Mappe, tecnologia e pratiche spaziali decoloniali in Palestina.

Le mappe ebraiche erano e continuano ad essere  un documento vivente della colonizzazione sionista in cui l’ideologia è applicata alle pratiche spaziali dello Stato israeliano.

Fonte – English version

di Zena Agha – 14 gennaio 2020

Immagine di copertina: mappe sulla partizione della Palestina

Panoramica

La pratica della mappatura in Palestina-Israele è stata a lungo un esercizio di potere, imperialismo ed espropriazione. Dal mandato britannico fino ai giorni nostri, i cartografi sionisti (in seguito israeliani) hanno usato le mappe per offuscare ed eradicare i marcatori fisici, geografici e sociali delle connessioni  tra i palestinesi e il possesso della terra.

Negli ultimi decenni l’avvento della tecnologia Global Positioning System (GPS), il software Geographic Information Systems (GIS) e un numero crescente di satelliti per il telerilevamento hanno consentito una mappatura accurata e completa del territorio della Palestina. Invece, gli editori di immagini satellitari, incluso Google, continuano a offuscare la presenza della Palestina pubblicando immagini a bassa risoluzione, suggerendo ai palestinesi opzioni di percorso errate, etichettando luoghi con nomi imprecisi e/o ebraici o semplicemente lasciando vuoti i territori abitati dai palestinesi – una terra nullius pixelata.

Questo documento politico esamina i vari modi in cui i palestinesi sono stati esclusi dalle mappe della propria terra, dall’inizio del mandato britannico ai giorni nostri. Sostiene che località mal mappate alterano il modo in cui i palestinesi comprendono lo spazio e li alienano dalla loro patria. Esamina anche mappe alternative e sovversive come modo per riconoscere il passato, valutare il presente e immaginare il futuro. Conclude che le mappe, sebbene intrinsecamente legate al colonialismo sia britannico che israeliano, e utilizzate costantemente come veicoli di cancellazione, possono essere rivendicate come espressioni dell’immaginazione geografica e come mezzo di resistenza.

La cartografia coloniale

Nonostante le loro pretese di realismo matematico, le mappe moderne non riflettono semplicemente la realtà: creano e incorporano una particolare percezione della terra su cui viviamo. Le linee tracciate su una mappa separano i Paesi dagli oceani e gli uni dagli altri. L’area tra le linee rappresenta le costruite entità sociopolitiche dello spazio sovrano: gli Stati nazionali. Nonostante il processo di formazione e disintegrazione dello Stato in luoghi come la Palestina, il Sudan e il Tibet, nell’ordine internazionale gli Stati nazionali sono accettati come entità fisse. Nelle proiezioni cartografiche contemporanee, che rappresentano la superficie tridimensionale della Terra su un piano bidimensionale, gli Stati nazionali vengono rappresentati come marcatori definitivi, oggettivi ed evidenti della realtà politica – una rappresentazione rafforzata dagli utenti che interagiscono con le mappe politiche come una perfetta rappresentazione in scala dello spazio.

Negli ultimi decenni, le proiezioni globali, in particolare l’onnipresente proiezione cilindrica di Mercatore, sono state criticate per il loro Eurocentrismo. La mappa standard del mondo posiziona l’emisfero nord in cima, con l’Europa saldamente al centro. La proiezione di Mercatore, in particolare, distorce le dimensioni relative dei continenti, riducendo drasticamente l’Africa e il Sud America e facendo apparire l’Europa, il Nord America, l’Australia e in particolare la Groenlandia molto più grandi di quanto non siano in realtà.

Le odierne mappe del mondo rappresentano ancora moltissimo le visioni coloniali e nazionaliste e riflettono l’acquisizione e il controllo prevalentemente occidentale del territorio. Le mappe intese come strumenti di navigazione si sono rapidamente evolute nel modo con cui la Terra e le sue risorse sono state divise artificialmente tra le potenze coloniali. Solo contenendo la diversità in singole aree delimitate, il controllo poteva essere prima esercitato, quindi consolidato e mantenuto. Come sostiene Paul Carter, le mappe erano “il geroglifico dell’intento dell’imperialismo di separare e classificare la diffusione della superficie terrestre al fine di occupare i suoi territori e comandarne le risorse”.

