La giustizia climatica in Palestina non può essere dissociata dalla giustizia politica

Zena Agha, membro dell’ufficio politico di Al-Shabaka, analizza l’impatto disastroso dell’occupazione israeliana sulla vulnerabilità climatica della Palestina.

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Di Zena Agha – 8 Maggio 2020

Il cambiamento climatico è un fattore di minaccia: amplifica le disuguaglianze e le ingiustizie esistenti. Pochi posti al mondo mostrano questo effetto meglio della Palestina occupata.

Sebbene palestinesi e israeliani abitino fisicamente nello stesso territorio, gli effetti diseguali dei cambiamenti climatici possono essere visti in netto rilievo in Palestina, un territorio sfigurato, disgiunto, segregato e stratificato, in cui Israele stabilisce direttamente e indirettamente le regole.

L’occupazione israeliana, ormai al suo cinquantatreesimo anno, non solo impedisce ai palestinesi di accedere alle risorse essenziali per l’adattamento ai cambiamenti climatici, ma anche dal perseguimento di misure a più lungo termine. La stessa politica ambientale di Israele può essere descritta come ambigua. Da un lato promuove la riforma ambientale e lo sviluppo tecnologico. Dall’altro priva i palestinesi della loro terra, acqua e altre risorse naturali. Riuscendo a mantenere questo approccio ambiguo nonostante un’ampia condanna internazionale.

Questo articolo esamina l’impatto divergente del cambiamento climatico su Palestina e Israele, in particolare nei territori occupati (OPT). Sostiene che l’occupazione israeliana aumenta drasticamente la vulnerabilità palestinese agli effetti del cambiamento climatico attraverso l’appropriazione di terreni e risorse naturali, nonché le restrizioni alla circolazione delle persone, delle merci e dei capitali. Chiede un forte impegno locale e internazionale per porre fine all’occupazione e ritenere Israele responsabile secondo la legge: standard minimi per qualsiasi nuovo corso ambientale internazionale.

Vulnerabilità palestinese indotta

Il cambiamento climatico dovrebbe avere un impatto sia sulla Palestina che su Israele in due modi chiave nei prossimi anni: diminuzione delle precipitazioni, con una riduzione annuale prevista fino al 30% nella regione del Mediterraneo orientale; e aumento delle temperature, dato un aumento previsto tra 2,2 e 5,1 C. Quest’ultimo può portare a mutazioni altamente distruttive, se non catastrofiche e modifiche del clima della regione, inclusa una maggiore desertificazione.

La combinazione di diminuzione delle precipitazioni e aumento delle temperature si tradurrà in una maggiore domanda di acqua (una risorsa già sfruttata) che sarà sempre meno disponibile e potrebbe portare all’insicurezza idrica. L’agricoltura, che è sempre stata una pietra miliare dell’economia palestinese, ne risentirà notevolmente.

Tuttavia, il frammentato panorama politico della Palestina pone alcune delle maggiori sfide per far fronte al cambiamento climatico. Tre diverse entità governano il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo: il governo israeliano presiede direttamente il moderno stato di Israele, la Gerusalemme est occupata e annessa illegalmente e le alture del Golan e, di fatto, l’area C occupata, compresa la fertile valle del Giordano in Cisgiordania; l’Autorità palestinese (AP) sovrintende alle aree A e B della Cisgiordania anche se solo apparentemente, subendo frequenti incursioni militari israeliane; e Hamas controlla la Striscia di Gaza, che è sotto assedio israeliano da 12 anni.

Questa realtà politica e sociale differenziata separa l’OPT dal suo più ampio contesto politico e geografico. La vulnerabilità della Palestina dovrebbe essere compresa nel contesto di più di sette decenni di dislocamento, espropriazione, e oppressione. Centinaia di migliaia di palestinesi sono stati ridotti a profughi nel 1947-48 quando Israele è stato creato e sono ancora fortemente dipendenti dagli aiuti dell’UNRWA e altre organizzazioni umanitarie; la maggior parte di queste comunità vulnerabili esula dalle competenze dell’Autorità palestinese nei territori occupati.

