I fotografi libanesi riflettono sullo scattare fotografie di Beirut dopo l’esplosione del porto del 4 agosto
Fonte:English Version
Jim Quilty – Beirut – 11 settembre 2020
Immagine di copertina: Uno specchio in frantumi all’interno del Beirut International Exhibition and Leisure Centre vicino al porto, in una foto scattata pochi giorni dopo l’esplosione, riflette il Monte Sannin attraverso una delle finestre ad arco dell’edificio (Marwan Tahtah)
La massiccia esplosione che ha devastato il porto di Beirut il 4 agosto ha scioccato tutti. Ad arrivare sulla scena con i primi soccorritori sono stati i fotogiornalisti, poi raggiunti da altri fotografi, attratti dalla portata senza precedenti della devastazione e dalla sua ricchezza di storie.
“Non abbiamo mai visto un’esplosione distruggere così tanto della città in pochi secondi”, ha detto Marwan Tahtah, 39 anni, che fotografa per Getty, AFP e per il quotidiano libanese Al-Akhbar. “Ancora adesso, ogni giorno sogno quel rumore, quelle persone … quel suono.”
Anche se il 4 agosto si era precipitato sul luogo dell’esplosione, Tahtah ha detto di aver fatito fatica a scattare una foto.
“Mi ci sono voluti dieci minuti per concentrarmi – ‘Stai calmo, Marwan. Concentrati’ – e altri 10 o 15 per scattare una foto”. Fa una pausa. “Dopo di che, ci sono voluti forse due giorni per smettere di pensarci.”
Molte storie
Dal giorno dell’esplosione, Tahtah ha scattato fotografie quotidianamente
“Ci sono molte storie che accadono contemporaneamente. Il funerale di un vigile del fuoco”, dice indicando con la testa la funzione religiosa che appare su uno schermo televisivo vicino. “C’è la storia del porto. Ci sono gli aiuti in arrivo all’aeroporto. C’è una manifestazione. Ci sono i volontari che aiutano a ripulire le case delle persone.
“Fino ad ora ho cercato di scattare foto dell’intera città, di tutte le storie … [Ma] non è possibile scattare una foto dell’intera città.”
‘Era importante per il Paese, e per me. In fin dei conti, sono libanese “- Marwan Tahtah, fotoreporter
In due decenni di lavoro come fotografo professionista a Beirut, Tahtah ha ripreso la sua parte di esplosioni e proteste di strada – tutte minimizzate negli ultimi 11 mesi, durante i quali Tahtah ha registrato i momenti più euforici e angoscianti della sua carriera.
Dal 17 ottobre 2019, il Libano ha conosciuto l’euforia di una campagna trans-settaria di disobbedienza civile e di manifestazioni popolari che chiedevano riforme politiche radicali – “al-thawra”, la rivoluzione, nella nomenclatura locale.
In contrappunto, il paese è in stato emorragico per crisi economica, collasso finanziario e paralisi politica.
“Ricordo la strada, gli incendi, la gente”, ha detto del 17 ottobre. “Quella è stata la prima volta in cui tutte le persone sono scese in strada insieme. È stato importante per il Paese, e per me. In fin dei conti, sono libanese”.
Una delle celebri foto di Tahtah relativa a quella manifestazione del 17 ottobre è incentrata su un giovane – nudo dalla vita in su, una sciarpa che gli copre il viso, il cellulare tenuto in alto – che si staglia dietro la barricata che brucia dietro di lui.
Che ricorda l’immagine di quella serata è una foto che Tahtah ha scattato pochi giorni dopo l’esplosione. È appena dopo il tramonto nel quartiere devastato di Mar Mikhail; tutto è immobile e nero come la pece. Un paio di fari che si avvicinano delineano due forme umane mentre, parzialmente illuminate dalle luci verdi delle squadre di soccorso, la rovina accartocciata dei silos di grano del porto si ergono in lontananza.
Documentare il trauma
“Il lavoro che faccio è estremamente estenuante”, sospira Dalia Khamissy, con il sottofondo del frinire persistente delle cicale. “Ascolto molto. Per tutto il tempo assorbo i problemi delle persone “.
