Esule sotto ogni aspetto, Said ha sfidato i comodi approdi del dogma politico a favore dell’errante libertà della complessità.
Fonte: English Version
Khaled Beydoun – 25 settembre 2020
Edward Said, morto 17 anni fa oggi, è stato chiamato in molti modi. Un critico letterario ed un esule, una voce inflessibile a favore dell’autodeterminazione palestinese, un educatore, un apripista, un “normalizzatore” e persino “un profeta della violenza politica”, quella che sta avvenendo negli Stati Uniti oggi, diciassette anni dopo il suo ultimo respiro.
Durante una vita durata quasi sessantotto anni e testimone di correnti e mutamenti geopolitici, Said si è distinto come uno degli intellettuali pubblici più incisivi al mondo. Palestinese di nascita e americano per scelta, Said assunse questo ruolo agli inizi degli anni ’80 in seguito alla pubblicazione di “Orientalismo”, un testo che smantellava le false rappresentazioni europee dell’Islam nei suoi annali letterari.
Questo momento converse con le conseguenze della crisi degli ostaggi iraniani e l’ascesa della Repubblica Islamica dell’Iran, che ri-orientò l’intero Islam come “nemico dell’Occidente”. E a sua volta, spinse Said e il suo lavoro al centro della scena pubblica.
Lì, seduto davanti alle telecamere e accanto a intellettuali contemporanei e avversari, è dove Said crebbe. Discutendo e analizzando le turbolenze politiche del giorno nei corridoi del potere a lungo monopolizzati dagli uomini bianchi, è dove Said – un esule che incarnava il termine fino al midollo- rivelò la sua vera identità: un intellettuale pubblico di prim’ordine, ferocemente fedele alle idee e solo alle idee. Non vincolato a governi o organizzazioni, a entità professionali o partiti politici che potessero interrompere la sua fedeltà alla verità.
Said mise in parallelo la sua vita di intellettuale con un inflessibile impegno per la causa palestinese. Alla fine degli anni ’70, mentre era un professore alle prime armi alla Columbia University di New York, militò come membro del Consiglio Nazionale Palestinese (PNC), un’anomalia considerato il suo rifiuto di arruolarsi in organizzazioni e legarsi ad ideologie. Rimase membro del Consiglio fino al 1991, due anni prima che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) firmassero gli Accordi di Oslo, una misura che denunciò con enfasi e che notoriamente definì la “Versailles palestinese”; non perché non credesse nella pace o nel dialogo, ma perché pensava che Arafat, firmando, aveva ceduto su tutte le richieste palestinesi non ottenendo in cambio nulla di rilevante per i palestinesi.
Sul fronte interno, Said è stata una voce fondamentale per l’American Arab Anti-Discrimination Committee (ADC), la più grande organizzazione per i diritti civili arabo-americani, fornendo una base per analizzare le repressioni delle libertà civili verso gli arabi e i musulmani, repressioni che crebbero negli anni ’90 e aumentarono in modo orribile dopo l’11 settembre.
Nel maggio 2001, diversi mesi prima degli attacchi terroristici dell’11 settembre, Said sostenne un dibattito con il famoso Christopher Hitchens, attestato su posizioni a lui opposte sulla questione della Palestina. Durante la prima parte del dibattito, Said parlò del suo incontro casuale con il pianista e direttore d’orchestra israeliano Daniel Barenboim in un hotel di Londra nel 1994. Nella hall di quell’hotel, uno studioso palestinese che si preparava a tenere una serie di conferenze per la BBC aveva incrociato un musicista israeliano che si preparava per il suo concerto.
Là, in quella hall di un hotel di Londra, in un incontro da cui ci si aspettava che una “testa calda” palestinese e un cittadino israeliano proseguissero l’uno accanto all’altro o addirittura si scontrassero, è dove sbocciò “una grande amicizia”.
I due uomini trascorsero il fine settimana insieme a Londra, alle prese con le loro differenze, grazie all’amore condiviso per la musica. E cinque anni dopo, Said organizzò un concerto per Barenboim alla Bir Zeit University in Cisgiordania. Fu una delle prime volte che un musicista israeliano si esibì nei Territori Palestinesi.
Quella sera, il 29 gennaio 1999, cinquecento persone “si pigiarono” nella Sala Kamal Nasir dell’Università. E per due ore, l’ombra opprimente dei popoli in guerra e gli striduli pericoli che essa faceva risuonare, furono soffocati dalla maestosità della musica.
Questo venne orchestrato da Edward Said. Un autore intellettuale il cui incessante impegno per i principi, in particolare l’umanesimo e la sua ferma opposizione ai dogmi religiosi e secolari, lo spinse a formare legami iconoclastici con menti volubili come Hitchens; impegnarsi in pacati scambi con orientalisti come Bernard Lewis; e perseguire amicizie trasformative con musicisti israeliani come Barenboim.