Tuttavia, il più grande rischio non ambientale che i palestinesi devono affrontare nell’OPT è l’occupazione israeliana, nella misura in cui il programma di sviluppo nazionale unito (UNDP) lo considera un rischio ambientale a sé stante. Tra gli altri fattori, le restrizioni alla libera circolazione delle persone e delle merci, il muro di separazione, il furto di terra, l’espansione degli insediamenti, la violenza dei coloni, e una cattiva governance dell’Autorità Palestinese minacciano la sicurezza alimentare e idrica palestinese e di conseguenza aumentano la vulnerabilità ai cambiamenti climatici.

Il territorio occupato è soggetto al diritto internazionale di occupazione belligerante. Israele, in quanto potenza occupante, è legalmente responsabile per soddisfare i bisogni della popolazione occupata che, secondo la Convenzione dell’AIA, comprende la tutela delle risorse naturali. Inoltre, la Convenzione di Ginevra vieta la distruzione e l’appropriazione arbitraria di proprietà, nonché la distruzione, la rimozione e disabilitazione di infrastrutture civili indispensabili alla popolazione, comprese le aree agricole, gli impianti di acqua potabile e di irrigazione.

L’UNDP cita il continuo impatto distruttivo dell’occupazione israeliana sulle infrastrutture idriche e agricole palestinesi come “a prima vista violazioni del diritto internazionale umanitario, che richiedono un’indagine indipendente da parte della comunità internazionale”. Tuttavia, la comunità internazionale ha raramente ritenuto Israele responsabile di queste violazioni del diritto internazionale e, sotto l’attuale Amministrazione Trump negli Stati Uniti, ha incoraggiato le violazioni israeliane.

Le vittime climatiche dell’occupazione israeliana

Il cambiamento climatico influenzerà la maggior parte dei settori dell’economia dell’OPT, ma una delle sue maggiori vittime sarà la disponibilità e la qualità dell’acqua, con risultati letali, in particolare a Gaza.

L’acqua non è una risorsa apolitica. L’occupazione mette a dura prova le risorse idriche e colpisce tutti i settori, dalla salute all’industria. La principale fonte di acqua potabile dei palestinesi sono le falde acquifere, e i palestinesi dipendono fortemente da queste. Le falde acquifere occidentali, nord-orientali e orientali si trovano in Cisgiordania, mentre a Gaza, l’unica fonte d’acqua è la falda acquifera costiera, che è stata soggetta a estrazione eccessiva e inquinamento negli ultimi anni. Ciò si aggiunge all’innalzamento del livello del mare e all’intrusione dell’acqua di mare (cuneo salino), dato che Gaza si trova sulla costa del Mediterraneo.

Israele ha creato una complicata burocrazia di licenze, permessi e diritti di accesso progettati per controllare e limitare selettivamente l’accesso dei palestinesi alle acque sotterranee. Lo fa in virtù dei poteri conferiti dall’accordo di Oslo 2 del 1995, inizialmente inteso come un accordo quinquennale, e ancora in vigore 25 anni dopo, che ha concesso a Israele il controllo temporaneo su circa l’80% delle riserve idriche della Cisgiordania. L’Autorità Palestinese, citando le ineguaglianze scritte negli Accordi di Oslo, sta cercando diritti idrici sulle falde acquifere montane.

Israele esercita il controllo sull’acqua attraverso il Joint Water Committee (JWC), che proibisce qualsiasi decisione relativa all’acqua senza l’approvazione israeliana. Le acque superficiali (da fiumi, ruscelli, insenature, laghi e bacini idrici) provengono dalla valle del Giordano, dal Mar Morto e dal fiume Giordano, a cui il JWC vieta l’accesso ai palestinesi e la cui portata dovrebbe diminuire significativamente nei prossimi anni. I palestinesi sono anche rivieraschi del fiume Giordano, garantendo loro i diritti sull’acqua. Tuttavia, poiché Israele ha il pieno controllo delle sorgenti del fiume Giordano, i palestinesi non vi hanno accesso. La JWC ha anche negato i permessi ai palestinesi che cercano di raccogliere l’acqua di deflusso nelle dighe.

Nel frattempo, ci sono solo alcuni impianti di trattamento delle acque reflue in Cisgiordania e quasi nessuna delle acque trattate viene riutilizzata in agricoltura. Lo sviluppo di nuove infrastrutture di accesso all’acqua o la riparazione di quelle esistenti è estremamente difficile: Israele concede pochi permessi e demolisce edifici e pozzi realizzati senza la sua autorizzazione.