 Le odierne mappe del mondo rappresentano ancora moltissimo le visioni coloniali e nazionaliste e riflettono l’acquisizione e il controllo prevalentemente occidentale del territorio.

Ciò è coerente con le mappe del moderno Medio Oriente disegnate durante e poco dopo la prima guerra mondiale dalle potenze imperiali britanniche e francesi, incarnate dall’accordo Sykes-Picot del 1917 e dalla conferenza di Sanremo del 1920. Le nuove mappe  disegnate da attori europei trasformarono una regione che un tempo era costituita da unità amministrative ottomane territorialmente fluide in un insieme sconnesso di territori segnati da lunghe linee diritte da cui scaturivano i nuovi protettorati di Iraq, Transgiordania, Palestina, Libano e Siria. Queste nazioni furono dotate di monarchie imperiali appena coniate e inserite  all’interno di un sistema di mandato paternalistico.

Le mappe coloniali britanniche durante il Mandato sulla Palestina

In “Cultura e Imperialismo”, Edward Said spiega la “lotta per la geografia” “non solo come una lotta  di soldati e cannoni, ma anche di idee, forme, immagini e immaginazione”.

In quest’ottica, la seconda metà del diciannovesimo secolo ha visto una raffica di esplorazioni orientaliste della Palestina da parte di europei che conducevano studi e indagini storiche, linguistiche, geografiche e archeologiche, specialmente in aree di significato biblico e religioso. Contrariamente alle mappe religiose medievali e del primo periodo modernista, che tipicamente riportano creature mitiche e nomi di luoghi biblici, i moderni esploratori / cartografi europei sostenevano che il realismo e l’accuratezza delle loro mappe si basava su  metodi “scientifici” .

Mentre il mandato britannico sulla Palestina entrò in vigore nel 1922, il governo britannico si era già preparato per il dominio sulla Palestina decenni prima. Dal 1871 al 1877, il Britain’s Palestine Exploration Fund condusse una vasta indagine sulla Palestina occidentale. Sebbene la spedizione fosse guidata da figure religiose e accademiche, vi fu un coinvolgimento diretto del governo che, si sostiene, usò queste innocue associazioni  “come un fronte per … raccogliere informazioni sulla regione”. Il rapporto prodotto risultò essere l’inchiesta di gran lunga più precisa e tecnologicamente sofisticata ancora fino ad oggi, e durante la  prima guerra mondiale fu usata come supporto alla pianificazione militare durante l’invasione britannica della Palestina. La sua portata si concentrava sul territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo,  un’area che 50 anni dopo sarebbe rientrata quasi esattamente nei confini del mandato britannico in  Palestina.

Figura 1: Peel Commission Partition Plan, 1937

Durante il mandato britannico, le forze coloniali produssero una serie di indagini dettagliate per la pianificazione militare, politica, sociale ed economica. La distribuzione geografica e l’attività degli abitanti arabi indigeni della Palestina erano raramente rappresentate sulle mappe. Ad esempio, in seguito alla Grande Rivolta Araba (1936-39) in Palestina, la Commissione Peel, incaricata di trovare una “soluzione” ai disordini e che per la prima volta raccomandò di dividere la Palestina, nel 1937 usò le mappe per dimostrare i diversi possibili piani di partizione tra arabi ed  ebrei ignorando la realtà demografica sul terreno (Figura 1).

La lingua geografica delle mappe britanniche era quasi interamente composta da nomi arabi traslitterati, specialmente nei luoghi significativi per la tradizione cristiana. Il British Mandatory Survey of Palestine preparato negli anni ’40 divenne la mappa canonica della Palestina, raffigurata come una singola unità amministrativa. In essa furono utilizzati migliaia di nomi di luoghi arabi.  Questa divenne una grande fonte di tensione con la leadership sionista, che nelle pubblicazioni ufficiali del governo insistette sull’inclusione dei nomi dei luoghi ebraici (ovunque esistessero) accanto alle designazioni arabe e / o inglesi. L’eliminazione dei nomi arabi e la loro sostituzione con i nomi ebraici divenne la pietra angolare della politica spaziale sionista dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948, e continua ancora oggi.

