“Dobbiamo raccontare storie che sono diverse da quelle che ci fanno credere attraverso il lavaggio del cervello… Ricordate che un altro mondo non solo e’ possibile, ma e’ anche in procinto di cominciare” – Arundathi Roy
Di Yara Hawai – 24 Marzo 2020
Essendo sottoposti a un costante processo di rimozione, i Palestinesi si trovano in una situazione di impasse, in cui sia il loro passato che possibili scenari futuri vengono negati.
Sono come bloccati in un presente senza fine in cui la potenza coloniale, Israele, determina i confini temporali e spaziali.
I Palestinesi spesso chiamano questa esperienza “Nakba al mustamirrah”, o Nakba ininterrotta, in cui il dislocamento forzato, gli espropri e la distruzione avvengono su un continuum che sembra non avere fine.
È proprio questa continuità della Nakba che ha reso difficile per i Palestinesi pensare al futuro: sopravvivere a un presente che va di male in peggio, soprattutto sul territorio palestinese, rappresenta la priorità.
Questa riflessione mette in evidenza gli studi accademici sul colonialismo e l’immaginazione di futuri radicali, e successivamente identifica le diramazioni future che soffocano i Palestinesi.
Conclude con alcuni esempi di come i Palestinesi, nonostante la loro oppressione, continuano a immaginare in maniera radicale e reclamano un futuro costruito dalla collettività palestinese.
COLONIALISMO E PERCEZIONI DELLA REALTA’
Frantz Fanon scrisse che il colonialismo francese in Algeria “si sviluppò sempre a partire dal presupposto che sarebbe durato per sempre”, notando che “le strutture costruite, gli impianti portuali, gli aerodromi, e il divieto della lingua araba”, tutto dava l’impressione che una rottura dell’epoca coloniale sarebbe stata impossibile. Infatti, “ogni manifestazione della presenza francese era l’espressione di un continuo radicamento nel tempo e nel futuro algerino, e poteva essere interpretata come uno strumento di oppressione indefinita”. Visioni.
In modo simile, il regime di Israele crea “fatti compiuti” attraverso la costruzione continua di insediamenti nella Cisgiordania e l’appropriazione di terra lungo la Linea Verde, spostando costantemente i confini di quello che dovrebbe essere il territorio israeliano per favorire il regime coloniale degli insediamenti.
L’occupazione e i progetti coloniali dunque mirano a controllare le percezioni della realtà per vincolare la popolazione indigena sotto occupazione a uno stato di essere in apparenza perpetuo o, in altre parole, a un’immobilità normalizzata.
Immaginare un futuro al di la di questo stato è dunque un atto ribelle e radicale, e non è per nulla semplice.
L’OCCUPAZIONE E I PROGETTI COLONIALI MIRANO A CONTROLLARE LE PERCEZIONI DELLA REALTA’ PER VINCOLARE LA POPOLAZIONE INDIGENA SOTTO OCCUPAZIONE A UNO STATO DI ESSERE IN APPARENZA PERPETUO.
Lo studioso e pensatore indigeno Waziyatawin, scrivendo sull’occupazione a Turtle Island (Stati Uniti e Canada), spiega come sia difficile percepire una vita al di la della colonizzazione, soprattutto nel contesto della più grande e ultima super- potenza mondiale.
Per i Palestinesi, è anche difficile immaginare un futuro in cui la Nakba ininterrotta non sia una caratteristica della vita quotidiana.
Per esempio, molti Palestinesi trovano difficile immaginare un futuro in cui il diritto al ritorno venga realizzato, e in cui tutti i rifugiati e i Palestinesi possano godere di pieni diritti nella Palestina storica.