Oltre a impedire l’ingresso di acqua pulita a sufficienza nella Striscia di Gaza, Israele ostacola attivamente qualsiasi tentativo di costruire o mantenere le infrastrutture idriche, come i serbatoi, limitando le importazioni di materiali da costruzione fondamentali. I risultati sono letali: il 90-95% dell’acqua di Gaza è contaminata e inadatta per bere o irrigare. L’acqua contaminata è responsabile di oltre il 26% di tutte le malattie segnalate a Gaza ed è una delle principali cause di mortalità infantile, provocando più del 12% dei decessi fra i bambini.

Il risultato di queste misure è significativo. L’Istituto di Ricerca Applicata a Gerusalemme (ARIJ) stima che solo il 50,9% delle famiglie in Cisgiordania abbia accesso all’acqua su base giornaliera. A Gaza, solo il 30% delle famiglie riceve un approvvigionamento idrico giornaliero. Insieme, ciò significa che l’OPT ha una delle disponibilità idriche pro capite più basse al mondo, con 72 litri pro capite al giorno in Cisgiordania e 96 litri a Gaza, entrambi inferiori al minimo di 100 litri raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I Palestinesi non collegati ad una rete idrica, come le comunità situate nell’Area C controllata da Israele, spesso vivono con soli 10-20 litri complessivi a persona al giorno per tutti gli usi.

In netto contrasto, a partire dal 2013, i 600.000 coloni illegali di Israele hanno utilizzato complessivamente sei volte più acqua dei tre milioni di palestinesi in Cisgiordania per uso domestico (e servizi come piscine e prati). Inoltre, le azioni distruttive dei coloni, che spesso distruggono proprietà e infrastrutture palestinesi, intensificano ulteriormente la vulnerabilità Palestinese.

Sono possibili una serie di opzioni di adeguamento per l’OPT, compresi i piani di emergenza contro le inondazioni, protezione delle dune di sabbia costiere a Gaza e riabilitazione di pozzi e altre fonti d’acqua. Eppure nessuna di queste opzioni si realizzerà mentre l’occupazione continua. La ridistribuzione dei diritti idrici dagli israeliani ai palestinesi è un primo passo essenziale, così come la fine dell’assedio a Gaza per consentire acqua pulita e materiali da costruzione per impianti di trattamento delle acque reflue e gli impianti di desalinizzazione da importare.

Per quanto riguarda l’agricoltura, è un fondamento della società palestinese. Circa il 60% della popolazione della Cisgiordania vive in 500 villaggi rurali, che sono meno collegati alle infrastrutture centralizzate e più dipendenti dalle aree circostanti per la produttività economica. Dal punto di vista economico, l’agricoltura rappresenta l’11,5% della manodopera occupata e il 21% di tutte le esportazioni.

Le olive e i loro derivati nel cibo, nel sapone, nel carburante e nell’artigianato sono un elemento fondamentale nelle case palestinesi: Dal 2010, gli oliveti rappresentano l’85,3% di tutti gli alberi dell’OPT e il settore olivicolo contribuisce per il 15% al reddito agricolo totale. Culturalmente, l’agricoltura ha un profondo simbolismo nell’identità palestinese, con l’agricoltore e l’olivo che rappresenta il radicamento dei palestinesi sul territorio.

Il cambiamento dei modelli di precipitazione dovuto al cambiamento climatico comporta un grande rischio per la produttività agricola dell’OPT. Circa l’85% dell’agricoltura palestinese è irrigata dalla pioggia e circa la metà dell’acqua estratta dai pozzi di falda è utilizzata per l’agricoltura. L’aumento della siccità e la desertificazione influenzeranno quindi direttamente la produttività delle colture e il bestiame, mentre stagioni di crescita più brevi e un aumento del fabbisogno idrico porterà a un aumento dei prezzi alimentari.

Questi effetti sono particolarmente pericolosi in quanto esiste già una diffusa insicurezza alimentare nell’OPT. Nel 2014, circa il 26% delle famiglie sono state considerate “gravemente o marginalmente” a rischio alimentare, salendo al 46% a Gaza. A Gaza, l’inalzamento del livello del mare e l’intrusione di acqua salata danneggiano l’agricoltura costiera di basso livello, che rappresenta il 31% della produzione agricola totale di Gaza e che minaccia la sicurezza alimentare nell’enclave già vulnerabile. Anche gli agricoltori e gli allevatori di tutto l’OPT vedranno diminuire i loro redditi e profitti, rischiando il loro tenore di vita agrario e aumentando la probabilità di cadere in un indebitamento e in una povertà strutturale.