La cartografia dei primi sionisti

Sulla scia del Primo Congresso Sionista a Basilea del 1897 e della prima Aliyah, o ondata di immigrazione ebraica europea dal 1881 al 1903, le mappe sioniste iniziarono a proliferare, molte con marcatori topografici e religiosi progettati per ridisegnare la mappa nell’immagine del progettato stato sionista. In particolare, Keren Hayesod, il settore di raccolta fondi del movimento sionista, e il Jewish National Fund (JNF), un’organizzazione dedicata all’acquisizione e allo sfruttamento di terre palestinesi per esclusivo insediamento ebraico, usarono le mappe per far avanzare la colonizzazione sionista della Palestina.

Figura 2: mappa di Keren Hayesod, 1932

La Figura 2 è una mappa del 1932 che Keren Hayesod usò come strumento di raccolta fondi per sollecitare donazioni dalla comunità ebraico-americana. Una facciata del documento vanta i risultati del Keren Hayesod, mentre la mappa sul retro raffigura in rosso la costa mediterranea e la regione settentrionale per indicare ciò che la legenda designa come “terre ebraiche”. Gerusalemme è contrassegnata dalla Stella di David, mentre le località palestinesi sono limitate a una manciata di centri urbani. La popolazione nativa è raffigurata, in un chiaro esempio di orientalismo, da quattro figure abbozzate che sovrapposte al deserto cavalcano il dorso di un cammello. Altre figure mostrano operai ebrei accanto ai nuovi centri agricoli e industriali. Questa giustapposizione illustra benissimo l’affermazione di Ella Shohat secondo cui i sionisti europei si  raffiguravano come quelli che “facevano la storia”, mentre i nativi formavano un “background quasi inorganico”.

La figura 3 è una mappa JNF (una delle tante) che in ebraico raffigura nuovi insediamenti tra il 1936 e il 1940. I nomi degli insediamenti pre-statali furono scelti in base a riferimenti biblici / talmudici o in commemorazione di figure sioniste, rendendo la storia biblica ebraica parte integrante della geografia del moderno espansionismo sionista. I modelli di insediamento nelle regioni costiere e settentrionali assomigliano a quelli della Figura 2 e la mappa non presenta quasi nessuna località palestinese. I fiorenti centri commerciali e agricoli palestinesi in quella che oggi viene definita la Cisgiordania sono vacanti, con solo Gerusalemme e la strada Gerusalemme-Gerico prive di qualsiasi presenza palestinese.

Figura 3: Mappa del Fondo nazionale ebraico, ~ 1940

La cancellazione della popolazione indigena palestinese dalla terra rafforzò il famigerato  motto sionista secondo cui la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Questo era, ovviamente, un errore. La Palestina, alla fine del diciannovesimo secolo, aveva una popolazione di circa 600.000 abitanti ed era attiva dal punto di vista agricolo ed economicamente e politicamente impegnata.

La creazione delle mappe ebraiche

Sulla scia della Nakba del 1948 –  ovvero la perdita della patria palestinese e lo sfollamento di 750.000 palestinesi dalle loro case – il nuovo stato di Israele iniziò a trasformare la mappa nazionale, passando dall’arabo all’ebraico come ulteriore modo di costruire una nazione sionista . I nomi ebraici furono apposti su tutte le caratteristiche geografiche al fine di fondere la storia ebraica biblica con il controllo territoriale. L’obiettivo finale era quello di rendere l’ebraico l’unica lingua attraverso cui comprendere il paesaggio, cancellando così le esperienze e le storie degli abitanti originali.

Il primo Primo Ministro israeliano, David Ben-Gurion, comprese che i nomi dei luoghi non erano semplicemente una scelta linguistica, ma un’espressione di relazioni di potere, e nel luglio 1949 riunì una commissione per ” determinare i nomi ebraici in tutti i luoghi, montagne, valli, sorgenti , strade e simili nella zona del Negev. ” In otto mesi, la regione della Beer Sheba nel sud fu trasformata nel “Negev”, operazione che culminò nell’agosto 1950 con la pubblicazione di una mappa ebraica della zona. Ciò fu fatto raccogliendo nomi di luoghi dalle mappe coloniali britanniche, traducendo i nomi arabi esistenti e collocando questi nomi in un contesto biblico / religioso e storico per dare loro autenticità.

L’ebraicizzazione della regione di Beer Sheba fu considerata come una prova essenziale per rafforzare la sovranità israeliana sul territorio appena acquisito. Ben-Gurion  elogiò la commissione:

“Avete bandito la vergogna dell’estraneità e di una lingua aliena da metà del territorio israeliano e avete completato il lavoro iniziato dalle forze di difesa israeliane: liberare il Negev dal dominio straniero. Spero che continuerete il vostro lavoro fino a quando non riscatterete l’intera area della Terra di Israele dal dominio della lingua straniera”.