Anche Khamissy, 47 anni, è rimasta scossa da ciò che ha visto all’indomani dell’esplosione, anche perché riecheggiava il suo precedente lavoro .
La fotografa è conosciuta per “The Missing of Lebanon” la sua serie sulla guerra civile a cui lavora dal 2010.Iniazialmente non aveva avuto alcun desiderio di fotografare qualsiasi cosa fosse collegata alla guerra civile del Libano, ha detto, ma la tragedia di 17.000 persone fatte sparire con la forza durante quel conflitto, le aveva forzato la mano.
Una serie di ritratti, “The Missing of Lebanon” fotografa donne private dei familiari.
Una di esse mostra Imm Aziz seduta su un divano letto, appoggiata al suo bastone. Sul muro dietro di lei sono disposti i ritratti dei suoi quattro figli scomparsi, con una serie di musbaha (rosari) appesi tra ogni quadro . A differenza di molti altri soggetti di Khamissy, Imm Aziz non fissa l’obiettivo, ma guarda oltre l’inquadratura.
Khamissy ammette che il suo lavoro di fotografare la distruzione sulla scia dell’esplosione del porto, sembra un’estensione di “The Missing”.
Mentre le foto che ha scattato dopo l’esplosione non ricreano le caratteristiche formali della serie, il suo metodo di documentazione è lo stesso, in quanto la sua inquadratura di ogni ritratto è condizionata dalle interviste ai suoi soggetti.
In entrambi i casi, sente che i suoi protagonisti sono vittime del sistemico abbandono della classe politica instaurato dalla guerra civile.
Durante l’intervista ad alcuni membri dell’unità di protezione civile che nell’esplosione del porto ha perso 9 vigili del fuoco e un paramedico, Khamissy ricorda una conversazione avuta con un passante casuale.
“Il ragazzo dice:” Ascolta, io ho già pagato il mio conto al Libano “.
“Ho detto: cosa intendi?”
“Dice:” Ho tre fratelli scomparsi … rapiti durante la guerra civile “. Quando hanno trovato i resti di uno dei vigili del fuoco, si è avvicinato al padre del morto e ha detto: “Ascolta, almeno tu hai una fine .Io non ho ancora potuto chiudere la guerra civile”.
“È la storia che si ripete”, dice Khamissy.
Invece di condividere una foto delle famiglie dei vigili del fuoco in lutto, Khamissy sceglie una foto centrata su un rotolo di banconote da 1000 L £ – L £ 18.000 (circa 2,25 dollari ) in tutto.
I soldi erano nelle tasche di Georges, un tassista di 79 anni gravemente ferito nell’esplosione. Sua figlia ha deciso di tenerli come ricordo di quel giorno. Georges è sopravvissuto all’esplosione.
‘Le foto non parlano più di me’
Quando il 17 ottobre in Libano è scoppiata la campagna di disobbedienza civile, Myriam Boulos è andata in centro per fotografare. Le immagini che hanno attirato maggiormente la sua attenzione sono state quelle di giovani uomini a torso nudo che rompevano vetri di finestre e bloccavano le strade con barricate in fiamme.
La pratica che ha prodotto quelle immagini era già evidente nella sua serie del 2015 “Nightshift”. Le foto in bianco e nero di questa serie sono un documento suggestivo della cultura dei ventenni libanesi che fanno festa negli spazi industriali di Beirut. Nei pezzi più impattanti , la fotografia, con il flash di Boulos ,mette in primo piano la cruda fisicità dei suoi soggetti mentre posano e si esibiscono.
Durante le manifestazioni del 17 ottobre, il suo flash cattura la stessa energia viscerale e performativa.
Oggi Boulos, 28 anni, prende le distanze dalla sua serie del 2015. Caratterizza ancora il suo lavoro come un mix di documentazione e ricerca personale, ma sulla scia dell’esplosione del porto ha cambiato il modo e il motivo per cui fotografa .
