In che modo le università fungono da avamposti del dominio coloniale israeliano

Enforcing Silence: Academic Freedom, Palestine and the Criticism of Israel, a cura di David Landy, Ronit Lentin e Conor McCarthy, Zed Books (2020)

English version 

Di Josh Ruebner – 11 Agosto 2020

Oggi pochi nell’ambito accademico   sono in una posizione migliore di Rabab Abdulhadi per esporre le tirannie amministrative e le persecuzioni legali che sono la sciagura e la rovina di molti professori.

Rabab Abdulhadi, professoressa associata presso l’Università Statale di San Francisco, è stata l’obiettivo di tre cause legali fallite intentate dal Lawfare Project  filo-Israeliano che mirava a zittire la sua voce in difesa dei diritti dei palestinesi.

La sua prefazione a questa raccolta di saggi sugli sforzi di Israele e dei suoi sostenitori per sopprimere il dibattito accademico è appropriata:

“Non ho visto la mia storia come un mio patrimonio personale o una particolare esperienza; riflette e rappresenta le storie collettive di eminenti intellettuali all’interno e fuori l’accademia che cercavano di esprimersi per la giustizia in e per la Palestina”.

La sua incapacità di contribuire a un capitolo come aveva originariamente previsto è un esempio del fenomeno stesso illustrato tra le pagine del libro. Il suo tempo per scrivere è stato assorbito dalla necessità di rispondere a un reclamo amministrativo presentato sotto la minaccia di un’azione disciplinare per il suo attivismo.

In un altro punto del libro, David Landy, professore associato di sociologia al  Trinity College Dublin, si riferisce a questa tattica come “attacchi dei cartellini dei prezzi (vandalici) contro i critici di Israele, che dovrebbero essere costretti a subire per ogni critica fatta a Israele.”

Landy definisce giustamente tali attacchi, il cui termine prestato, “cartellini dei prezzi”, si riferisce agli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi e le loro proprietà nella Cisgiordania occupata, “come un’estensione delle pratiche di dominio coloniale”.

Altri collaboratori del libro vedono analogamente la soppressione del dibattito accademico critico nei confronti di Israele come una logica conseguenza della politica coloniale di dominazione sul popolo nativo palestinese .

Ronit Lentin, professoressa associata di sociologia in pensione, anche lei al Trinity College Dublin, spiega in dettaglio come Israele abbia “reclutato con successo accademici israeliani come collaboratori attivi nella colonizzazione della Palestina”. Scrive che questo modello serve come “risorsa, o strategia, per ostacolare la libertà accademica e il libero dibattito sulla colonizzazione israeliana della Palestina in altre parti del mondo”.

Altri tentativi di imporre il dominio coloniale israeliano sul popolo palestinese sono più subdoli, come documentato da Hilary Aked nel suo saggio sul proliferare dei dipartimenti di studio israeliani presso le università britanniche.

Questi dipartimenti sono ben finanziati da una piccola cerchia di donatori filo-israeliani in concomitanza con la propaganda ufficiale “Brand Israel” che cerca di “ampliare la discussione su Israele in modo che il paese non sia visto solo attraverso la lente della violenza istituzionale”, spiega Aked.

“Eliminazionismo”

Attacchi ben finanziati e ben coordinati sul dibattito accademico critico nei confronti di Israele sono ampiamente e consistentemente documentati in questa raccolta.

Il caso di Steven Salaita influenza quasi tutti i saggi del libro. Salaita è stato licenziato dal suo nuovo incarico presso l’ University of Illinois at Urbana-Champaign e cacciato dall’ambiente accademico per i suoi tweet “incivili” in risposta al massacro israeliano di bambini palestinesi a Gaza nel 2014.

Il licenziamento di Salaita fu un’estensione delle “cospirazioni punitive dell’eliminazionismo coloniale estremista”, scrive C. Heike Schotten, che insegna scienze politiche all’Università del Massachusetts di Boston, nel contributo più provocatorio ed eccezionale del libro.

La logica è quella di eliminare la popolazione autoctona attraverso l’assimilazione totale nella “missione civilizzatrice” del colonizzatore o attraverso la loro estirpazione in caso di rifiuto.