L’ebraicizzazione dei nomi dei luoghi divenne successivamente un progetto nazionale sponsorizzato dallo stato. La Governmental Names Commission fu istituita nel marzo del 1951 per dare “nomi ebraici a tutti i luoghi con nomi arabi” e assegnare nomi ai luoghi appena creati. Un decennio dopo la creazione dello stato, la commissione aveva assegnato circa 3.000 nuovi nomi, mentre i nomi dei villaggi palestinesi furono simultaneamente rimossi dall’indice ufficiale di Israele. Come afferma il rapporto della Commissione del 1958: “Fintanto che i nomi non compaiono nelle mappe,(i palestinesi)  non possono impossessarsi della terra “.

Nel frattempo, Ben-Gurion e la commissione comunicarono i nomi dei luoghi in ebraico a istituzioni, agenzie e organizzazioni ufficiali e non ufficiali. All’esercito israeliano fu ordinato di usare e distribuire i nuovi nomi, e il Ministero della Pubblica Istruzione fu incaricato di utilizzare nelle scuole i nomi ebraici e scartare quelli arabi. I nomi ebraici furono anche diffusi e promossi da varie agenzie governative, come il dipartimento dei lavori pubblici, nonché dai media.

L’ebraicizzazione della mappa mostra un atteggiamento paradossale nei confronti della lingua araba. Da un lato, fu accusata di essere straniera e aliena, mentre dall’altro era considerata il segno indiscusso di autenticità e indigenezza. I palestinesi possedevano un rapporto intimo e una profonda conoscenza del paesaggio a causa della loro continua presenza sul territorio nel corso dei secoli. Si presumeva quindi che i nomi di luoghi arabi contemporanei avessero preservato gli antichi nomi e tradizioni dei tempi biblici. Per la commissione, divennero un indizio per il passato, influenzando il modo in cui furono scelti i nomi ebraici. La commissione tradusse direttamente il significato dei nomi arabi o, se i loro suoni erano simili all’ebraico, se ne appropriò dando loro un’inflessione ebraica.

La mappa ebraica è ancora in fase di elaborazione oltre la Linea Verde (che delinea la Linea dell’Armistizio del 1949) a Gerusalemme Est, Cisgiordania, Striscia di Gaza e Golan siriano occupato. Nonostante il fatto che gli insediamenti violino l’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, nel 1967 la Commissione dei nomi governativi   scelse dei soprannomi per gli insediamenti illegali per garantire l’uniformità linguistica su entrambi i lati della Linea verde. Ciò dimostra la natura tutt’ora in corso del progetto di costruzione dello stato israeliano, uno stato che, sin dal suo inizio, ha cercato di controllare la massima quantità di terra con il numero minimo di palestinesi.

Oggi, le mappe della Cisgiordania descrivono un vertiginoso mosaico di designazioni politiche e militari secondo le aree A, B e C create dagli Accordi di Oslo. Queste spesso creano sovrapposizioni tra insediamenti illegali e aree costruite palestinesi, nonché tra posti di blocco e blocchi stradali. Le mappe prodotte da organismi di controllo come l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari sono a più livelli, contorte e spesso illeggibili per il profano. Fondamentalmente, qualsiasi mappa del Territorio Palestinese Occupato (OPT) è obsoleta non appena viene emessa, poiché quando gli insediamenti ebraico-israeliani aumentano, le terre palestinesi vengono isolate e le barriere vengono espanse o trasferite. Mentre le mappe all’interno della Linea Verde ritraggono Israele come un’entità geografica fissa e omogenea, le mappe al di là di essa rappresentano una realtà geografica instabile e incompiuta  nella quale Israele continua a manipolare, controllare e annettere la terra.

Pertanto, le mappe ebraiche sono  e continuano ad essere un esercizio di formazione statale, un documento vivente della colonizzazione sionista in cui l’ideologia sionista è piegata alle pratiche spaziali dello stato israeliano. Questo è ciò che intende il cartografo palestinese Salman Abu Sitta quando afferma che i palestinesi sono stati ” cancellati  dalle mappe”.