“Nel 2014, quando ho realizzato Nightshift, ho usato la fotografia … per mettere in discussione il mio posto nella società libanese. Ora uso la fotografia per sfidare o resistere a modo mio alla società.
“Le foto non parlano più di me”, dice. ” A questo punto sono troppo privilegiata perché le cose riguardino me… non sono stato ferita. Non ho perso una persona cara. Non ho perso la mia casa o una mano o un occhio o una gamba o qualunque cosa.”
Laddove Boulos era solita fotografare le persone e poi chiedere i dettagli , ora prima di fotografarle si sente obbligata ad ascoltarne le storie.
“L’immagine non è la priorità … La documentazione è più importante” – Myriam Boulos, fotografa
“Dopo l’esplosione, l’esercito è diventato davvero terribile, così ho lasciato la prima linea e ho accompagnato i feriti alle ambulanze, per documentare le violenze.
” Non è davvero rispettoso scattare una foto con il flash a qualcuno che è appena stato ferito. Il flash è aggressivo, quindi non l’ho utilizzato per fotografare chi era appena stato colpito e vomitava sangue.”
Le foto post-esplosione di Boulos – come il suo ritratto di Nour Saliba in posa nel suo appartamento davanti a una finestra spenta che si affaccia sul porto (pubblicato sulla rivista Time), – vengono scattate a una distanza maggiore. Poiché l’imperativo del documentare è diventato più centrale, l’estetica resta più periferica.
“Fa parte del dare spazio alla persona”, ha detto, “e ascoltare, e non prendere qualcosa dalla persona per i miei bisogni o interessi.
“L’immagine non è la priorità. Sarebbe ancora meglio se le immagini fossero forti, ma non mi odierò per non aver creato immagini forti ora … La documentazione è più importante.”
‘Ora si tratta di guarigione ‘
La maggior parte delle foto nei file del laptop di Vladimir Antaki ritraggono i giovani volontari che si sono riversati negli storici quartieri portuali di Gemmayzeh e Mar Mikhail con scope e pale per unirsi alla pulizia e anche quelli che sono andati per altri motivi , così come le facciate sfasciate e gli interni sventrati delle case.
‘Penso che dovrei documentare un luogo ogni giorno per più di un mese, per mostrare come un edificio “guarisce” ‘- Vladimir Antaki, fotografo
“La città si sta curando”, ha sorriso Antaki, 40 anni. “È pazzesco, ma a due settimane dall’esplosione, andando in giro, non è che non sia successo niente, ma, wow! Giorno e notte le persone cercano di aggiustare le cose, così le persone possono tornare a casa loro.
“Penso che dovrei documentare un luogo ogni giorno per un mese, per mostrare come un edificio “guarisce”,” ha detto. “Ora si tratta di guarigione, piuttosto che di distruzione.”
Le foto documentarie di Antaki sono in netto contrasto con il lavoro per il quale è più conosciuto, la sua serie del 2017 “Beyrouth, Mon Amour” , in cui ha manipolato elettronicamente le immagini di facciate di edifici di quartieri ricchi e poveri attorno alla grande Beirut, contrapponendole e tagliandole per creare immagini caleidoscopiche che ricordano i disegni geometrici non figurativi associati all’arte islamica classica.
La metà inferiore di uno dei suoi paesaggi post-esplosione è occupata dalla spazzatura: un assortimento variegato di sacchetti di plastica, scatole di cartone e imballaggi per alimenti da asporto, sparsi in mezzo a un mucchio di schegge di vetro. Un gruppo di soldati in tuta mimetica e con l’M-16 attraversa la metà superiore dell’immagine, indifferente alla necessità di sgombrare i detriti .
Antaki, che vive a Beirut, e trascorre del tempo tra Parigi e Montreal, sta valutando la possibilità di astrarre alcune delle sue immagini di facciate distrutte di Gemmayzeh e Mar Mikhail, come nel suo lavoro in “Beyrouth, Mon Amour”.