Esule sotto ogni aspetto, Said ha sfidato i comodi approdi del dogma politico a favore della errante libertà della complessità. Si rifiutò di lasciarsi vincolare da una qualsiasi delle sue molte identità e si ribellò furiosamente a tutti i singoli confini intellettuali.
Lo fece rimanendo fermamente legato ai principi e alle questioni che formavano il nucleo delle sue preoccupazioni intellettuali: l’autodeterminazione palestinese, la scoperta dell’Islam oltre il suo vincolo orientalista e l’umanesimo che legava i due.
Troppo spesso un dogma che monopolizza il cuore sembra rivendicare una ristretta trama di rettitudine morale, apparendo a volte fissato nel punire coloro che osano andare oltre. La destra fa esattamente lo stesso anche se, ovviamente, con molto più peso politico e risorse dietro di sé: l’isteria attorno a termini come “teoria critica” è progettata per intimidire, non per persuadere.
Contro questo tetro paesaggio di posizioni trincerate e fortificate come i Campi delle Fiandre, Said, un intellettuale americano palestinese che ha sfidato i sistemi binari e gli estremi di tutti gli ordini, conta ancora oggi.
In effetti, l’ironia dei recenti commenti che appiccicano a Said l’etichetta di “profeta violento” dei recenti movimenti, rivela l’ignoranza su chi sia stato e su quale sia stato il suo lavoro. Said non solo rifiuterebbe l’anti-intellettualismo che stende una mano arrogante contro il libero scambio e la libertà accademica, ma si ribellerebbe e combatterebbe per preservare queste idee.
Oggi, con poche eccezioni, gli esperti di sinistra e di destra sono impegnati in un continuo scambio vizioso e insulso di attacchi personali. Gli attacchi divampano attraverso un divario politico sempre più ampio, quasi mai incontrandosi nel mezzo per discutere.
Fare quello che ha fatto Said oggi sarebbe “programmare ” un “nemico”, per usare il particolare linguaggio da attivismo politico. È difficile immaginare qualcosa come i dibattiti tra Said e Hitchens, (che alla fine divenne un sostenitore della guerra illegale in Iraq), sulla Guerra al Terrore e sullo “scontro di civiltà” che la supporta. E la scissione intellettuale manichea prevalente in troppe arene abortirebbe la possibilità che il palestinese Said faciliti la performance musicale dell’israeliano Barenboim in Cisgiordania e le molte conversazioni che seguirono. Avrebbe fatto pressioni contro di essa e avrebbe messo in dubbio la stessa amicizia come sleale o sovversiva.
Nel processo, questa divisione avrebbe privato un popolo oppresso di quell’inafferrabile libertà ispirata dalla musica. Questo potrebbe sembrare banale ed eccentrico se paragonato ai veri mali che gli attivisti stanno combattendo oggi. Ma la musica, la cultura, l’impegno intellettuale hanno un modo di trasformare la realtà che trascende e contraddice anche gli ostacoli materiali più duri. La musica si libra e vaga oltre i confini tracciati dall’uomo lungo territori contesi, oltre i confini ideologici disegnati ancora più profondamente nelle menti; permette di stabilire connessioni e alleanze dove anche lo scambio polemico più ispirato non può forgiarne nessuno.
Niente di tutto questo vuole suggerire che Said non sosterrebbe oggi negli Stati Uniti la lotta di “Black Lives Matter”. Naturalmente, lo farebbe, e lo farebbe in termini forti. Ma ricostruire Edward Said come un totem di violenza anti-intellettuale, vuol dire commettere lo stesso atto di revisionismo storico che lui disarmò così magistralmente con la sua penna. E ancor di più, con il suo percorso di vita personale.
Said ha vagato in modo indipendente al di sopra degli scismi sempre più diffusi del dogma che, nel 2020, acquieta le sinfonie del libero scambio e inghiotte coloro che osano attraversare quella distesa di mezzo, quella che l’acuta pensatrice americana Sarah Kendzior ha definito l’intellettuale “paese cavalcavia” in cui le sfumature sono trascurate e alla complessità viene data carne, ossa e voce.
Come la musica, Said – l’esule che trovava stabilità solo nei santuari dei principi e nelle pubbliche piazze dell’impegno e dello scambio intellettuale – vagava ribelle di fronte al patriottismo sciovinista che ci intrappola oggi. Raramente la sua voce è mancata così dolorosamente.
Khaled A. Beydoun è professore di diritto presso la Wayne State University e autore dell’acclamato “American Islamophobia: Understanding the Roots and Rise of Fear”. Insegna alla Wayne State University di Detroit e fa parte della Commissione per i diritti civili degli Stati Uniti.
Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org