Lo Stato sta usando svariati mezzi per creare la percezione che le sue politiche nei confronti dei palestinesi siano state guidate da preoccupazioni per la sicurezza
di Jonathan Cook, 20 agosto 2020
Copertina – Un campo profughi palestinese nel 1949. Gli archivi israeliani confermano massacri di civili palestinesi compiuti nel 1948, anno in cui fu fondato Israele. Alamy Stock Photo
Quando nel 2002 l’attore palestinese Mohammed Bakri realizzò un documentario su Jenin – fece le riprese subito dopo che l’esercito israeliano aveva finito di infuriare sulla città della Cisgiordania, lasciando sulla sua scia morte e distruzione – scelse per la scena di apertura un narratore insolito: un giovane palestinese muto.
Jenin era stata isolata dal mondo per quasi tre settimane mentre l’esercito israeliano radeva al suolo il vicino campo profughi e ne terrorizzava la popolazione.
Il film di Bakri “Jenin, Jenin” mostra il giovane che si muove veloce e silenzioso tra gli edifici distrutti, usando il suo corpo nervoso per illustrare dove i soldati israeliani hanno sparato ai palestinesi e dove i bulldozer hanno fatto crollare le case, a volte sui loro abitanti.
Non è stato difficile dedurre il senso più ampio dell’opera di Bakri: quando si tratta della loro storia, ai palestinesi viene negata la voce. Sono testimoni silenziosi di sofferenze e abusi propri e del loro popolo.
L’ironia è che Bakri ha affrontato un destino simile da quando Jenin, Jenin è stato realizzato 18 anni fa. Oggi, poco si ricorda del suo film, o dei crimini scioccanti che ha ripreso, a parte le infinite battaglie legali per tenerlo fuori dagli schermi.
Bakri da allora è stato trascinato nei tribunali israeliani, accusato di diffamare i soldati che effettuarono l’attacco. Ha pagato un alto prezzo personale. Minacce di morte, perdita del lavoro e infinite spese legali che lo hanno quasi mandato in bancarotta. Nelle prossime settimane è atteso un verdetto nell’ultima causa intentata contro di lui – questa volta sostenuta dal procuratore generale israeliano.
Bakri è una vittima particolarmente importante della lunga guerra di Israele contro la storia palestinese. Ma ci sono innumerevoli altri esempi.
Per decenni molte centinaia di palestinesi residenti nella Cisgiordania meridionale hanno combattuto per non essere espulsi, dato che i funzionari israeliani li qualificano come “abusivi”. Secondo Israele, i palestinesi sono nomadi che hanno costruito sconsideratamente case su terreni sottratti all’interno di una zona di fuoco dell’esercito.
Le controaffermazioni degli abitanti sono sempre state ignorate finché recentemente la verità non è stata portata alla luce negli archivi di Israele.
Queste comunità palestinesi sono, infatti, segnate su mappe antecedenti alla fondazione di Israele. I documenti ufficiali israeliani presentati in tribunale il mese scorso mostrano che Ariel Sharon, un generale diventato politico, ideò una politica che istituisce zone di fuoco nei territori occupati per giustificare espulsioni di massa di palestinesi, come queste comunità sulle colline di Hebron. I residenti hanno avuto la fortuna di vedere le loro affermazioni ufficialmente verificate, anche se poi dipendono ancora dall’incerta giustizia di un tribunale israeliano di occupazione.
Gli archivi di Israele sono stati sigillati in fretta proprio per evitare qualsiasi pericolo che i documenti possano confermare una storia palestinese a lungo emarginata e dimenticata.
Il mese scorso un organismo di controllo dello stato di Israele ha rivelato che più di un milione di documenti archiviati erano ancora inaccessibili, anche se avevano superato la data di desecretazione. Tuttavia, alcuni sono scivolati attraverso le maglie della rete.
Gli archivi, ad esempio, hanno confermato alcuni dei massacri su larga scala di civili palestinesi compiuti nel 1948, l’anno in cui Israele fu fondato spossessando i palestinesi della loro patria.
In uno di questi massacri a Dawaymeh, nelle vicinanze del territorio in cui oggi i palestinesi stanno combattendo contro la loro espulsione dalla zona di fuoco, in centinaia furono giustiziati – anche se non avevano opposto resistenza – per spingere la gran parte della popolazione a fuggire.