L’invito di pensare al di là dei confini spaziali e temporali che Waziyatawin rivolge agli Indigeni parla proprio di questa difficoltà:
“In qualità di Indigeni, è essenziale che noi comprendiamo la drammaticità della situazione globale, che riconosciamo la fallacia dell’idea dell’invulnerabilità della civilizzazione industriale, e iniziamo a immaginare un futuro al di la dell’impero e al di la degli stati-nazioni coloniali che ci hanno tenuti soggiogati”
Arjun Appadurai descrive l’immaginazione come un “campo organizzato di pratiche sociali, una forma di opera (nel duplice senso di lavoro fisico e di pratica culturale organizzata), e una forma di negoziazione tra siti di azione (individui) e campi globalmente definiti di possibilità. In altre parole, l’immaginazione rappresenta la fusione di percezioni individualizzate e socializzate di ciò che è possibile. E’ l’elemento collettivo che rende l’immaginazione diversa dalla fantasia.
Appadurai spiega la distinzione:
“L’idea di fantasia è inevitabilmente connotata dalla separazione fra pensiero, da un lato, e progetti e azioni, dall’altro. Essa ha anche una parvenza privatistica, se non addirittura individualistica. L’immaginazione, al contrario, racchiude al suo interno un senso di progettualità… soprattutto quando è collettiva, può diventare il carburante che alimenta l’azione. E’ l’immaginazione nelle sue forme collettive che crea idee di vicinato, di economie morali, e di governo ingiusto, di salari più alti e di opportunità per la manodopera straniera. L’immaginazione, oggigiorno, è la base per l’azione, non solo una via di fuga”.
Questa distinzione colloca l’immaginazione al di la dell’astratto, e nel regno della possibilità e dell’azione radicale. E’ anche importante notare che immaginare al di la dell’impero non è un ritorno al passato pre-invasione o, nel caso della Palestina, un ritorno al pre-1948. Si tratta piuttosto di un processo in cui vengono analizzate diverse modalità per smantellare il colonialismo e la sua oppressione e, al contempo, le diverse modalità per ripartire dopo la questo smantellamento. Questo è il lavoro di de-colonizzazione che deve accompagnare il lavoro di anti-colonizzazione che sfida e mette a dura prova il regime coloniale.
VISIONI SOPPRESSIVE DEL FUTURO
Non tutte le diramazioni future possono essere descritte come radicali o mirate alla decolonizzazione.
Gli scenari futuri della Palestina sono stati discussi a lungo o senza o con il limitato contributo dei Palestinesi, o attraverso cornici interpretative straniere, molte delle quali spesso intrinsecamente legate allo stato-nazione.
Oggi, molte idee politiche dominanti e immaginazioni degli scenari futuri mettono al primo posto il contenimento della popolazione indigena palestinese e la sicurezza dello stato coloniale.
Infatti, definire le problematiche che intercorrono fra Israele e Palestina come una guerra fra due gruppi nazionali piuttosto che come un progetto coloniale ha aiutato a privilegiare l’idea che la soluzione dei “due stati lungo i confini del 1967” fosse il futuro più appropriato e fattibile per gli Israeliani e i Palestinesi.
L’egemonia di questa idea dei due stati fu ulteriormente cementata quando la leadership palestinese la avallò implicitamente nel Programma in Dieci Punti dell’OLP del 1974, per poi diventare la sua posizione ufficiale all’inizio degli anni ’90 con gli Accordi di Oslo, nei quali venne anche suggerito un possibile lasso di tempo entro il quale si sarebbe dovuto formare lo stato palestinese.
Gli Accordi di Oslo spostarono in modo concreto il discorso e le politiche dell’OLP dalla liberazione e l’anticolonialismo alla creazione di uno Stato nella Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Questo cambiamento trasformò anche la società civile palestinese, che diventò largamente dipendente dal supporto di donatori esterni. Questo duplice cambiamento nella rappresentazione politica e nella società civile resero buona parte del processo di immaginazione collettiva palestinese legato a una specifica agenda politica. Salamanca e i suoi coautori pongono importanti domani retoriche inerenti a questo cambiamento:
Quando la battaglia in corso per la terra e il diritto al ritorno è diventata una situazione di “post- conflitto”? Quando Israele è diventato una società post-sionista? Quando gli abitanti indigeni della Palestina (della Galilea per esempio) sono diventati una “minoranza etnica”?
