“L’annessione potrebbe essere il culmine quando si tratta di una possibile presenza cristiana in Palestina”, dichiarano i pastori che rappresentano quattro delle denominazioni cristiane storiche della Terra Santa. “Per la Palestina, Betlemme e in particolare la sua popolazione cristiana l’annessione sarà particolarmente catastrofica”.
La lettera inviata a Luglio alle missioni diplomatiche in Palestina e Israele, successivamente pubblicata come lettera aperta, denuncia la minacciata annessione di Israele e invita i capi di stato mondiali a “fermare questa grave ingiustizia.”
Scritta dal clero al servizio di sette congregazioni cristiane di Betlemme e delle vicine città di Beit Jala e Beit Sahour, la lettera continua, “questo è un furto di terra! Stiamo parlando di terreni che sono in gran parte di proprietà privata e che le nostre famiglie hanno posseduto, tramandato e coltivato per centinaia di anni.”
Munther Isaac, pastore della Evangelical Lutheran Christmas Church di Betlemme, decano accademico del Bethlehem Bible College e uno dei cofirmatari della lettera, dice: “Il messaggio è motivato da esigenze pastorali; dovevamo parlare per i nostri fedeli. Si tratta del futuro della nostra comunità”.
Nonostante il recente accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il primo ministro israeliano Netanyahu sostiene che i piani di annessione sono semplicemente sospesi. Delle quasi trenta missioni che hanno ricevuto la lettera, solo due hanno risposto per confermare il ricevimento, l’Australia e la Slovenia.
Nonostante la presenza ininterrotta dei cristiani per due millenni, i leader della chiesa in Palestina sono profondamente preoccupati per la diminuzione del numero di famiglie cristiane in Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. A Betlemme, il luogo della natività, la popolazione nel 1947 era all’85% cristiana. Ora è inferiore al 12%. Oggi, dei circa 4,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est, ci sono circa 46.000 cristiani palestinesi e circa 1.100 a Gaza.
Qualè la causa di questa perdita?
Secondo i sionisti, sia ebrei che cristiani, i fedeli cristiani stanno sfuggendo alla violenza dei loro vicini musulmani e alla minaccia di un impero islamico in crescita. La Biblioteca Virtuale Ebraica (Jewish Virtual Library), ospitata dall’Iniziativa American-Israeli Cooperative Enterprise, sostiene: “Per la popolazione cristiana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, la vita sotto il dominio degli islamisti minaccia la loro esistenza come comunità e ha costretto molti a lasciare le loro case.”
È un ritornello comune tra i sostenitori dell’occupazione israeliana e delle politiche di apartheid.
Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.
“Come ogni palestinese, cristiano o musulmano, vi dirà, è l’occupazione israeliana che sta rendendo la vita insopportabile sia per i musulmani che per i cristiani”, ha scritto il reverendo Alex Awad, ex pastore della Chiesa Battista di Gerusalemme Est e membro del Palestinian Christian Alliance for Peace in un articolo apparso nel Washington Report nell’ottobre 2019.
Nel 2017, l’Università Dar al-Kalima della Cisgiordania ha intervistato circa 1.000 palestinesi, metà cristiani e metà musulmani. Tra le conclusioni dello studio: “la pressione dell’occupazione israeliana, le restrizioni continue, le politiche discriminatorie, gli arresti arbitrari, la confisca delle terre hanno aggiunto un senso generale di disperazione tra i cristiani palestinesi,” che si trovano in “una situazione disperata in cui non possono più percepire un futuro per i loro figli o per se stessi.”
Nel libro più recente di Munther Isaac, The Other Side of the Wall: A Palestinian Christian Narrative of Lament and Hope, Isaac scrive:
“In realtà, l’occupazione israeliana controlla ogni aspetto della nostra vita: acqua, movimento, confini e ricongiungimento familiare, per citarne solo alcuni. Termini come posti di blocco, permessi, insediamenti e muro di separazione definiscono la nostra realtà. L’ingiustizia e la disuguaglianza delineano la vita in Palestina oggi”.
“Tutto ciò significa che il numero di cristiani nel paese è diminuito costantemente. Le persone, specialmente le giovani famiglie, sia musulmane che cristiane palestinesi, stanno lasciando la terra e cercano una vita migliore altrove. Stanno cercando opportunità, uguaglianza e libertà che semplicemente non sono per loro disponibili in Palestina.
Nel suo articolo sul Washington Report, Alex Awad ha riconosciuto che “i cristiani in Palestina sentono la pressione di essere una piccola minoranza in una società a maggioranza musulmana e sono ancora più sensibili alle minacce dell’Islam radicale, che mette in pericolo loro così come i loro vicini musulmani. Di tanto in tanto, le minoranze cristiane sperimentano attriti e ingiustizie come accadrebbe per qualsiasi gruppo minoritario in qualsiasi parte del mondo”. Ma Awad, Isaac e altri leader cristiani palestinesi smentiscono le affermazioni secondo cui i cristiani palestinesi se ne stanno andando a causa delle tensioni tra loro e i loro vicini musulmani. Come ha scritto Awad, “La sfida più grande per i cristiani in Palestina è la continua occupazione israeliana”.
