Copertina: Le forze israeliane fanno la guardia ai posti di blocco contro la pandemia del coronavirus (Covid-19) in vista della preghiera del venerdì a Gerusalemme del 20 marzo 2020 [Mostafa Alkharouf / Anadolu Agency]
Di Robert Andrews – 23 Marzo 2020
Ogni mattina, decine di migliaia di palestinesi si mettono in fila in uno degli oltre 140 posti di blocco israeliani fissi sparsi nella Cisgiordania occupata. Queste strutture permanenti separano città e villaggi palestinesi, nonché famiglie, l’una dall’altra e limitano fortemente la mobilità dei palestinesi all’interno della propria terra. I checkpoint sono una realtà costante della vita palestinese e negli ultimi sei anni il numero è aumentato del 41%. Ogni anno il tempo di attesa ai posti di blocco equivale a 60 milioni di ore ad un costo stimato di 274 milioni di dollari all’anno e 81 milioni di litri di carburante (che costano 135 milioni di dollari). Inoltre, i palestinesi si stanno ora preoccupando all’accresciuta possibilità di essere esposti al coronavirus Covid-19 ai posti di blocco, oltre alla negazione dei loro diritti umani fondamentali che vengono violati sistematicamente.
In luoghi come il Checkpoint 300 a Betlemme, decine di palestinesi vengono regolarmente accalcati in presunte corsie singole; gli svenimenti sono comuni a causa della mancanza di un’adeguata ventilazione. Aggiungendo a ciò i controlli fisici arbitrari e il personale di sicurezza insufficiente ai punti di controllo (solo 64 delle 140 strutture fisse sono permanentemente dotate di personale), sono le condizioni ideali per la diffusione di malattie respiratorie come il coronavirus. Il già stremato settore sanitario della Palestina occupata sta probabilmente per subire una pressione ancora maggiore.
Tuttavia, le terribile condizioni dei checkpoint militari israeliani in Cisgiordania rappresenta solo uno dei numerosi rischi per la salute affrontati dai palestinesi a seguito diretto dell’occupazione israeliana. Secondo il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer, ad esempio, ci sono attualmente 5.000 palestinesi (di cui 43 donne e 180 bambini) detenuti nelle strutture del Servizio penitenziario israeliano (IPS). Languendo in condizioni altrettanto terribili, dal 1967 un totale di 67 palestinesi sono morti sotto la custodia israeliana per negligenza medica. Circa 700 prigionieri richiedono cure mediche immediate; circa il 60% dei prigionieri palestinesi detenuti da Israele soffre di malattie croniche. Solo pochi mesi fa, Bassem Al-Sayeh e Sami Abu Diak sono morti a causa di presunte negligenze mediche all’interno delle strutture dell’IPS. Erano solo due dei cinque prigionieri palestinesi che sono morti in custodia israeliana l’anno scorso.
La situazione impressionante per i palestinesi detenuti da Israele è esemplificata dalle voci della scorsa settimana secondo cui quattro prigionieri detenuti nella prigione di Megiddo avevano contratto Covid-19 dopo essere entrati in contatto con un interrogatore israeliano. Mentre le autorità israeliane e l’Autorità palestinese hanno contestato questa affermazione, i timori di un focolaio all’interno delle strutture IPS non dovrebbero essere sottovalutati. Cento prigionieri nella prigione di Al-Moscobiyeh a Gerusalemme e altri 19 nella prigione di Ashkelon sono già stati costretti all’isolamento dopo essere entrati in contatto con qualcuno sospettato di avere la malattia. Secondo quanto riferito, i prigionieri di Ashkelon sono isolati dopo che uno è stato in contatto con un medico israeliano che era risultato positivo al virus cinque giorni prima. In modo preoccupante, i rapporti hanno anche rivelato che le guardie carcerarie hanno perquisito abitualmente le celle senza indossare guanti protettivi e mascherine.
In seguito alla notizia del mese scorso che l’IPS aveva deciso di ridurre le razioni alimentari, compresi pane e acqua, consegnate ai prigionieri, questa settimana le autorità israeliane hanno deciso di impedire ai prigionieri palestinesi di accedere a oltre 140 prodotti, tra cui prodotti per l’igiene, molti dei quali sono necessari negli sforzi per arginare la diffusione del virus all’interno del sistema carcerario.