E quando la creazione dell’Autorità Palestinese e la successiva fortificazione delle riserve palestinesi sono diventati “costruzione dello stato”?
La cornice politica della battaglia anti-coloniale fu completamente capovolta, e il focus passò dalla liberazione collettiva al successo individuale, in particolare al guadagno monetario.
Inoltre, la limitazione della Palestina e dei Palestinesi alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza continua a marginalizzare i rifugiati, i Palestinesi della diaspora, e i Palestinesi cittadini di Israele, andando di fatti a considerare questi gruppi una questione di minore interesse o addirittura di nessun interesse.
Immaginazioni del futuro che si basano su questa cornice non solo escludono la maggioranza della popolazione palestinese; ma sono anche contingenti alla durata dell’entità di occupazione coloniale, e della sua immaginata eternità.
Questa facciata di permanenza, comune a tutti i progetti coloniali e di occupazione, determina il futuro all’interno dei confini coloniali.
Molte idee politiche dominanti e immaginazioni degli scenari futuri mettono al primo posto il contenimento della popolazione indigena palestinese e la sicurezza dello stato coloniale.
Uno degli argomenti principali a supporto di questo genere di futuro è la sua fattibilità. Coloro che detengono il potere determinano la fattibilità attraverso ciò che loro vedono come possibile, razionale e pratico.
Per esempio, ai Palestinesi viene costantemente detto che la soluzione dei due stati è l’unica possibile, e che dunque essi devono rinunciare ad alcuni diritti, incluso il diritto al ritorno.
Infatti, la violenza epistemica con cui i Palestinesi sono obbligati ad accettare alcune verità che negano la legittimità della loro voce e dei propri diritti è ampiamente diffusa a livello accademico, mediatico e politico.
Richard Falk, scrivendo sul futuro palestinese, mette in dubbio l’argomento della fattibilità per giustificare la soluzione a due stati, sostenendo che questa soluzione è caratterizzata al contrario da molti punti morti:
…gli orizzonti della fattibilità limitano le scelte palestinesi a due: o accettare un ulteriore giro di negoziazioni che quasi certamente sono destinate a fallire, o rifiutare queste negoziazioni ed essere considerati colpevoli di ostacolare i tentativi di pace.
Falk sostiene che bisognerebbe liberare l’immaginazione morale e politica riconoscendo la “necessità di una pace giusta con dignità, e facendo questo, concentrarsi ben al di la degli orizzonti del desiderio”.
Tuttavia liberarsi dai confini della fattibilità non è semplice, soprattutto quando essi sono stati a lungo racchiusi nel lessico e nella vita quotidiana palestinese.
IMMAGINAZIONE RADICALE PALESTNESE
Tuttavia, gli individui e i piccoli gruppi di Palestinesi provenienti da tutti i frammenti della società palestinese hanno provato a immaginare un futuro in modi diversi e radicali. Non è una sorpresa che molti di questi immaginari si focalizzano sul diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, a prescindere dal fatto che coloro che immaginano questi futuri siano o meno rifigurati essi stessi.
Uno dei pensatori più prominenti in questo ambito è Salman Abu Sitta, il cui lavoro cartografico dimostra la fattibilità del ritorno attraverso un approccio empirico spaziale e demografico. Valutando la terra e le persone, Abu Sitta dimostra che c’è abbastanza terra da ospitare al contempo i rifugiati palestinesi di ritorno e i cittadini israeliani. Egli organizza il ritorno in un processo a scaglioni composto da sette fasi, basato sulla distribuzione regionale e un piano di costruzione abitativa.
Abu Sitta prende la nozione di ritorno che è quasi sempre stata usata a livello teorico-discorsivo negli ambienti palestinesi, e ne crea un piano d’azione tangibile. Benché’ molti possano non essere d’accordo con le modalità del processo , esso mostra che ci sono comunque dei modi in cui può essere realizzato.