I cristiani sono inestricabilmente intrecciati nel tessuto della vita palestinese
I leader delle tredici denominazioni cristiane arabe tradizionali in Palestina sono pronti a ricordare al mondo che la Palestina è la culla del cristianesimo e che, per due millenni, i cristiani arabi hanno custodito i luoghi santi della fede e hanno plasmato, alimentato e protetto la cultura palestinese.
Nel suo discorso alla conferenza del 2007, “I fedeli dimenticati” ospitata dal Centro Sabeel Ecumenical Liberation Center di Gerusalemme, il Patriarca latino emerito Michel Sabbah ha detto: “Siamo esseri umani; facciamo parte della nostra società, di chi muore, di chi va in prigione e di chi si vede demolire la casa. Tutte queste persone sono parte di noi, e noi siamo parte di ogni essere umano, sia musulmani che ebrei. Facciamo parte di questo conflitto perché non è un conflitto tra musulmani ed ebrei; è un conflitto sulla dignità della persona umana e sui diritti umani e la libertà.” [1]
Oggi, le chiese palestinesi mantengono un ampio sistema di scuole, servizi sociali e strutture sanitarie. I loro membri svolgono un ruolo significativo nell’economia palestinese: dall’agricoltura, ai servizi, alla medicina, al settore chiave del turismo. Meno del 2% della popolazione totale in Palestina, i cristiani occupano poco meno del 10% dei vertici dell’Autorità palestinese. I cristiani servono la Palestina come ambasciatori all’estero. A Gaza, ci sono cinque scuole cristiane che forniscono istruzione a 3.000 bambini, tutti, tranne 200, sono musulmani. Gli abitanti di Gaza ricevono servizi medici da cliniche cristiane e da un ospedale anglicano; Un vivace Organizzazione Cristiana Ecumenica Giovanile per Ragazzi (Young Men’s Cristian Association – YMCA) offre attività sportive, culturali e sociali.
I cristiani nativi, descritti come “pietre viventi”, aiutano i pellegrini in visita ad andare oltre la loro venerazione per i luoghi santi. Guide turistiche cristiane, pastori e leader delle organizzazioni della società civile incoraggiano i pellegrini a considerare come Gesù abbia svolto il ministero durante la brutalità dell’occupazione romana del primo secolo, indicando ai suoi adepti non la vita nell'”altro mondo” ma l’opera di redenzione della vita in questo mondo. Alla conferenza “I fedeli dimenticati” il vescovo luterano Munib Younan ha detto: “La giustizia non è politica, è biblica. È una lotta spirituale, ma nasce da una vera lotta universale per liberare gli esseri umani dal peccato di oppressione e occupazione. È l’essenza stessa del ministero della riconciliazione che Gesù è venuto a portarci.” [2]
Di conseguenza, la presenza dei cristiani in Palestina rappresenta una sfida unica per lo stato di Israele, non solo perché fanno parte della cosiddetta “minaccia demografica”. I cristiani si vedono come parte integrante della lotta nazionale per la liberazione, una sfida diretta allo stato di Israele che cerca di trasformare la narrativa dell’occupazione in un conflitto religioso tra musulmani ed ebrei, e mentre lo stato si adopera per promuovere l’emigrazione attraverso le sue politiche di segregazione.
“Una prigione a cielo aperto” e perdita di terra per la crescita della comunità, l’agricoltura e l’alloggio
Nonostante le conseguenze personali, culturali, economiche e ambientali dell’occupazione israeliana, la maggior parte dei cristiani palestinesi sceglierebbe di rimanere nel paese in cui sono nati, dove le loro famiglie hanno vissuto e lavorato la terra da centinaia di anni. Ma i permessi per la costruzione di abitazioni sono difficili o impossibili da ottenere, anche quando c’è terra disponibile. Come afferma la lettera di luglio ai diplomatici:
“Subito dopo l’occupazione del 1967 Israele ha annesso oltre 20.000 dunum di terra (20.000 Km) a nord di Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour, per la costruzione di insediamenti colonici illegali. Ciò ha gravemente ostacolato la nostra capacità di crescere come comunità. Hanno già annesso uno dei più importanti siti religiosi cristiani di Betlemme, il monastero di Mar Elias, ed erigendo il muro hanno separato Betlemme da Gerusalemme per la prima volta nei duemila anni di storia cristiana della Terra Santa”.
