti di loro vi lavorano. Tra quelli che ora sono in quarantena dopo essere stati nell’area di Betlemme, ci sono alcuni miei colleghi dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din.
Domenica, Bennett ha annunciato che, nell’ambito della lotta contro il coronavirus, stava prendendo in considerazione la chiusura militare completa in tutte le città palestinesi in Cisgiordania Tuttavia, a seguito di un incontro con vari ministri, generali e altri rappresentanti del governo, Bennett ha rinunciato alla sua intenzione e ha deciso di non sigillare i territori dell’Autorità Palestinese.
Misure simili come il blocco e la quarantena non sono state imposte ai quartieri ebraici nell’area di Betlemme: zone come Gilo, situato vicino a Beit Jala, o Har Homa, vicino a Betlemme. Inoltre, i residenti di Ashkelon, Gerusalemme, Ariel e Petah Tikvah – tutte città con casi confermati di COVID-19 – non sono stati né bloccati, militarmente, né sottoposti a quarantena (tranne quelli attualmente malati).
Nell’insediamento di Einav nella Cisgiordania settentrionale, quattro persone sono risultate positive al coronavirus e altri 100 residenti sono in quarantena. Questo è quasi il 12 percento dei residenti dell’insediamento, ma al momento l’insediamento non è stato chiuso. Ciò che è difficile applicare agli israeliani, è apparentemente facile applicare a milioni di palestinesi che vivono sotto la peste dell’occupazione israeliana.
Il Ministero della Sanità non ha inoltre apparentemente tenuto conto del fatto che la Tomba di Rachele, un famoso luogo di pellegrinaggio ebraico, si trova nel centro di Betlemme. I visitatori del sito non sono, per ora, soggetti all’auto-quarantena obbligatoria di due settimane per chiunque si rechi nella zona di Betlemme. La tomba, nonostante si trovi sul lato israeliano del muro di separazione, ha un accesso fortemente protetto ed è vietata ai palestinesi. Lunedì sera, presso il sito si è svolta una preghiera di massa per fermare la pandemia di coronavirus.
E martedì, i coloni israeliani nell’Hebron occupata sono stati autorizzati a svolgere le celebrazioni annuali di Purim, in coordinamento con l’esercito israeliano. La decisione di consentire questo evento nel centro di Hebron è l’ennesimo esempio dell’immensa differenza con cui il governo israeliano si comporta verso le due popolazioni che vivono nello stesso territorio.
Le misure adottate dal governo israeliano per prevenire la diffusione del coronavirus non sono sproporzionate. In effetti, sembra che nelle ultime settimane le misure finora adottate abbiano avuto relativamente successo nel prevenire un focolaio.
Ma bisogna ricordare che lo Stato di Israele, l’esercito che controlla i Territori Occupati e noi come società, abbiamo la responsabilità, richiesta dal diritto internazionale e dagli obblighi morali, di proteggere la sicurezza, la salvezza e la salute di tutte le persone sotto il controllo di Israele – comprese quelle che vivono sotto l’occupazione israeliana.
L’emergenza globale causata dal coronavirus costituisce un test per lo Stato di Israele. I palestinesi non dovrebbero essere percepiti come un popolo che può essere messo in quarantena attraverso la chiusura, l’assedio, leggi diverse e strade di bypass. La preoccupazione per la loro salute e la loro qualità di vita ricade principalmente su di noi, in quanto regime responsabile.
Le decisioni di imporre una chiusura militare completa nei Territori Occupati (esclusi gli insediamenti) o in alcune zone dei Territori, non possono essere prese quando la considerazione principale sono le conseguenze per gli israeliani e l’economia israeliana – ad esempio, la perdita di lavoratori edili e risorse umane. Piuttosto, tali decisioni devono prima rispondere con un “sì” alla domanda: verrebbero prese le stesse decisioni, se la popolazione colpita fosse ebrea?
Inoltre, i palestinesi che vivono in Cisgiordania vivono già per tutto l’anno sotto un blocco militare, e alla stragrande maggioranza di loro è proibito entrare in Israele. Di solito, ci sono alcune “eccezioni”, con palestinesi che hanno permessi temporanei che consentono loro di entrare in Israele per lavorare. Tuttavia negli ultimi giorni, a causa delle festività di Purim, che come durante tutte le principali festività ebraiche ha portato Israele a chiudere completamente la Cisgiordania, l’ingresso in Israele è stato vietato anche ai palestinesi con i permessi di ingresso. E quei coloni israeliani che celebravano Purim a Hebron si rallegravano in quelle stesse strade chiuse ai palestinesi da un quarto di secolo.
Sembra che gli stessi principi che hanno guidato i governi israeliani durante 52 anni di occupazione – l’allontanamento, l’occultamento e la disumanizzazione dei palestinesi – continuino a guidare il governo di Benjamin Netanyahu durante questa pandemia. Tuttavia, in contrasto con questi principi guida, è diventato ancora più chiaro come lo spazio in cui viviamo sia una rete umana che non può essere separata artificialmente. Questa epidemia può essere la nostra opportunità per dimostrare che non abbiamo dimenticato come essere umani.
E forse, all’ombra del coronavirus, gli abitanti di Betlemme e di altre città sotto blocco militare saranno liberi da incursioni notturne, checkpoint a sorpresa, arresti arbitrari, spedizioni militari e incontri quotidiani con il potere occupante.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org