Nel gennaio dello scorso anno, il ministro della pubblica sicurezza israeliano Gilad Erdan ha annunciato l’intenzione di “peggiorare” le condizioni per i prigionieri e di stabilire “chiari limiti” sul consumo di acqua per le docce, quindi nuove misure così aggressive non dovrebbero sorprendere. Segnano un nuovo minimo anche per gli standard di Israele e mostrano un chiaro disprezzo per i palestinesi, anche quelli detenuti senza accusa né processo, che gli israeliani ritengono non siano degni dei più elementari diritti umani di fronte a una mortale pandemia.
“Le vite dei palestinesi nelle carceri israeliane sono in estremo pericolo alla luce della proliferazione della pandemia di coronavirus in Israele e della simultanea mancanza di protezione e attenzione per i prigionieri”, ha spiegato il giornalista palestinese-britannico Zaher Birawi. “Un’analisi delle pratiche degli amministratori della prigione mostra che esiste una tacita politica di incoraggiamento alla diffusione del virus. Ciò è inaccettabile e le istituzioni e gli enti regionali internazionali, come le Nazioni Unite, devono adottare misure tangibili per intervenire urgentemente per salvaguardare la vita di questi prigionieri prima che la situazione diventi incontrollabile”.
I palestinesi che vivono nella cosiddetta Area C nella Cisgiordania occupata non hanno accesso a un centro sanitario permanente. Costituendo il 61% della Cisgiordania, l’Area C è sotto il completo controllo civile e di sicurezza israeliano secondo la divisione amministrativa del territorio dei trattati di Oslo. Nell’area C vivono circa 300.000 palestinesi e vi si trovano la maggior parte delle risorse naturali e delle terre agricole della Cisgiordania.
All’inizio di quest’anno, i dati a cui ha avuto accesso l’ONG israeliana Bimkom hanno rivelato che dal 2000 sono state approvate solo il 3,75% delle domande di permesso di costruzione presentate dai palestinesi nell’area C. Ciò significa che mancano ancora di strutture sanitarie di base e di emergenza. I coloni israeliani che vivono nei 125 insediamenti e nei 100 avamposti illegali in tutta l’area C, godono però di servizi sanitari e infrastrutture mediche all’avanguardia. Non solo questi insediamenti sono completamente illegali, ma la loro presenza costringe anche i palestinesi a prendere percorsi alternativi intorno ai posti di blocco causandogli immensi ritardi quando cercano di raggiungere le cliniche più lontane. Inoltre, gli insediamenti impongono limiti all’accesso dei palestinesi alle risorse idriche e spesso perpetuano direttamente la crisi sanitaria attraverso attacchi casuali da parte di coloni sionisti contro i palestinesi e le loro proprietà.
Secondo un rapporto di Haaretz all’inizio di quest’anno, “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile per una squadra medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi che vivono all’interno di un poligono militare israeliano in Cisgiordania”.
Questo incidente e altri, come notato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), sono indicativi dell’inaccessibilità generale dell’assistenza sanitaria nell’area C ed è un prodotto della “pianificazione restrittiva del regime israeliano, che impedisce la costruzione delle strutture necessarie, nonché causa restrizioni prevalenti di accesso e di movimento, che impediscono la raggiungibilita’ dei principali centri di servizio.” Quindi, la capacità del sistema sanitario palestinese di rispondere a qualcosa come la pandemia di coronavirus è praticamente inesistente.
L’occupazione illegale di Israele aggrava la probabilità che il coronavirus, e altre malattie, possano proliferare nella Cisgiordania occupata, e al governo israeliano semplicemente non importa, nonostante i suoi obblighi come potere occupante secondo il diritto internazionale di rendere l’assistenza sanitaria accessibile ai palestinesi che vivono sotto la sua occupazione.
Fornire ai palestinesi in Cisgiordania 400 kit di test per il coronavirus, mentre si dice che l’agenzia di spionaggio del governo israeliano abbia “assicurato” 100.000 kit, è semplicemente inaccettabile, così come la mancata pubblicazione delle regole di prevenzione sul coronavirus in arabo per settimane e l’arresto di numerosi palestinesi per avere distribuito opuscoli di sensibilizzazione o fatto volontariato in zone estremamente emarginate di Gerusalemme. L’appello generale fatto dall’UNICEF a favore dei volontari e stato semplicemente respinto dalle autorità israeliane.
La pandemia di coronavirus dimostra ancora una volta il razzismo istituzionale di Israele, nonché le sue politiche e pratiche ingiuste che hanno un marcato effetto sulla vita dei palestinesi. Si spera che i palestinesi trovino fermezza e forza d’animo per far fronte a questa crisi, nonostante gli intralci interposti in questi posti di brutale occupazione israeliana.
La loro pericolosa situazione in tali circostanze dovrebbe davvero essere una questione di interesse globale.
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org