Una delle poche aree rimaste per la nostra espansione, così come per l’agricoltura e semplicemente per le famiglie per godersi la natura, sono le valli di Cremisan e Makhrour, entrambe situate a ovest delle nostre aree urbane e sotto l’attuale minaccia di annessione da parte delle autorità israeliane. Ciò interesserà le proprietà appartenenti a centinaia di nostri parrocchiani. C’è una scuola gestita da suore salesiane oltre a un monastero storico. Anche la campagna a occidente di Betlemme è in pericolo, dove alcuni dei nostri parrocchiani coltivano da generazioni, e questo aspetto include anche la Tenda delle Nazioni a Nahhalin. Allo stesso tempo ci sono minacce contro la parte orientale di Betlemme, compresa l’area Ush Ughrab di Beit Sahour, dove da anni si progetta di costruire un ospedale per bambini al servizio della comunità locale”.
La lettera continua: “La nostra più grande preoccupazione è che l’annessione di quelle aree spingerà ancora più persone a emigrare. Betlemme, circondata da mura e insediamenti, sembra già una prigione a cielo aperto. L’annessione significa che la prigione diventa ancora più piccola, senza speranze per un futuro migliore. Questo mese, mentre guardava la sua terra divorata dai bulldozer israeliani impegnati a preparare la strada per un’ulteriore espansione del muro, un parrocchiano così si è espresso:
“È devastante. Vedi bulldozer distruggere la tua terra e non puoi fare nulla. Nessuno li ferma. “
Altri fattori che incoraggiano l’emigrazione palestinese
Alcune organizzazioni “cristiane” in realtà offrono un indennizzo ai palestinesi per lasciare la terra e vivere altrove. Come riportato da The Intercept nel 2018, Paul Liberman direttore esecutivo di Alliance for Israel Advocacy, un gruppo di pressione di Messianic Jewish Alliance of America ha dichiarato:
“La nostra organizzazione sostiene, ed è nella nostra proposta di legislazione al Congresso degli Stati Uniti, e offre aiuto agli eventuali residenti palestinesi che desiderano partire e andare in altri paesi, gli forniremo i fondi per il viaggio. Gli unici diritti dei palestinesi sono i diritti dei profughi. Se ci sono dei residenti palestinesi che vogliono andarsene, gli forniremo i fondi necessari per farlo, con la speranza che nel lasso di dieci anni cambi la demografia della Cisgiordania agevolando un’eventuale annessione”.
Inoltre:
Ai palestinesi musulmani e cristiani è spesso negato il permesso di entrare a Gerusalemme per adorare nei loro luoghi sacri;
Israele rende difficile per i palestinesi che partono per lavoro o per studio il ritorno in Palestina;
Da diversi anni lo stato di Israele minaccia le ONG israeliane che monitorano gli abusi delle forze di occupazione e dei coloni israeliani in Palestina e chiedono la fine dell’occupazione;
Le recenti decisioni unilaterali del presidente degli Stati Uniti di tagliare i finanziamenti statunitensi per i programmi dell’UNRWA e gli ospedali palestinesi hanno severamente limitato la disponibilità di servizi sociali e sanitari;
Il trasferimento da parte del presidente degli Stati Uniti dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e il suo piano per la “pace” e la “prosperità” hanno favorito l’instabilità politica e l’insicurezza;
I governi mondiali esprimono solidarietà, ma non intraprendono azioni decisive per porre fine all’occupazione;
L’indifferenza della chiesa occidentale per la difficile situazione della loro famiglia palestinese isola la chiesa in Palestina;
La stampa occidentale sostiene la propaganda israeliana secondo cui l’occupazione è il risultato di un conflitto religioso tra le fedi di ebrei e musulmani, documentando raramente l’attività, i contributi e anche la presenza, dell’intraprendente comunità cristiana in Palestina.
Sperare quando c’è poca speranza
L’appello dei pastori ai diplomatici conclude: “Restiamo impegnati per la pace con la giustizia, e troviamo forza nell’appoggio di molti in tutto il mondo, in particolare il sostegno di molte chiese. Ci auguriamo che il mondo intraprenda azioni decisive e concrete per porre fine a questa ingiustizia e creare le condizioni per ripristinare la speranza per un futuro di giustizia e pace che questa terra merita”.
Il Patriarca emerito Sabbah ha detto: “Quanto a noi, diciamo: una visione cristiana del futuro è essenzialmente una visione di speranza, una speranza basata sulla fiducia nella bontà di Dio, così come nella bontà fondamentale di tutti gli esseri umani che sono figli di Dio. Alcuni di noi se ne andranno. Ma coloro che rimarranno vivranno e cresceranno nell’amore, gli uni per gli altri, e per tutta la nostra società.”
Per ulteriori informazioni, è consultabile un recente e diretto appello alle chiese di tutto il mondo scritto da cristiani palestinesi e dai loro amici internazionali, Grido per la speranza: Cry for Hope: A Call to Decisive Action
Note:
1.I fedeli dimenticati: una finestra sulla vita e la testimonianza dei cristiani in Terra Santa (Editors Ateek, Duaybis & Tobin, 2007, Editore Sabeel Ecumenical Liberation Center
2. Ibid
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org