L’occupazione danneggia l’agricoltura palestinese attraverso il furto di terre e il controllo della popolazione. Gli insediamenti israeliani in espansione e le strade per soli coloni sono deliberatamente costruite in posizioni strategiche chiave, anche sulle terre coltivabili nell’area C. Le restrizioni israeliane alla circolazione e l’accesso controllato ai pascoli sono ulteriori cause del rendimento complessivo relativamente basso dell’OPT.

Insieme a più di 400 checkpoint e posti di blocco in Cisgiordania, un complicato sistema di permessi, e il muro dell’apartheid, gli agricoltori palestinesi non solo hanno meno terra a disposizione per l’agricoltura, ma si vedono anche negare l’accesso ad essa.

A Gaza, il 20% dei terreni coltivabili è limitato dall’uso perché rientra nella zona cuscinetto di sicurezza israeliana vicino al confine con Israele. In molti casi, agricoltori e pastori sono obbligati a comprare acqua da luoghi più lontani, sostenendo costi di trasporto più elevati e sprecando tempo prezioso. Inoltre, i palestinesi hanno un accesso limitato ai mercati internazionali, alle attrezzature moderne e ai fertilizzanti. Un rapporto della Banca mondiale del 2009 ha rilevato che se le restrizioni israeliane fossero rimosse e l’accesso all’acqua dei palestinesi fosse aumentato, il contributo del settore agricolo al PIL dell’OPT aumenterebbe fino al 10% e creerebbe circa 110.000 nuovi posti di lavoro.

Esistono diverse opzioni di adattamento disponibili per limitare gli effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura. In Cisgiordania, questi includono una migliore efficienza idrica e pianificazione territoriale. A Gaza, l’efficienza idrica e il sostegno e la formazione a livello di comunità contribuirebbero a compensare l’impatto dello sfruttamento eccessivo di risorse limitate esacerbate dal cambiamento climatico. Eppure, senza porre fine all’occupazione e al blocco, le strategie di adattamento avranno un impatto molto limitato.

La strada da percorrere

Le restrizioni imposte dall’occupazione sono la più grande sfida che i palestinesi devono affrontare, sia economicamente (inclusa la mancanza di libera circolazione delle merci e delle persone) sia politicamente (assenza di autodeterminazione e sovranità palestinese, destabilizzando una popolazione che è già vulnerabile al collasso ambientale).

Il percorso più chiaro verso la resilienza è attraverso la responsabilità politica: chiedere la fine immediata dell’occupazione e la sospensione dell’assedio a Gaza. La posizione estremista del governo israeliano (e molti degli alleati di Israele in tutto il mondo) rende queste pretese altamente irrealistiche a breve termine, in particolare perché l’occupazione è un’impresa finanziariamente redditizia che consente a Israele di dominare le risorse naturali dell’OPT mentre distrugge o impedisce la costruzione delle necessarie infrastrutture Palestinesi.

L’organizzazione internazionale, quindi, e la coalizione che si sta formando in questa stessa Internazionale progressista, saranno essenziali per porre fine all’occupazione. A livello internazionale, i governi devono esercitare pressioni su Israele affinché aderisca alle risoluzioni delle Nazioni Unite e ai quadri di diritto internazionale che ha costantemente violato. La società civile deve fare di più per integrare la liberazione palestinese nel quadro della giustizia climatica e delle riforme ambientali.

Il cambiamento climatico è una minaccia globale di proporzioni catastrofiche, ma il suo impatto varierà a seconda del potere delle comunità di attuare misure di protezione e adattamento. Con la possibilità di imminente annessione di alcuni territori, la maggior parte o la totalità dell’OPT, il controllo dei palestinesi sulle loro risorse appare ancora meno probabile.

Per i palestinesi, che questo mese commemoreranno settantadue anni della perdita della loro patria, Il cambiamento climatico non è un fenomeno equiparabile, ma un prodotto della loro condizione di popolazione occupata.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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