Perché non parlo più di Palestina con i bianchi

Confondere l’etnia con la nazionalità mette a tacere la voce dei palestinesi nella lotta contro l’oppressione israeliana.

Fonte: Engish Version

Tanushka Marah – 7 luglio 2020

Immagine di copertina: Una donna palestinese si confronta con le forze di sicurezza israeliane durante una protesta a Gerusalemme il 9 giugno (AFP)

Lo scorso dicembre, in un pub, partendo dal dibattito televisivo svoltosi tra candidati alle elezioni,   mi sono trovata coinvolta in una discussione sul perché l’ex leader laburista Jeremy Corbyn non avrebbe dovuto  essere messo all’angolo dal presentatore della BBC Andrew Neil per il suo rifiuto di scusarsi per il suo supposto antisemitismo.

Ho sollevato l’argomento secondo cui  vi è una forte influenza israeliana che opera all’interno della nostra democrazia. Subito mi è stato detto di  stare zitta da un bianco britannico la cui moglie è israeliana. Ho  detto al gruppo che in Israele i  miei cugini avevano subito torture, e che  questa non era solo una mia personale teoria, ma  una realtà che aveva direttamente influenzato le elezioni nel Regno Unito.

Di nuovo mi è stato detto di tacere. Ho guardato i loro volti tranquilli e mi sono sentita come una donna araba isterica.

Sradicare i palestinesi

All’inizio degli anni ’90,  con voli ancora poco economici e in cerca di avventura, molti dei miei amici vegetariani che ascoltavano i Nirvana e partecipavano ai festival alternativi, passavano parte del loro anno sabbatico in Israele lavorando in un kibbutz. Mi arrivavano lettere  via posta aerea in cui mi raccontavano eccitati dello spirito di comunità, del sole e della gioia del duro lavoro.  Tutto questo mi faceva sentire a disagio, ma non capivo il perché.

 Conoscevo la sofferenza del 1948, lo sradicamento dei palestinesi, la disuguaglianza tra israeliani e arabi e il mondo che voltava le spalle alla causa palestinese.

I miei genitori, provenienti dalla Palestina e dalla Giordania, mi avevano protetto  dalle discussioni  sulla politica mediorientale, ma in compenso ne avevo sentito molte sull’arak e sulla croccantezza dei semi di zucca salati. Facevo  molte domande a mio padre, da “Perché Riccardo  Cuor di Leone, che ha massacrato molti arabi,è un eroe della storia britannica?” a “Perché i miei amici  vanno in Israele?”Lui rispondeva  con una stoica scrollata di spalle: “Sono fuorviati”.

C’era qualcosa che non capivo:  mi sconcertava che i miei amici di mentalità liberale fossero lì. Non capivo il sogno di costruire uno stato utopico, con uguaglianza tra donne e uomini, pionieri e idealisti, con le maniche color kaki rimboccate a lavorare la nuova terra.

Conoscevo la sofferenza del 1948, lo sradicamento dei palestinesi, la disuguaglianza tra israeliani e arabi e il mondo che voltava le spalle alla causa palestinese. Ricordo il momento in cui vidi per la prima volta una mappa del mondo in  cui la Palestina non era rappresentata.

Discriminazione positiva

Negli anni successivi all’11 settembre, la gente divenne leggermente consapevole che gli arabi non erano uguali ai  pakistani o agli  indiani. Fu un incerto inizio nel venire a patti con l’esistenza dei palestinesi.

Poi arrivò la solidarietà: i bianchi indossavano la kefiah, i distintivi Free Palestine, fuori dalla HSBC adorabili signore eleganti chiedevano di firmare petizioni contro gli investimenti della banca negli insediamenti illegali in Cisgiordania.

A poco a poco, il cibo e la cultura del Medio Oriente penetrarono nella vita britannica, attraverso Waitrose e lo chef Yotam Ottolenghi. Dopo il falafel, le persone iniziarono a usare lo zaatar e il sommaco. “È una ricetta di Ottolenghi?” la gente mi chiedeva della mia cucina. “No, è un classico piatto palestinese! Sì, la mia famiglia era cristiana; Betlemme è in Palestina.”

