Thomas Suarez ha realizzato una toccante antologia di testimonianze verbali che trasmettono le speranze e l’umanità dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana da sette decenni.
Ramona Wadi – 29 Aprile 2020
Le storie raccontate dai palestinesi sfidano direttamente la narrazione inventata e utilizzata da Israele, ovvero il diritto di stabilirsi in Palestina a spese della popolazione nativa. Questa raccolta di testimonianze palestinesi, durata decenni, a cura dell’Istituto Educativo Arabo e curata da Thomas Suarez, ripercorre la storia dell’occupazione coloniale per illustrare come le prime narrazioni sioniste gettarono le basi per la contemporanea cancellazione della presenza e della memoria palestinese.
“Nel corso della storia umana, falsità e leggende, sono state usate per legittimare l’ingiustizia. E tra le verità estromesse da questa narrazione ci sono le voci delle persone comuni che ne sono le vittime dirette”, scrive Suarez.
Dalla Nakba alle attuali violazioni subite sotto l’occupazione militare di Israele, le testimonianze palestinesi sono contrassegnate dalla resilienza.
Corredato da fotografie e da una dettagliata descrizione per contestualizzare la memoria del popolo e della sua storia vissuta, Il libro fornisce una visione del processo di memoria palestinese.
Il desiderio palestinese di tornare nella loro terra, nato dall’esilio forzato, rimane radicato, anche quando la testimonianza non include una menzione diretta della Nakba del 1948.
I palestinesi sono intrappolati in un processo politico che li sta impoverendo di terra e popolazione, mentre la loro memoria è alle prese con la perdita dell’identità. Questo paradosso è descritto nelle testimonianze della pulizia etnica di Ein Karem, un villaggio vicino a Gerusalemme, e da una casa di famiglia palestinese occupata dai coloni sionisti.
Ciò che mantiene viva la resilienza palestinese è la determinazione a tornare, come si articola in una testimonianza di questa raccolta: “Mantenne vivo il ricordo della sua casa e sognava che sarebbe tornata, almeno una volta, prima di morire”.
Esiliata da bambina nel 1948 e costretta a vivere in una piccola casa in affitto, Nadine da Betlemme ricorda: “Siamo entrati senza dire una sola parola, anche se ci chiedevamo: “Perché abbiamo lasciato la nostra grande casa circondata da un bel giardino?”
Nei campi profughi, la differenza è più marcata. “I campi profughi sono cambiati e si sono sviluppati, ma sono ancora campi profughi e noi siamo ancora qui”, afferma Yussef.
Entrambe le testimonianze, pur raccontando esperienze diverse, riflettono il ruolo dell’ONU nella creazione di Israele e l’esproprio dei palestinesi.
Per i palestinesi, il loro diritto di difendere la loro terra attraverso una lotta anticoloniale è stato ulteriormente leso in quanto la comunità internazionale ha riconosciuto Israele e ha ignorato la deportazione dei palestinesi.
Come tale, solo vivere sotto il dominio militare israeliano è diventato un atto di resilienza in sé.
Nel libro, i palestinesi raccontano di aver aiutato i bambini delle scuole vittime dei gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani, assumendosi la responsabilità di proteggerli collettivamente da ulteriori aggressioni militari. In un caso assurdo, un colono israeliano ha accusato un bambino di 10 mesi di aver lanciato una pietra.
Durante le irruzioni in casa, i bambini avrebbero potuto persino subire atti di violenza, come ricordava Carol da Betlemme: “Al piano di sopra, i miei figli piangevano”. “È arrivato il momento di colpire”.
Il muro di separazione israeliano e le sue restrizioni alla libertà palestinese sono meglio riassunti da Safa’, che si riferisce ai suoi sogni sbiaditi. “Ti arrabbi, cammini senza meta come se fossi nella completa oscurità, circondato da un muro.”
Il concetto di muro qui appare come una metafora, tuttavia è una realtà quotidiana per i palestinesi nella Cisgiordania occupata, le cui vite sono state ridisegnate e limitate per adattarsi alla favola sulla sicurezza di Israele.
La presenza del muro impedisce ai palestinesi di coltivare le loro terre e visitare i loro parenti, sradicando le relazioni sociali dalle loro vite.
“Siamo imprigionati qui a Betlemme”, ha detto Antoinette. “Tutti i miei rapporti con Gerusalemme sono cessati”.
Le implicazioni economiche del muro sono evidenziate anche dai palestinesi, e si riflettono sul fatto che devono comprare l’olio invece di produrre il proprio dalla raccolta delle olive.
Suarez fa alcune importanti osservazioni nel contesto di queste testimonianze raccolte. Concentrandosi sul concetto di identità tenuta in ostaggio, Suarez osserva che la narrativa israeliana ha creato uno scudo umano “per isolare lo stato dalla responsabilità”.
“I palestinesi non sono gli unici intrappolati dietro il muro di Israele; gran parte della popolazione globale è rinchiusa dietro un muro, scrive Suarez.
La disinformazione e la propaganda diffuse da Israele possono essere contrastate solo dalla memoria palestinese e dalla sua diffusione. Questa raccolta di brevi testimonianze sottolinea le ripetute violazioni che richiedono una persistente resilienza da parte dei palestinesi.
È nei dettagli della vita quotidiana che i palestinesi continuano a ribellarsi contro l’occupazione coloniale.
L’opinione pubblica mondiale, come indica Suarez, farebbe bene a fare uno sforzo per vedere oltre l’immagine generalizzata dei palestinesi, per dare un’occhiata alle vite distrutte dall’esilio e tenute insieme dal sogno del ritorno.
Ramona Wadi è una ricercatrice e giornalista indipendente, recensisce libri e gestisce un blog, specializzata nella lotta per la memoria in Cile e Palestina, violenza coloniale e manipolazione del diritto internazionale.
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org