La tecnologia come occasione mancata

I progressi tecnologici degli ultimi due decenni hanno radicalmente modificato il modo in cui gli uomini interagiscono con lo spazio. Dal lancio del satellite IKONOS nel  1999, il grande pubblico ha potuto accedere a dettagliate immagini della Terra, un privilegio precedentemente riservato ai governi. La rapida democratizzazione e proliferazione delle immagini satellitari, sia open source che commerciali, tra cui Google Earth, WorldView di DigitalGlobe e Planet, ha inaugurato una nuova era.

I dati geospaziali ad alta risoluzione sono utilizzati per la difesa, la trasparenza e l’analisi in una miriade di cause diverse, dal tracciamento dei cambiamenti climatici al monitoraggio della povertà e dei conflitti globali fino a facilitare il soccorso in caso di calamità e preservare il patrimonio culturale. Gruppi come Amnesty International e Human Rights Watch, nonché i media, usano i dati geospaziali per testimoniare e valutare le violazioni dei diritti umani a livello internazionale.

 Le mappe ebraiche erano e continuano ad essere un esercizio di  costruzione statale, un documento vivente della colonizzazione sionista in cui l’ideologia è applicata alle pratiche spaziali dello stato israeliano.

Le immagini satellitari sono spesso descritte come obiettive, precise e autorevoli – e quindi sono generalmente depoliticizzate e raramente messe in discussione. Tuttavia, proprio come le mappe cartacee, le immagini satellitari (e gli usi a cui sono destinate) sono ancora vulnerabili ai pregiudizi sociali e politici dei cartografi che possono ostacolarne il potenziale impatto progressivo. Ciò è particolarmente evidente nel caso di Google e delle sue spinose relazioni con la Palestina.

Un rapporto 2018 di 7amleh, l’ Arab Center for Social Media Advancement, sostiene che Google Maps è al servizio degli interessi del governo israeliano nel facilitare  i suoi tentativi di sottrarsi alle sue responsabilità nell’ambito dei quadri internazionali sui diritti umani verso la popolazione occupata. Il rapporto sottolinea come  le rotte di Google Maps siano progettate “solo per gli israeliani e per i coloni israeliani illegali e possono essere pericolose per i palestinesi”. Il software calcola automaticamente le rotte partendo dal presupposto che l’utente sia il titolare di un documento di identità israeliano e quindi in grado di utilizzare strade per soli israeliani e trascura le centinaia di posti di blocco, i blocchi stradali e le barriere che limitano la libertà di movimento palestinese.

Anche la definizione  e la denominazione dei luoghi sono una questione controversa. Nonostante Israele non abbia mai dichiarato i suoi confini, Google gli attribuisce una denominazione e un confine come se fosse un blocco incontestato di territorio, con Gerusalemme contrassegnata come capitale, ignorando il suo status riconosciuto a livello internazionale.Contemporaneamente, molte località palestinesi vengono  minimizzate o completamente cancellate, compresi i villaggi beduini che non sono riconosciuti dallo stato israeliano, così come i villaggi palestinesi all’interno dell’Area C della Cisgiordania controllata da Israele. Significativamente, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza (esclusi gli insediamenti israeliani illegali) non appaiono come parte di alcun Paese o Stato, poiché la Palestina non è etichettata come tale. Infatti, Google nel 2016  fu sottoposto a  una ”tempesta di fuoco” a causa di un bug che aveva rimosso i nomi della West Bank e della Striscia di Gaza dalla sua mappa, provocando una petizione intitolata “Google: Put Palestine On Your Maps!” (Google, metti la Palestina nelle tue mappe!), petizione che aveva raccolto oltre 615.000 firme.

L’enfasi di Google sulle località israeliane, illegali o meno, si ritrova anche in Google Street View, che copre la maggior parte di Israele e dei suoi insediamenti illegali, nonché della Città Vecchia di Gerusalemme occupata da Israele. Al contrario, gran parte della Palestina rimane inaccessibile, ad eccezione delle città palestinesi di Gerico, Betlemme e Ramallah e di alcuni punti della Striscia di Gaza.