Nel mondo delle arti, ho avuto  il mio primo assaggio di discriminazione positiva grazie a organizzazioni come la Royal Shakespeare Company (RSC). Fu solo allora che mi resi conto del razzismo strutturale che avevo dato per scontato, senza essermi mai aspettata di poter lavorare in un’istituzione britannica così sacra. Ricordo la sorpresa del mio primo giorno alla RSC, mentre lavoravo alla commedia “A Museum di Baghdad” con un cast quasi interamente arabo. “Hanno lasciato entrare gli arabi!” sussurrò un attore con una risatina.

Estremismi pericolosi

Anni fa, a Liverpool, stavo trascorrendo una piacevole serata con un attore ebreo dopo aver recitato in un’opera teatrale sull’occupazione, quando alcuni ragazzi mi  chiesero da dove venissi. Non lo chiesero  al mio amico, nonostante il suo forte accento di Pittsburgh.

 Come in tutte le discussioni su razza e potere, il linguaggio deve essere analizzato in modo forense e usato con attenzione

Quando risposi, uno di loro urlò: “Free Palestine”, per poi  fare osservazioni sprezzanti sugli ebrei, aggiungendo “bisognerebbe  ci fosse ancora Hitler”. Guardai inorridita il mio amico; mi restituì un sorrisetto  come per dirmi “Te l’avevo detto”. Forse questo ragazzo era un ubriaco incontrato per caso, ma era la prima volta che  mi imbattevo in un così pericoloso estremo di ignoranza e di incitamento all’odio, con cui tra l’altro ci si aspettava che io simpatizzassi.

Non sono “Gli Ebrei”. Non sono tutti gli israeliani. Ho visto  inglesi sventolare la bandiera palestinese e correre con essa, a volte goffamente, lungo la strada sbagliata. Nel dibattito britannico, ciò ha causato molti  danni alla  causa palestinese.

Manifestanti Pro-Palestina protestano nel centro di Londra nel 2018 (AFP)

Come in tutte le discussioni su razza e potere, il linguaggio deve essere analizzato in modo forense e usato  con attenzione. Stiamo parlando di israeliani e di palestinesi, o di ebrei e di palestinesi; di Israeliani e di arabi o di ebrei e di arabi? Riporto  le parole di Reni Eddo-Lodge sul razzismo: “Esiste un’anonima definizione di razzismo che lo definisce come pregiudizio unito al potere”.

Ho visto  inglesi sventolare la bandiera palestinese e correre con essa, a volte goffamente, lungo la strada sbagliata

Con questa definizione, i palestinesi non possono essere razzisti nei confronti degli israeliani, poiché non sono quelli al potere. Tuttavia, se dovessi dire che gli ebrei sono più potenti dei palestinesi, questo sarebbe razzista e rientrerebbe nelle  “teorie della cospirazione ebraica” che il leader laburista Keir Starmer ha recentemente usato come motivo per licenziare Rebecca Long-Bailey.

Confondere l’etnia con la nazionalità mette a tacere la voce dei palestinesi nella lotta contro il razzismo. Peggio ancora, descrivendola come antisemita, coinvolge tutti gli ebrei nelle politiche razziste di Israele.

Abbattere Corbyn

Chi decide la lingua che usiamo – i palestinesi o gli israeliani? Sembra che alla vigilia dell’ultima annessione di Israele si stia  trascorrendo molto tempo a discutere di semantica.

Abbiamo un primo ministro che ha definito i neri africani “picanninnies” e che ha detto che le donne musulmane ” sembrano cassette delle lettere”, con la debole scusa di voler difendere le libertà delle donne. Ma siamo messi a tacere  nella discussione sulla politica di uno dei Paesi più militarizzati al mondo.

Ora sappiamo delle rimostranze perfettamente programmate, progettate e orchestrate all’interno del Partito Laburista,  ideate per far cadere Jeremy Corbyn, l’unico abbastanza coraggioso e pazzo da difendere i palestinesi.  E’ stato sommerso dalle accuse di antisemitismo. Nel frattempo, non si è parlato quasi per nulla del razzismo all’interno del partito e diretto verso parlamentari neri come Diane Abbott e altri. Purtroppo, c’è una gerarchia in gioco e i palestinesi sono molto vicini al livello più basso.