“Assunto per insegnare in un Dipartimento di Studi Indigeni, Salaita fu licenziato perché rappresentava e difendeva l’esistenza e la resistenza dei popoli nativi (palestinesi o meno), ed è proprio questa rappresentazione e difesa che è inconcepibile”, afferma Schotten.

La neo-liberalizzazione, commercializzazione e la mercificazione delle università rendono anche le facoltà suscettibili di pressioni esterne e interne alla linea su Israele.

Nick Riemer, docente di inglese e linguistica presso l’Università di Sydney, sostiene che gli amministratori universitari utilizzano le denunce sioniste come “uno strumento di controllo sociale a livello di campus”.

Queste denunce forniscono “un deterrente contro i membri del personale che in genere sono impegnati anche in una serie di altre attività che li mettono regolarmente in conflitto con le autorità universitarie”, come il coinvolgimento sindacale e la critica nei confronti dell’amministrazione universitaria.

Sinead Pembroke, che ha conseguito un dottorato in sociologia presso l’Istituto Universitario di Dublino, discute la crescente dipendenza dalle facoltà associate come misura di riduzione dei costi, lasciando molti accademici privi di collegialità e protezione legale nel caso in cui venissero attaccati per le loro opinioni politiche. Di conseguenza, molti si autocensurano.

Controintuitivo

Molti di questi saggi mettono in discussione l’utilità di invocare argomenti di libertà accademica per salvaguardare la discussione sulla Palestina.

A prima vista, questo sembra essere controintuitivo in quanto gli accademici potrebbero argomentare in modo plausibile e persuasivo la loro prerogativa di ricercare, insegnare e dibattere come meglio credono senza interferenze.

Tuttavia, questi stessi principi possono essere citati dai sionisti nella loro opposizione al Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a sostegno dei diritti dei palestinesi.

La nozione di libertà accademica “non offre la chiarezza politica necessaria per mostrare ciò che è effettivamente in gioco nella differenza tra sostenitori del boicottaggio e oppositori”, scrive Riemer.

Invece, aggiunge Riemer, “il modo più efficace per boicottare e difendere i boicottatori è porre fine all’apartheid contro i palestinesi,” esortando i sostenitori del BDS a favorire un dibattito basato sui valori.

E, come osserva John Reynolds del dipartimento di giurisprudenza dell’Università Nazionale Irlandese di Maynooth, la libertà accademica è stata sempre più impiegata dalla destra per praticare il razzismo e la supremazia.

“Quando si tratta di esprimere posizioni anticoloniali e antirazziste, la libertà accademica rimane vulnerabile e condizionata”, sostiene.

Al contrario, “gli argomenti di libertà accademica che vengono schierati al servizio del colonialismo” hanno trovato una rinascita “che trasuda modelli e programmi estremisti molto particolari”, come l’apologismo per le atrocità coloniali.

Studenti e governo

Questa raccolta avrebbe potuto prestare maggiore attenzione alle repressioni amministrative ed esterne nei confronti degli studenti che si organizzano a sostegno dei diritti dei palestinesi.

Gli attivisti studenteschi sono sottoposti forse ad una sottomissione ancora più feroce dei docenti attraverso una disciplina amministrativa, praticata dal personale filo-israeliano preposto del campus, e il doxing malevolo da parte di siti web come Canary Mission.

La raccolta avrebbe anche beneficiato di una profonda conoscenza degli sforzi autoritari del governo degli Stati Uniti per fondere le critiche a Israele con il fanatismo anti-ebraico allo scopo di definanziare le università ritenute troppo permissive nei confronti del dibattito critico nei confronti dello stato sionista.

Questa inquietante intrusione governativa e questa prepotenza sono incarnati da Kenneth Marcus, l’assistente segretario per i diritti civili del Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti recentemente dimesso.

Marcus ha aperto la strada alla strategia di presentare denunce al dipartimento sostenendo falsamente che gli studenti ebrei hanno subito persecuzioni e discriminazioni nel campus a causa del dibattito critico nei confronti di Israele.

Servendo all’interno dell’amministrazione Trump, Marcus avanzò questa falsa agenda con potenziali durevoli conseguenze. Qualsiasi discussione sul silenzio accademico sulla Palestina è incompleta senza valutare questa pressione governativa.

Josh Ruebner è professore aggiunto presso il dipartimento di studi sulla giustizia e la pace presso l’Università di Georgetown.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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