Inoltre, come conseguenza diretta della politica del governo degli Stati Uniti, Google Earth è legalmente tenuto a limitare l’accesso alle immagini di Palestina-Israele. La legislazione bipartisan approvata dalla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti nel 1997 limita la qualità delle immagini satellitari di Palestina-Israele disponibili al pubblico attraverso piattaforme basate negli Stati Uniti come Google Earth e Bing Maps. L’emendamento Kyl-Bingaman (KBA) del National Defense Authorization Act degli Stati Uniti limita la disponibilità di immagini satellitari ad alta risoluzione impedendo agli operatori satellitari e ai rivenditori  statunitensi di vendere o diffondere immagini di Palestina-Israele a una risoluzione superiore a quella disponibile  nel mercato non statunitense. Mentre il KBA si applica solo alle società statunitensi, l’egemonia che gli Usa detengono nel mercato commerciale delle immagini satellitari ha, fino a poco tempo fa, portato all’istituzionalizzazione di fatto di tale legislazione a livello globale, incidendo sull’accesso alle immagini  di attivisti, organismi di monitoraggio e ricercatori di  tutto il mondo.

Sebbene la legge sia stata ideata  con il pretesto di proteggere la sicurezza di Israele,  la si potrebbe definire come censura, poiché le immagini di Palestina-Israele sono limitate a una risoluzione di due metri. Come dimostrano Fradley e Zerbini,  sfocando deliberatamente le immagini satellitari di Palestina-Israele, la KBA ostacola il lavoro di archeologi, ambientalisti, geografi e operatori umanitari. In effetti, le immagini a bassa risoluzione impediscono gli sforzi umanitari di documentare le violazioni dei diritti umani, come l’occupazione  di terre, le demolizioni di case e le attività di insediamento e mina le rivendicazioni palestinesi della terra. Inoltre ostacola la valutazione dei danni causati da conflitti in aree densamente abitate  e difficili da raggiungere come la Striscia di Gaza, come per esempio durante la Grande Marcia del Ritorno a partire dal marzo 2018.

I palestinesi hanno sfidato direttamente questa censura ottenendo le proprie immagini aeree a una risoluzione superiore rispetto a quelle offerte da Google attraverso tecniche “fai da te”, come ad esempio collegando fotocamere digitali ad aquiloni o palloncini. Questo metodo è stato usato per documentare la costruzione dell’autostrada a sei corsie che taglia il quartiere palestinese di Beit Safafa a Gerusalemme e i suoi effetti sulla popolazione locale.

Legislazioni dannose come la KBA, così come la complicità delle aziende tecnologiche nel privilegiare il controllo spaziale israeliano a spese dei palestinesi, rappresentano un’occasione mancata per utilizzare i progressi tecnologici per democratizzare la mappatura.  Si è invece preferito creare un “onnipresente meccanismo di censura”.

La contro-mappatura decoloniale

La decolonizzazione delle mappe è un processo che comporta il riconoscimento dell’esperienza dei soggetti colonizzati (i palestinesi) da un lato e la documentazione e l’esposizione dei sistemi e delle strutture coloniali (espansionismo sionista) dall’altro.

La decolonizzazione richiede ciò che David Harvey chiama “l’immaginazione geografica” , che collega l’immaginazione sociale con una coscienza material-spaziale. Dal 1948, i palestinesi si sono aggrappati alla memoria di case e villaggi distrutti attraverso la creazione di atlanti, mappe, memorie, opere d’arte, libri, storie orali e siti Web. Il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e degli sfollati interni non è solo una soluzione politica, ma il primo passo di un processo di decolonizzazione. Il ritorno, come “contrappunto all’esilio”, solleva domande critiche e pratiche come: Che aspetto ha il ritorno? Cosa costruiamo e dove? Chi costruirà cosa?

 La complicità delle aziende tecnologiche nel privilegiare il controllo spaziale israeliano rappresenta un’occasione mancata per utilizzare i progressi tecnologici per democratizzare la mappatura.

Sebbene vi siano valide critiche sul fatto che le contro-mappe riproducano e incorporino le pratiche territoriali e spaziali esclusive esistenti, i continui sforzi di contro-mappatura dimostrano come i palestinesi e i loro  alleati stiano creando una cartografia decolonizzata al di là della semplice (ri) affermazione di linee su una mappa esistente. Piuttosto, questi sforzi traducono le memorie personali e collettive in termini spaziali e le incorporano in un quadro giuridico e politico. Il saggio di Walid Khalidi del 1992 “All that Remains”, classifica ogni villaggio palestinese distrutto con immagini e informazioni demografiche. Allo stesso modo, Salman Abu Sitta, fondatore della Palestine Land Society, ha elaborato un piano globale per il ritorno usando le mappe ed  evidenziando come  molti villaggi distrutti non siano  stati ripopolati e possano quindi accogliere il ritorno dei loro abitanti. Inoltre, il suo “Atlas of Palestine” (2010) è una memoria storica della Palestina pre-Nakba, metodicamente stilato utilizzando immagini aeree su una scala di 1: 25.000.