Un altro progetto futuro improntato sullo spazio è il Decolonizing Architecture Art Residency (DAAR), con sede a Beit Sahour, vicino Betlemme.
Si tratta di un progetto di collaborazione tra “persone locali e internazionali, e tra artisti e architetti” e considera la decolonizzazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da una prospettiva architettonica, immaginando la demolizione degli insediamenti con la successiva restituzione della terra ai Palestinesi.
Gli studiosi del progetto si focalizzano anche sul ritorno dei rifugiati e sostengono che “ritorno e decolonizzazione sono concetti interconnessi – non possiamo pensare al ritorno senza la decolonizzazione, così come non possiamo pensare alla decolonizzazione senza ritorno”.
Il lavoro mira a incastonare l’architettura nell’immaginario culturale collettivo del futuro. Benché’ il lavoro di Decolonizing Architecture sia limitato ai confini territoriali post 1967- più precisamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza – per ragioni di focus, non si riduce ideologicamente alle limitazioni geografiche dei “Territori Palestinesi Occupati”, ma concepisce la Palestina nella sua completezza storica.
Molti gruppi di giovani palestinesi discendenti da rifugiati interni (i muhajjareen) nei Territori Palestinesi del 1948 stanno anche prendendo parte al processo di immaginazione radicale dei loro villaggi distrutti.
I rifugiati interni costituiscono un terzo dei cittadini palestinesi di Israele, e molti di loro vivono vicino ai villaggi dai quali i loro nonni e genitori furono cacciati nel 1948. Lo Stato di Israele impedisce loro di tornare nella loro terra ancestrale, attraverso vari meccanismi legali, incluso ordini militari.
Gli immaginari futuri radicali dei Palestinesi non solo propongono una contro-narrativa; messi insieme, possono rappresentare il trampolino di lancio per la liberazione.
Alcuni gruppi, per esempio, mantengono una presenza fisica sul territorio dei loro villaggi distrutti edificando rifugi e tende, come per esempio a Iqrith e Kufr Bir’am.
Le autorità israeliane bloccano la suddetta presenza in modo costante, dichiarandola illegale per paura possano creare un precedente per gli altri rifugiati interni.
Altri rifugiati interni hanno ricostruito i loro villaggi attraverso modelli e simulazioni computerizzate, tenendo conto non solo del loro ritorno ma anche di quello dei loro parenti che fuggirono verso gli Stati limitrofi nel 1948, basandosi sulla nozione di Abu Sitta di creare un piano d’azione di ritorno.
Questi sono solo alcuni esempi di immaginari futuri radicali. Essi non solo propongono una contro-narrativa; messi insieme, possono rappresentare il trampolino di lancio per la liberazione. Eppure molti di questi progetti e iniziative sono disgiunte e non continue.
Una delle ragioni per cui questo avviene è da ricondurre sicuramente alla frammentazione geografica, sociale e politica dei Palestinesi, che allo stesso modo ostacola la loro capacità di stringersi attorno a un consenso politico per la liberazione. La sfida non è solo quella di immaginare, ma di farlo in modo collettivo.
Nel suo pezzo finale per “The Guardian”, l’editorialista Gary Younge ha scritto: “Immagina un mondo in cui potresti prosperare, del quale non c’è alcuna evidenza. E poi combatti per esso”.
Nel mondo di oggi, in cui gli scenari futuri continuano a essere scritti per i Palestinesi – l’ultimo caso quello dell’amministrazione Trump – è vitale combattere per un futuro costruito dai Palestinesi.
Yara Hawari è la Senior Palestine Policy Fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha completato il suo dottorato di ricerca in Politica mediorientale presso l’Università di Exeter, dove ha insegnato in vari corsi di laurea e continua a essere una ricercatrice onoraria. Oltre al suo lavoro accademico incentrato su studi indigeni e storia orale, è anche una commentatrice politica che scrive per vari media tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera English.
Trad: Rossella Tisci – Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org