Il 30 ottobre, a 74 anni, il giornalista che ha raccontato il Medio Oriente è deceduto dopo essere stato colto da un malore, un ictus, nella sua casa di Dublino, dove si trovava dopo una vita passata nella sua seconda città, Beirut, capitale del Libano, dalla quale ha scritto tra i più importanti reportage e libri sui disastri dell’area
Fonte: il fatto quotidiano
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di Gianni Rosini | 2 NOVEMBRE 2020
Dai Troubles nordirlandesi alle interviste con Osama bin Laden, dai massacri della guerra civile libanese alle Intifada palestinesi. Dalla metà degli Anni 70, Robert Fisk ha vissuto in prima persona i principali eventi storici mondiali, diventando un punto di riferimento per giornalisti e tutti coloro che si sono interessati agli sviluppi nella scena mediorientale. Il 30 ottobre, all’età di 74 anni, questo mostro sacro del giornalismo di guerra è morto dopo essere stato colto da un malore, un ictus, nella sua casa di Dublino, dove si trovava dopo una vita passata nella sua seconda città, Beirut, capitale del Libano, dalla quale ha scritto tra i più importanti reportage e libri sui disastri del Medio Oriente, tanto da essere stato definito dal New York Times, nel 2005, “probabilmente l’inviato di guerra più famoso al mondo”.
Classe 1946, inglese di nascita, ma irlandese d’adozione, Fisk ha iniziato la sua carriera al Sunday Express, ma già nei primi Anni 70 è diventato corrispondente da Belfast, dove aveva seguito il conflitto nordirlandese. Nel 1976 la svolta che ha cambiato la sua vita professionale e che gli ha permesso di diventare uno dei più importanti corrispondenti di guerra del giornalismo internazionale: si trasferisce a Beirut, dove vivrà per gran parte della sua vita, per seguire i più importanti eventi della storia mediorientale prima per il The Times e poi per l’Independent, con alcuni contributi pubblicati anche sul Fatto Quotidiano.
È da lì che ha seguito, girando in lungo e in largo tutta la regione, la guerra civile libanese, testimone dei massacri, tra gli altri, di Sabra e Shatila, la rivoluzione iraniana degli ayatollah, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la guerra Iran-Iraq, i conflitti del Golfo e l’intervento occidentale per la lotta ad al-Qaeda, prima, e quello contro Saddam Hussein, poi. Quarant’anni di carriera fatti di scoop, reportage che gli sono valsi numerosi premi, libri che sono diventati testi sacri per chi si avvicina con interesse alla storia del Medio Oriente, ma anche di numerose critiche. Tra tutte, quelle ripetute con i vari governi israeliani. Le ricevette quando condannò l’operato dell’allora ministro della Difesa, Ariel Sharon, colpevole di “aver lasciato entrare nei campi (le Falangi libanesi, ndr) per ‘spazzare via i terroristi’”. Lo colpirono anche durante le Intifada, quando la sua penna si scagliò più volte contro le operazioni di rappresaglia militare messe in campo da Tel Aviv. Racconti poi raccolti nei suoi due libri più celebri: Il Martirio di una Nazione e Cronache Mediorientali.
Della sua carriera si ricordano soprattutto le tre intervista fatte negli Anni 90 a Osama bin Laden, leader di al-Qaeda che in quegli anni stava progettando i primi attacchi contro obiettivi americani, come quelli del 1998 alle ambasciate di Dar es Salaamin Tanzania e di Nairobi in Kenya. È stato lui il primo reporter occidentale a incontrare faccia a faccia e a raccontare in prima persona colui che di lì a poco sarebbe diventato per il pubblico internazionale Lo Sceicco del Terrore.