L’azienda Al-Arz Tahini fomenta il “pinkwashing israeliano”: la protesta dei palestinesi LGBTQ

Il pericolo del pinkwashing è quello di mostrare la comunità araba palestinese come una società arretrata e omofoba e quindi come il ruolo di organizzazioni israeliane, e quindi di Israele, si presenti come salvifico nei confronti delle soggettività LGBTQ palestinese. 

Lorenzo Poli – 7 agosto 2020

Immagine di copertina: gli attivisti queer palestinesi lottano da tempo contro la nozione che i diritti LGBTQ e i diritti dei Palestinesi non possano essere uniti. (Supplied)

All’inizio di luglio l’organizzazione LGBTQ israeliana Aguda ha ricevuto una donazione da Al-Arz Tahini, azienda che produce   la pasta di sesamo componente  onnipresente nella cucina mediorientale, per avviare una linea di assistenza telefonica per cittadini palestinesi queer in Israele.

Nel corso degli anni l’amministratrice delegata, Julia Zaher, aveva già finanziato pubblicamente varie cause, ma per diverse  ragioni la sua donazione ad Aguda ha suscitato critiche da parte di molti palestinesi.

Molteplici sono state le reazioni nel contesto palestinese: alcuni avevano pubblicamente chiesto il boicottaggio della società in segno di protesta per il suo sostegno alle questioni LGBTQ, con filmati circolanti sui social media che mostravano gli acquirenti palestinesi in Israele che gettavano i contenitori di Al-Arz Tahini nella spazzatura.

Gli attivisti palestinesi per i diritti LGBTQ, pur non sostenendo il boicottaggio, hanno criticato Al-Arz Tahini per aver scelto di fare donazioni ad un’associazione israeliana dichiaratamente sionista,  invece di destinare le proprie donazioni a organizzazioni femministe e LGBTQ palestinesi come Al-Qaws e Aswat, presenti sia in Israele che nei territori occupati. Al-Qaws e Aswat hanno richiesto a Al-Arz Tahini il ritiro della donazione ad Aguda,  ma l’azienda ha esplicitato il suo rifiuto.

Secondo Eye Amany Khalifa, coordinatrice di Grassroots Jerusalem, Al-Arz Tahini è una società a scopo di lucro che ha usato questo problema sociale per promuoversi, mettendo a rischio la comunità gay, senza avere alcuna intenzione di fornire supporto ai gruppi palestinesi – ha detto a Middle East.

A tirare le somme è stato il New York Times, incentrando la questione sulla reazione omofobica contro Al-Arz Tahini, facendo passare il messaggio che per l’intera comunità palestinese l’omosessualità sia  incompatibile con i  suoi valori religiosi e sociali. Ciò  assolve anche la funzione di rilegare i palestinesi  nello stereotipo del “barbaro tradizionalista” che rifiuta i diritti delle donne e delle soggettività LGBTQ. Per questo gli attivisti palestinesi hanno accusato il New York Times di  effettuare operazioni di “pinkwashing”, definendo la storia come uno scontro tra un’organizzazione LGBTQ israeliana e palestinesi che hanno trascurato le complessità di una lotta molto più profonda per i diritti queer in Palestina.

Il pinkwashing è la rappresentazione popolare di Israele come paese amico delle soggettività LGBTQ, che ignora le violazioni ampiamente documentate dei diritti umani e le politiche discriminatorie, anche contro i palestinesi queer, dell’occupazione coloniale e dell’apartheid razzista.

Molti attivisti LGBTQ palestinesi e rappresentanti delle rispettive organizzazioni hanno rifiutato di parlare con il New York Times dopo che  la giornalista ha dichiarato di “non mostrare interesse per quel contesto cruciale” e che intendeva parlare di genere e diritti sessuali dei palestinesi con Aguda. Perché un’organizzazione israeliana dovrebbe parlare dei diritti sessuali dei palestinesi? L’intenzione è sicuramente la volontà di cancellare l’esistenza di organizzazioni palestinesi che trattano di questi temi, dimostrando il ruolo salvifico di Israele.

Si era richiesto di dare voce al Centro Palestinese Queer, dato che la questione della ‘Tahini War’ riguarda i palestinesi queer, ma si è preferito  sostenere un’operazione di pinkwashing, omettendo le dinamiche di potere all’interno di un’occupazione colonialista.