La tecnologia può servire come strumento per immaginare tangibilmente il diritto al ritorno. Mappe storiche dettagliate e immagini ad alta risoluzione non censurate consentono ai palestinesi di catalogare i resti di villaggi e città distrutti durante la Nakba. Tali immagini non solo forniscono una prova sostanziale dell’occupazione  coloniale in terra palestinese, ma consentono ai palestinesi di immaginare attivamente una realtà alternativa.

L’ONG israeliana Zochrot cerca di far conoscere la Nakba palestinese al pubblico israeliano. Uno dei suoi numerosi progetti è iNakba, un’app interattiva creata nel 2014 e ad oggi scaricata da oltre 40.000 persone. iNakba ha catalogato oltre 600 città e villaggi palestinesi che sono stati distrutti durante la Nakba fornendo immagini, testo – in arabo, ebraico e inglese – e, soprattutto, le coordinate di Waze e Google Map per mostrare agli utenti come arrivarci e poter quindi  aggiungere essi stessi ulteriori informazioni.

La creatrice di iNakba, Raneen Jeries, ha  dichiarato che l’app ha lo scopo di commemorare l’eredità e l’identità palestinese e di far valere il diritto al ritorno: “Abbiamo riportato i villaggi palestinesi sulla mappa e ora cerchiamo di restituirli ai   rifugiati palestinesi”, ha affermato. “È potente perché è interattiva … Se ti trovi nel campo profughi di Ein El Hilwa, in Libano, puoi essere aggiornato sul tuo villaggio in Palestina, riportato in vita. ”

Zochrot facilita anche i progetti relativi al diritto al ritorno. Ad esempio, il progetto di Participatory Action Research del 2010, Counter Mapping Return, aveva provato a immaginare le possibilità spaziali e le insidie ​​del diritto al ritorno in un villaggio distrutto, Miska, nella regione di Tulkarem. I palestinesi e i partecipanti ebrei crearono una mappa alternativa globale su più livelli che cancellò le attuali politiche discriminatorie. Identificarono come primo passo il riconoscimento della distruzione personale e collettiva causata dalla Nakba.

Nel 2018 il lancio di Palestine Open Maps (una collaborazione tra Visualising Palestine e Columbia University Studio-X Amman) fu il primo progetto di mappatura open source basato su mappe storiche del periodo del mandato britannico. Le mappe, dettagliate a più livelli, narrano storie visive “che danno vita a geografie assenti e nascoste” e consentono agli utenti di esplorare il paesaggio palestinese pre-Nakba. Palestine Open Maps esegue anche mappe che consentono agli utenti di estrarre dati dalle mappe del periodo del Mandato (così come fanno altre organizzazioni, come per esempio la  ONG Rebuilding Alliance con sede negli Stati Uniti).

Allo stesso tempo, i palestinesi stanno usando la tecnologia per creare i propri servizi di mappatura indipendenti. Doroob Navigator, per esempio, lanciato nell’estate del 2019, raccoglie in crowdsource dai suoi utenti i  blocchi stradali e i dati sul traffico e consente ai conducenti palestinesi nei Territori Occupati di conoscere il traffico ai posti di blocco e di programmare  i percorsi che possono seguire.

Questi progetti, tra cui la Gaza War Map e la Decolonizing Art and Architecture Residency e Forensic Architecture, consentono ai palestinesi di opporsi e di sovvertire il discorso egemonico affermando una visione alternativa di liberazione e di ritorno in termini spaziali e cartografici. Queste iniziative sono spesso rafforzate, o giustapposte, a tentativi palestinesi  di tornare veramente nei villaggi distrutti. Ad esempio, gli abitanti sfollati interni di alcuni villaggi tra cui Iqrit, Al-Walaja e Al-Araqib tornarono decenni dopo la loro espulsione iniziale nonostante il rischio di repressione violenta  e di demolizione da parte di Israele. Altri sforzi simbolici, come la Grande Marcia del Ritorno a Gaza dal 2018 ad oggi, ne sono un altro esempio.

