L’obiettivo dei manifestanti palestinesi a Kafr Qaddum è semplice: Aprire la strada per Nablus e smettere di farsi trattare come inferiori. Il principio alla base è altrettanto fondamentale: Trattateci come esseri umani.
Di Amira Hass – 29 Agosto 2020
I soldati inviati a Kafr Qaddum per sedare le dimostrazioni in corso sono in un’operazione di combattimento. Questa è la posizione dello Stato, come espresso nelle dichiarazioni in sua difesa negli ultimi anni dai pubblici ministeri di Tel Aviv, a quattro cause legali da parte di palestinesi feriti dall’esercito israeliano e dal fuoco della polizia di frontiera durante queste proteste.
I denuncianti: un ragazzo di 11 anni, una manifestante di 64 che porta una bandiera, entrambi residenti nel villaggio della Cisgiordania, e due giornalisti che non vivono nel villaggio.
E poiché si tratta di un’operazione di combattimento, lo stato è immune a queste cause. Le dichiarazioni giurate a sua difesa sono state redatte dagli avvocati dell’ufficio del procuratore di Tel Aviv, coordinati dall’avvocato Ariel Ararat. Abbas Assi e Mika Banki del tribunale del magistrato di Gerusalemme sono i giudici che hanno assolto lo Stato.
Questa è il contesto in cui operavano i soldati che hanno piazzato esplosivi nel villaggio circa due settimane fa, anche se non avevano ricevuto l’ordine dai loro superiori: Sono in servizio di combattimento, e i confini di quello che i soldati possono fare in combattimento sono vasti e flessibili.
Fino alla fine del 2014 le poche richieste di risarcimento danni da parte di palestinesi colpiti o feriti dall’esercito sono state gestite dai pubblici ministeri del distretto di Gerusalemme. Le “operazioni di combattimento” non erano l’unica linea della loro difesa. Il fotografo Jafar Shtayeh, ad esempio, il cui braccio è stato rotto da soldati con l’uso di uno sfollagente nell’agosto 2012 (mentre picchiavano anche altri fotografi come parte di una politica per ostacolare la copertura delle manifestazioni a Kafr Qaddum), ha raggiunto un compromesso con i pubblici ministeri senza che lo Stato reclamasse l’immunità.
Ma dal 2015 i casi sono stati trasferiti alla procura del distretto di Tel Aviv dove le “operazioni di combattimento” sono diventate una vera linea di difesa.
Nel 2004, l’esercito ha bloccato l’uscita orientale di Kfar Qaddum che porta direttamente a una strada di accesso a Nablus, sostenendo che la strada passa attraverso una nuova parte dell’insediamento israeliano di Kedumim. Il tempo di viaggio verso Nablus è aumentato da 15 a 40 minuti.
Sarebbe superfluo quantificare il costo della strada bloccata al villaggio: il carburante necessario, l’usura delle gomme, il tempo di percorrenza. Ma il sentimento di ingiustizia non può essere quantificato. Mentre le autorità fanno del loro meglio per ridurre il tempo necessario ai coloni per guidare verso Israele e tornare, rende i viaggi dei palestinesi più lunghi.
Questa è un’altra espressione di come gli stratagemmi burocratici e di pianificazione classificano i palestinesi come esseri umani inferiori. Nel 2011 i residenti hanno iniziato a manifestare per rimuovere il blocco e le proteste sono proseguite quasi settimanalmente.
I residenti non stanno protestando contro l’espropriazione di circa 2.500 dunam (2.500 Km) della loro terra a beneficio degli insediamenti vicini. Non chiedono, in quelle proteste settimanali, un ritorno al normale accesso alla loro terra tutti i giorni, invece che, come ha deciso l’esercito, solo due volte l’anno (pochi giorni per la raccolta delle olive e qualche giorno per l’aratura e il diserbo).
L’obiettivo delle dimostrazioni è molto semplice e specifico, ma c’è un principio di fondo: smettetela di trattarci come persone di quarta classe.
SEI BAMBINI COLPITI
Dall’inizio delle manifestazioni, circa 100 residenti (compresi alcuni fotografi) sono stati colpiti e feriti dai soldati israeliani. Sei di queste persone sono minorenni. Il 15 febbraio, i soldati hanno sparato alla testa a Mohammed Shteiwi, 14 anni, con un proiettile di gomma a distanza ravvicinata. Lui ei suoi amici erano stati in un boschetto fuori dal centro abitato del villaggio. Hanno visto i soldati e si sono nascosti.
Mohammed è stato colpito mentre si sporgeva per vedere cosa stava succedendo. I portavoce dell’esercito hanno detto che all’epoca dei fatti c’erano stati disordini nel villaggio, ma non hanno provato che Mahammed avesse partecipato. Era un giovedì e non ci sono state manifestazioni, hanno sottolineato gli abitanti del villaggio. Mohammed ora si trova in uno stato vegetativo.
Nel luglio 2019, i soldati hanno sparato alla testa a Abdel Rahman Shteiwi, 10 anni, mentre si trovava vicino alla casa di un amico a circa 200 metri da dove si è svolta una manifestazione, luogo anche di uno scontro con i soldati. Abdel Rahman ora si trova su una sedia a rotelle, non cammina più.