Il movimento nero ha impiegato centinaia di anni per diventare una causa legittima e per essere accettato dagli inglesi come veicolo per l’antirazzismo, sebbene non del tutto compiutamente e talvolta con riluttanza. Mi sono sentita incredibilmente riscaldata da un recente tweet in cui il braccio britannico del movimento Black Lives Matter (BLM) esprimeva solidarietà verso la Palestina. Ma poi è arrivata la reazione: “È un tweet razzista, è antisemita. Danneggerà la loro causa! ”

La sanguinosa storia della Gran Bretagna

Israele così com’è, ovvero uno stato coloniale e colonialista  in cui milioni di palestinesi vivono sotto l’occupazione militare e in cui viene loro negato il diritto di voto, la libertà di movimento e di  autodeterminazione, viene ora definito come razzista. BLM non opera all’interno dell’educata  società britannica. Agendo direttamente e abbattendo statue di schiavisti, ha suscitato un necessario dibattito.

Come società, stiamo finalmente parlando del programma scolastico e della sanguinosa storia della Gran Bretagna; stiamo parlando di razzismo verso i palestinesi. Vi saluto, compagni.

 Gli inglesi non potevano digerire Corbyn. Sembra che nessuno  possa occupare il numero 10 di Downing Street a meno che non sia amico di Israele

La reazione negativa al tweet di BLM è uno schiaffo alla voce dei palestinesi. Il licenziamento di Long-Bailey da parte di Starmer è uno schiaffo in faccia. Il suo precedente impegno  a favore del sionismo durante la sua campagna per la leadership è uno schiaffo in faccia. Sanno tutti che devono fare loro  il credo sionista; non devono turbare la sensibilità israeliana e se ciò significa ignorare la sensibilità palestinese, così sia.

Fintanto che denunciare il razzismo contro i palestinesi continuerà ad essere  etichettato come antisemita, molti ebrei in tutto il mondo si sentiranno sollevati dalla responsabilità  per le azioni di Israele. In questo circolo vizioso ricordiamo che, per definizione, anche i palestinesi sono semiti. Cancellati dalla mappa, sono persone traumatizzate che hanno bisogno di una patria in un mondo che non li accetta.

Come palestinese, sono addolorata per  Corbyn perché lo considero come l’ultimo possibile primo ministro che appoggerebbe i palestinesi. Come cittadina britannica, sono pragmatica e vorrei un governo laburista e una Gran Bretagna migliore, dove migliaia di persone vulnerabili non vengono uccise ogni anno dall’austerità.

Gli inglesi non potevano digerire Corbyn. Sembra che nessuno  possa occupare il numero 10 di Downing Street a meno che non sia amico di Israele. Potremmo ottenere un governo di centrosinistra, ma la sua politica estera sarebbe a sostegno di dittatori, guerre e occupazione.  E’ accaduto con i centri Sure Start di Tony Blair e con gli  innumerevoli morti in Iraq. Ecco questo, insieme a Starmer,  è più facile da digerire, per gi inglesi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

Tanushka Marah, palestinese-giordana di origine britannica, è una regista, attrice  e insegnante di teatro. È stata vincitrice del premio del regista Young Vic nel 2002 e ha vinto il Brighton Fringe Outstanding Theatre Award 2017 per Agamennone. Ha lavorato con la Royal Shakespeare Company. Con la sua compagnia teatrale ha portato in scena Medea nel Regno Unito. Ha diretto produzioni in festival internazionali in Europa e ha suonato in tournée in Medio Oriente.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

 

2 risposte a “Perché non parlo più di Palestina con i bianchi”

  1. I bianchi? Questa non è discriminazione? Io sono fin troppo bianca, per i miei gusti, eppure sono da sempre filopalestinese, simpatizzante di Fatah e PFLP. Sin da bambina, ho letto valanghe di testi sulla Shoah ed uno dei miei principali impegni è proprio quello di spiegare incessantemente la differenza abissale tra ebraismo e sionismo. Sono profondamente antirazzista; anzi, a-razzista, nel senso che credo esista una sola razza tra gli umani, appunto la razza umana. È molto brutto definire le persone in base al colore della loro pelle, di qualunque colore si tratti. Titolo pessimo, non corrispondente in realtà al contenuto.

    1. Perchè l’autrice, artista, interprete teatrale, regista, attivista, ha usato un titolo così forte? Si potrebbe pensare a una grande provocazione per colpire direttamente l’attenzione del lettore, nella sua autobiografia scrive: “Ho una passione per l’utilizzo del teatro come mezzo e piattaforma per la comunicazione di voci diverse”.

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