Sfidare i guardiani  delle mappe

La cartografia è stata a lungo un’ arma ulteriore  nell’arsenale del colonizzatore: uno strumento utilizzato per l’acquisizione, il controllo e la cancellazione del territorio. Come afferma lo scienziato politico israeliano Meron Benvenisti, “La conoscenza cartografica è potere: ecco perché questa professione ha legami così stretti con i militari e la guerra”. Nel caso della Palestina, i cartografi britannici e sionisti hanno lavorato per rimuovere le tracce palestinesi dal paesaggio. Il decennio successivo al 1948 trasformò la cartografia del territorio, con la creazione di una mappatura che cancellò centinaia di anni di vita e storia palestinese.

 La tecnologia può servire come uno strumento per immaginare in modo tangibile il diritto al ritorno dei palestinesi.

Per i rifugiati palestinesi, la maggior parte dei quali non ha la possibilità di visitare i propri villagi, per non parlare poi di tornare alla terra da cui sono stati espulsi loro o i loro antenati, la censura rafforza la separazione dalla loro patria confinandola a una sfera virtuale. Nonostante la tecnologia offra la possibilità di democratizzare le pratiche spaziali, per i palestinesi che vivono sotto  occupazione nei Territori Occupati o sotto assedio nella Striscia di Gaza, l’utilizzo della mappatura tradizionale non riesce a tenere conto della realtà  dell’occupazione sul terreno e delle sue restrizioni e di come queste si ripercuotano sulla loro mobilità.

Tuttavia, i palestinesi e  i loro sostenitori continuano a resistere alle mappe coloniali e a sovvertirle attraverso la creazione di contro-mappe.

Ci sono altri passi concreti  che dovrebbero essere fatti .

Come raccomandato da 7amleh, la Palestina dovrebbe essere nominata correttamente su Google Maps, in linea con la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del novembre 2012.

Secondo la risoluzione 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo status internazionale di Gerusalemme dovrebbe essere correttamente visualizzato su Google Maps. Google deve inoltre identificare e denominare correttamente gli insediamenti israeliani illegali sui terreni occupati, ai sensi dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra e dell’articolo 55 del Regolamento dell’Aia.

Google dovrebbe distinguere chiaramente le aree A, B e C in Cisgiordania e tenere conto di tutte le restrizioni di movimento e delle strade riservate ai soli coloni.

Google dovrebbe mostrare i villaggi palestinesi “non riconosciuti” all’interno di Israele e i villaggi palestinesi nell’area C.

Gli Stati Uniti dovrebbero  cancellare il KBA,  equiparando le condizioni commerciali tra i fornitori di immagini statunitensi e non statunitensi. Ciò consentirebbe agli operatori satellitari di condividere immagini ad alta risoluzione di Palestina-Israele sulle piattaforme ad accesso aperto. Consentirebbe inoltre agli archeologi, ai ricercatori e agli operatori  umanitari di documentare accuratamente i cambiamenti sul terreno e consentire una maggiore trasparenza dell’occupazione israeliana.

La società civile palestinese dovrebbe incoraggiare e promuovere l’uso attivo delle contromappe come alternativa alle mappe incomplete contemporanee. Allo stesso tempo, la società civile e  i sostenitori dei palestinesi dovrebbero concentrare i loro sforzi facendo pressione (a) sul governo degli Stati Uniti per  abolire il KBA e (b) su Google per apportare le modifiche sopra descritte.

 

Zena Agha è stata Policy Fellow di Al-Shabaka negli USA dal 2017 al 2019. Le sue aree di competenza includono la costruzione di insediamenti israeliani nel territorio palestinese occupato, con particolare attenzione a Gerusalemme;la storia moderna del Medio Oriente e  delle pratiche spaziali. In precedenza ha lavorato pressol’Economist, l’ambasciata irachena a Parigi e la delegazione palestinese presso l’UNESCO. Oltre agli articoli su The Independent e The Nation, i crediti mediatici di Zena includono BBC World Service, BBC Arabic ed El Pais. A Zena è stata assegnata la borsa di studio Kennedy per studiare all’Università di Harvard,a completamento del  suo Master in Studi mediorientali.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

 

 

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