In tempi di normali le tattiche dissuasive e intimidatorie dei soldati sono più moderate. I soldati hanno arrestato bambini di età compresa tra 4 e 9 anni, li hanno ammanettati, appeso foto di minori nel villaggio e minacciato di arrestarli, hanno aizzato cani contro i manifestanti, hanno lanciato grosse pietre contro i manifestanti, hanno teso un’imboscata a un bambino di 7 anni, hanno sparato bucando i serbatoi d’acqua sopra le case durante il lockdown del coronavirus, danneggiato automobili e tagliato pneumatici, e hanno sparato in piena notte gas lacrimogeni nella casa di Murad Shteiwi, uno degli organizzatori delle manifestazioni. Già in aprile un piccolo esplosivo realizzato con una granata stordente era nascosto tra alcune piccole pietre.
Dall’inizio delle manifestazioni, durante vari periodi, l’esercito ha arrestato 170 residenti del villaggio che sono stati costretti a pagare 250.000 shekel (62.000 €) di sanzioni come parte del processo legale militare, dice Murad Shteiwi.
“DISORDINE E TERRORISMO”
L’avvocato Ararat e i suoi subordinati nel distretto di Tel Aviv agiscono proprio come qualsiasi avvocato entusiasta di difendere un cliente. Pertanto, definiscono le manifestazioni come “disordini, terrorismo e una prosecuzione del terrorismo di accoltellamento” (anche se queste manifestazioni sono iniziate molto prima e sono durate molto tempo dopo gli attacchi solitari del 2015 e 2016). Agli avvocati non interessa che la soppressione di una manifestazione tramite gas lacrimogeni e granate stordenti o proiettili letali inizi all’interno del centro abitato di un villaggio, tra le case. Descrivono i manifestanti come criminali che cercano di attaccare i coloni di Kedumim, e in questo modo ignorano che i residenti di Kafr Qaddum hanno scelto la protesta popolare come mezzo per sfidare e manifestare contro la politica israeliana mirata a danneggiarli, e consapevolmente non hanno scelto altri mezzi.
Gli avvocati, nel loro ruolo di difensori dello stato, attribuiscono ai manifestanti intenti che non hanno (“irrompere nell’insediamento di Kedumim e devastarlo”), e diffamano le persone che presentano denunce. Dicono che Khaled Shteiwi, 11 anni (ferito a una gamba da un agente della polizia di frontiera nel marzo 2016, mentre un adulto intervenuto per aiutarlo è stato colpito e ferito da un altro poliziotto) “ha dei considerevoli trascorsi di coinvolgimento nei disordini contro le forze israeliane.” Lo dicono anche se, quando i manifestanti sono stati uccisi, non sapevano che la polizia era presente perché si nascondevano dietro un cumulo di sabbia.
Il fotografo Ahmed Tala’at è stato colpito alle natiche da soldati nell’ottobre 2015 mentre trasportava tre telecamere e una maschera antigas, e mentre era in piedi sul ciglio della strada con un gruppo di giornalisti. Nelle parole di Ararat, Tala’at era un “animale inferocito” e non un “tranquillo giornalista come sembra”, anche se lo stato non ha presentato alcuna prova e nessun soldato ha mai fatto rapporto nei suoi confronti.
Muayyed Shteiwi, un’infermiere, portava una grande bandiera palestinese alla testa della marcia. Quando iniziarono gli scontri, si assicurò di mantenersi a distanza.
Il giorno in cui è stato ferito nell’ottobre 2015, le preghiere prima della manifestazione non si erano ancora svolte. Era nel cortile della moschea, ha sentito i rumori di uno scontro ed è andato con la sua bandiera per vedere cosa stava succedendo. I soldati gli spararono due volte da lontano. Fu ferito all’inguine e alla schiena. I medici non sono stati in grado di estrarre tutti i frammenti dal suo corpo. I pubblici ministeri di Tel Aviv hanno scritto che era coinvolto nell’organizzazione e nell’incitamento delle proteste violente.
Un venerdì di dicembre 2014, Bashar Saleh era in piedi con una grande telecamera su un treppiede, con tutti gli altri giornalisti e fotografi. Quel giorno, alcuni testimoni dissero che dei bambini, alcuni di loro molto piccoli, occasionalmente lanciavano pietre che non colpivano nessuno dei soldati.
I soldati sembravano molto calmi. Uno di loro ha sparato un singolo proiettile alla gamba sinistra di Saleh. Saleh sentì una forte lacerazione nella parte inferiore del polpaccio sinistro. L’avvocato dello stato scrisse: “In conformità con le regole d’ingaggio, è stato sparato un colpo al principale sobillatore con il volto coperto, che munito di una fionda ha messo in pericolo i soldati. Non è stato dimostrato se il denunciante sia stato ferito dai colpi sparati dalle forze di sicurezza”.
Le cause e i verbali delle sessioni mostrano uno schema simile: contraddizioni tra le dichiarazioni iniziali dei soldati e le loro testimonianze successive, documentazione militare in tempo reale e fotografie che sono miracolosamente sparite o accidentalmente sono state cancellate, un computer bruciato, l’esercito che indugia nell’indagare sugli incidenti, soldati che in tribunale dicono di non ricordare l’incidente di cui avrebbero dovuto testimoniare e per il quale hanno presentato una deposizione giurata dettagliata.
Ma quando la linea è che sopprimere la manifestazione è un atto di combattimento, queste lacune non sembrano preoccupare i giudici.
Per quanto poche siano, le richieste di risarcimento contro lo stato per danni a civili disarmati da parte dei soldati sono anch’esse una sorta di manifestazione: una manifestazione di speranza che qualcuno al di fuori dell’esercito si muova fuori dagli schemi e ascolti, ascolti la legittimità e l’equità delle richieste di aprire quella strada e veda che i palestinesi sono esseri umani. Ma la speranza finisce nella delusione.
Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania.
Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org