“Penso che farò da cinque a dieci stampe in edizione speciale”, ha detto. “L’unica cosa è che in queste foto c’è un elemento umano. La maggior parte di quelle che ho fatto per “Beyrouth, Mon Amour” non hanno esseri umani, solo facciate. Sarà interessante vedere se riesco a creare qualcosa da queste. Ci vorrà del tempo. ”
Sentirsi smembrata
Il giorno prima dell’esplosione, Maria Kassab si era recata a Berlino per conto dell’università. Si è trovata quindi unita alle migliaia di libanesi che erano all’estero quando è avvenuta la catastrofe, tenuti avvinghiati dai media e dai resoconti sui social riguardo a una tragedia dalla quale il caso li aveva esclusi.
Kassab, 40 anni, risiede da molto tempo a Sioufi, pochi chilometri a sud del porto di Beirut, e molti dei suoi amici sono stati costretti ad abbandonare le loro case. Dopo aver documentato come attivista la campagna di disobbedienza civile libanese, ora, nelle settimane successive all’esplosione, non era in grado di scattare foto o di lavorare.
“È difficile ritrovarsi in un luogo, soprattutto quando il tuo lavoro e i tuoi pensieri sono politicamente coinvolti” – Maria Kassab, fotografa
“Tutto quello che volevo era condividere, sostenere e dare voce alla tragedia”, ha detto. “Ho trovato incredibilmente difficile stare lontano dalla mia famiglia e dai miei amici”.
“Essere lontano dalle strade, in una città diversa, è stato emotivamente e mentalmente destabilizzante. Sembra di vivere in un mondo parallelo, in parte qui e in parte lì. È difficile ritrovarsi in un luogo, specialmente quando il tuo lavoro e i tuoi pensieri sono politicamente coinvolti. Ti senti smembrata “.
Prima dell’esplosione, Kassab stava lavorando a diversi progetti. La sua serie del 2019, “Of Blasts and Illusions”, utilizza stampe in bianco e nero di figure degli anni della guerra civile in Libano. Su queste applica dei glitter, non per decorare la forma originale, ma per deturparla, come in un’esplosione. Un’opera senza titolo, del dicembre 2019, mostra una coppia con un bambino sulla corniche di Beirut, mentre guarda il mare. Applicato con parsimonia sulle tre figure, l’effetto dello scintillio è una cancellazione piena di rimorso.
Usare un cosmetico decorativo per cancellare le persone nelle foto è un gesto ironico adatto a uno spazio espositivo rarefatto. La sua estetica è estranea a quella di chi ha fotografato l’esplosione.
Coloro che hanno scattato foto all’indomani dell’esplosione del 4 agosto tendono ad avere le proprie storie di traumi che si sentono in dovere di raccontare.
Ricordi di cose a cui hanno assistito si mescolano in libera associazione con frammenti di conversazioni con i sopravvissuti – con il pompiere che è sopravvissuto ai suoi amici perché è arrivato in ritardo al porto, con il truccatore le cui mani frettolosamente cucite hanno dovuto essere amputate giorni dopo l’esplosione.
Quando l’attenzione si sposta sulla sua storia, Marwan Tahtah si fa strada attraverso i ricordi dell’esplosione: di essere saltato in bicicletta per andare al luogo dell’esplosione, di essere arrivato all’edificio Électricité du Liban e aver trovato un uomo insanguinato, da solo, sull’asfalto.
“Mi a chiesto se potevo mettergli qualcosa dietro la testa”, ricorda. “Per terra ho trovato uno di quei cuscini che le persone utilizzano quando volano. Ridicolo.
“Chiedono sempre: ‘Se ti trovi in una situazione di emergenza, faresti foto o aiuteresti?'” Solleva lo sguardo dal caffè. “Ovvio che aiuti.”
Marwan Tahtah, Dalia Khamissy, Myriam Boulous, Maria Kassab e Vladimir Antaki sono tra i 17 fotografi presenti in “Lebanon Then and Now, Photography dal 2006 al 2020”, una mostra virtuale curata da Chantale Fahmi e allestita dal Washington’s Middle East Institute fino al 25 settembre
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org