Organizzazioni come Al-Qaws e Aswat non negano per nulla l’esistenza dell’omofobia all’interno delle comunità palestinesi, infatti in questi anni hanno affrontato la questione  della discriminazione e della violenza gestendo una propria linea di assistenza per i palestinesi queer.

In una dichiarazione, Al-Qaws ha accusato Aguda di cercare di “cancellare” il lavoro degli attivisti palestinesi LGBTQ e di promuovere la causa del sionismo  nel negare l’esperienza palestinese, che è l’essenza del colonialismo sionista. Così il lavoro di Al-Qaws, che proviene dalla società palestinese, e la sua linea di supporto vengono cancellati.

Il pericolo è che ci sia la falsa percezione che i diritti dei palestinesi e i diritti LGBTQ siano incompatibili, mentre la soluzione è vedere queste lotte come intersezionali e correlate nella lotta contro ogni forma di oppressione politica, economica, militare e culturale.

Il pericolo del pinkwashing è quello di mostrare la comunità araba palestinese come una società arretrata e omofoba e quindi come il ruolo di organizzazioni israeliane, e quindi di Israele, si presenti come salvifico nei confronti delle soggettività LGBTQ palestinese. L’operazione culturale, fortemente coloniale, ha lo scopo di mostrare le persone palestinesi queer come vittime della propria cultura, della propria terra e del proprio popolo, alla ricerca di un “salvatore” che li possa liberare. In questo caso il “salvatore” è proprio chi sta cancellando la loro cultura, sta rubando la loro terra, sta segregando il loro popolo e sta reprimendo qualsiasi loro libertà, persino quella di culto.

Nel momento in cui i palestinesi gay parlano di politica, essi diventano un ostacolo al progetto sionista di rappresentarli come vittime della loro stessa società, salvati invece dagli israeliani, loro presunti salvatori.

Detto ciò Al-Arz ha  confermato la sua donazione, nonostante  gli attivisti palestinesi chiedessero invece che i soldi andassero altrove. Secondo le organizzazioni palestinesi LGBTQ è ipocrita boicottare l’azienda  palestinese, solo per continuare a comprare da compagnie israeliane che supportano con orgoglio gli insediamenti illegali e l’esercito”. Secondo loro infatti “Esistono organizzazioni israeliane criminali che meritano il boicottaggio ancor più dell’azienda e degli attacchi che ha ricevuto su questo tema”.

Il segreto è continuare a rompere i tabù. Nonostante la frustrazione di essere ignorati sia da Al-Arz Tahini che dai suoi sostenitori e il pericolo di attirare abusi omofobi per il loro lavoro, gli attivisti palestinesi queer continuano a sperare che si stiano facendo progressi nella sensibilizzazione sulle questioni LGBTQ nella società palestinese, pur ammettendo che c’è ancora molta strada da percorrere, ricordando in particolare  la ragazza queer palestinese pugnalata dal fratello nel 2019, l’annegamento del ballerino palestinese Ayman Safiah a maggio 2020 e la  repressione da parte dell’Autorità Palestinese l’anno scorso.

“La promozione dei diritti LGBTQ palestinesi deve essere fatta in modo tale da mettere in discussione l’appropriazione di tale causa da parte delle organizzazioni israeliane, impegnandosi anche con i palestinesi, in particolare con quelli che costituiscono circa un quinto della popolazione di Israele” , affermano le associazioni LGBTQ.

Questo è stato uno dei tanti eventi, insieme al voto della Joint List al disegno di legge che mette al bando la “terapia di conversione” (sebbene, come ha ricordato Aida Touma Sliman Suleiman, questo sia un tema che riguarda  maggiormente il dibattito interno israeliano ed ebreo), che ha chiuso un anno infernale per le comunità LGBT e queer palestinese, tra omofobia, repressione da parte dell’AP, occupazione coloniale e razzismo ai checkpoint.

Secondo i leader, sebbene ci siano degli ostacoli, si sta passando da una società  che tace a una società più responsabile sulle libertà sessuali e di genere e sull’accettazione della diversità, ma ciò che importa è che tutto questo possa servire  per un discorso politico più ampio, ovvero per creare consapevolezza sui diritti sessuali, sul colonialismo israeliano e sul pinkwashing.

 

 

 

 

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