Altri documenti hanno confermato le affermazioni palestinesi secondo cui Israele distrusse in quello stesso anno più di 500 villaggi palestinesi durante un’ondata di espulsioni di massa decisa per dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare.
Documenti ufficiali hanno smentito anche l’affermazione di Israele di aver supplicato i 750.000 profughi palestinesi perché tornassero a casa. In realtà, come rivelano gli archivi, Israele ha oscurato il suo ruolo nella pulizia etnica del 1948 inventando una storia di copertura secondo cui furono i leader arabi a ordinare ai palestinesi di andarsene.
La battaglia per sradicare la storia palestinese non si svolge solo nei tribunali e negli archivi. Inizia nelle scuole israeliane.
Un nuovo studio condotto da Avner Ben-Amos, professore di storia all’Università di Tel Aviv, mostra che gli studenti israeliani non imparano quasi nulla di obiettivo sull’occupazione, anche se molti presto la imporranno come soldati di un presunto esercito “morale” che governa i palestinesi.
Le mappe nei libri di testo di geografia eliminano la cosiddetta “Linea Verde” – i confini che delimitano i territori occupati – per presentare un Grande Israele a lungo desiderato dai coloni. Le lezioni di storia e educazione civica evitano ogni discussione sull’occupazione, le violazioni dei diritti umani, il ruolo del diritto internazionale o le leggi locali simili all’apartheid che trattano i palestinesi in modo diverso dai coloni ebrei che vivono illegalmente nella porta accanto.
Invece, la Cisgiordania è conosciuta con i nomi biblici di “Giudea e Samaria”, e la sua occupazione nel 1967 è definita “liberazione”.
Purtroppo, la cancellazione da parte di Israele dei palestinesi e della loro storia è ripresa all’esterno da colossi digitali come Google e Apple.
Gli attivisti della solidarietà palestinese, con l’hashtag #HeresMyVillage, hanno speso anni a lottare per far sì che entrambe le piattaforme includessero centinaia di comunità palestinesi in Cisgiordania sparite dalle loro mappe. Gli insediamenti ebraici illegali, nel frattempo, hanno la priorità su queste mappe digitali.
Un’altra campagna, #ShowTheWall, ha esercitato pressioni sui giganti della tecnologia affinché segnassero sulle loro mappe i 700 chilometri del percorso della barriera di acciaio e cemento di Israele, utilizzata a tutti gli effetti da Israele per annettere i territori palestinesi occupati in violazione del diritto internazionale.
E il mese scorso gruppi palestinesi hanno lanciato un’altra campagna, #GoogleMapsPalestine, chiedendo che i territori occupati fossero etichettati “Palestina”, non solo Cisgiordania e Gaza. L’ONU ha riconosciuto lo Stato di Palestina nel 2012, ma Google e Apple si rifiutano di seguirne l’esempio.
I palestinesi argomentano giustamente che queste aziende riprendono dai libri di testo israeliani la spiegazione adottata per la scomparsa dei palestinesi e che difendono una “mappatura della segregazione” che rispecchia le leggi israeliane sull’apartheid nei territori occupati.
I crimini di occupazione odierni – demolizioni di case, arresti di attivisti e bambini, violenza da parte dei soldati e espansione degli insediamenti – sono stati documentati da Israele, proprio come lo furono i suoi crimini precedenti.
Gli storici del futuro potrebbero un giorno portare alla luce dagli archivi quelle carte e apprendere la verità. Che le politiche israeliane non erano guidate, come ora afferma Israele, da preoccupazioni per la sicurezza, ma da un desiderio coloniale di distruggere la società palestinese e fare pressione sui palestinesi perché lasciassero la loro patria, per essere sostituiti da ebrei.
Le lezioni per i futuri ricercatori non saranno diverse dalle lezioni apprese dai loro predecessori che hanno scoperto i documenti del 1948.
Ma a dire il vero, non abbiamo bisogno di aspettare da qui a tutti questi anni. Possiamo capire cosa sta succedendo ai palestinesi adesso, semplicemente rifiutandoci di prendere parte alla cospirazione che li vuole ridurre al silenzio. È ora di ascoltare.
Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org