Copertina: Alenia Aermacchi ha firmato con la israeliana Elbit Systems Ltd. un contratto di supporto logistico (Cls) per i 30 addestratori avanzati M-346 ordinati dal Ministero della Difesa israeliano a luglio 2012. Il contratto ha un valore, per la quota di Alenia Aermacchi, di circa 140 milioni di dollari.
Fonte: https://www.brindisireport.it/economia/supporto-logistico-agli-m-346-per-israele.html
Ottobre 2020 – a cura di UGO GIANNANGELI
Ho riprodotto testualmente il titolo di un interessante articolo pubblicato sulla rivista Giurisprudenza penale il 21 settembre 2020, a firma di Laura Duarte, Giuseppe Sambataro e Stefano Trevisan. L’articolo indaga la possibile rilevanza penale dell’attività di esportazione di armamenti qualora questi vengano impiegati illecitamente contro obiettivi civili e mira a delineare lo standard comportamentale a cui l’esportatore di armamenti deve attenersi.
Nell’articolo si ricorda la denuncia presentata alla Procura della Repubblica di Roma da Rete italiana per il disarmo per la vendita di armamenti da parte dell’Italia all’Arabia Saudita e agli Emirati arabi uniti, armamenti poi utilizzati nel conflitto in Yemen. Le armi sono prodotte da RWM Italia Spa e consistono prevalentemente in bombe d’aereo e missili. Nel settembre del 2019 il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione del procedimento seguito alla denuncia di RID e nel prossimo gennaio 2021 si svolgerà l’udienza avanti al GIP a seguito della opposizione dei denuncianti alla richiesta di archiviazione.
Occorre ricordare anche una precedente denuncia presentata nel 2014 alla Procura della Repubblica di Varese da alcuni attivisti del Comitato varesino per la Palestina per la vendita di 30 aerei M 346 da parte di Alenia Aermacchi (ora Leonardo) ad Israele. Come nel caso della vendita da parte di RWM Italia così anche a Varese è intervenuta una richiesta di archiviazione e la successiva opposizione dei denuncianti è stata respinta dal GIP. Nel caso varesino il pubblico ministero si è limitato ad acquisire le autorizzazioni ministeriali all’esportazione e, a fronte della loro accertata esistenza, non ha svolto alcuna altra indagine, evidentemente ritenendo legittima l’esportazione degli armamenti per la sola presenza delle autorizzazioni.
Le indagini, invece, in questi casi dovrebbero coinvolgere i ruoli di tutti gli attori economici: i produttori, i finanziatori, gli esportatori estendendosi sino alle figure governative responsabili del rilascio delle autorizzazioni. BDS Italia, parte del movimento internazionale per il boicottaggio di Israele, ha da poco pubblicato un dossier a sostegno della richiesta di promuovere un embargo degli armamenti nei confronti di Israele.
L’embargo deve essere bidirezionale: non si devono vendere armi ad Israele e non se ne devono acquistare da questo Stato. Desidero soffermarmi sul primo aspetto, la vendita, e verificare quando la vendita diventa complicità nel crimine realizzato con l’arma venduta, in altri termini quando il venditore concorre nel crimine di chi usa l’arma. Occorre anche esaminare se non sia possibile ipotizzare un concorso nel reato dei funzionari statali intervenuti nella procedura autorizzativa della vendita in violazione delle proprie stesse leggi.
È ovvio che non sempre l’uso di un’arma costituisce un crimine perseguibile. Pensiamo alle nostre cause di non punibilità, le esimenti classiche e cioè la legittima difesa e lo stato di necessità: non è punibile la condotta di colui che provoca un danno, al limite anche la morte di una persona, per salvare sé o altri da un pericolo imminente con una reazione proporzionata all’offesa in corso. Se dai casi individuali passiamo all’uso delle armi su scala massiccia, come nel caso di guerre e conflitti, dobbiamo prendere atto di un pericoloso mutamento terminologico risalente agli anni ‘90. Si è iniziato allora a parlare di guerra umanitaria, guerra preventiva, guerra difensiva, guerra giusta, missioni di pace, missioni di peacekeeping; gli eserciti diventavano polizia internazionale. Mai terminologia è stata più ingannevole e fuorviante, tesa a mascherare e giustificare quella che da sempre è la realtà della guerra: morti e distruzioni. A maggior ragione con le guerre più recenti che non vedono eserciti contrapposti ma bombardamenti aerei e devastazioni che vanno a colpire prevalentemente la popolazione civile.
Il tentativo di contrabbandare le guerre come preventive e difensive ha un precedente storico illustre che riguarda proprio Israele. Mi riferisco alla “guerra dei 6 giorni” del giugno 1967. La tesi ufficiale israeliana, largamente accolta nel mondo occidentale, secondo cui Israele era stata costretta a scatenare la guerra contro Egitto, Giordania e Siria per far fronte alla minaccia di annientamento da parte degli arabi è stata contestata per la prima volta nel marzo 1972 dall’ex generale M.Peled che al tempo della guerra dei 6 giorni faceva parte dello Stato maggiore centrale israeliano. Peled negò che nel ‘67 Israele corresse il rischio di essere annientato e la sua rivelazione è stata successivamente confermata dal generale E. Weizman e dal generale H. Bar-Lev, entrambi membri dello Stato maggiore dell’esercito israeliano. Nonostante queste autorevoli smentite tuttora la vulgata corrente rappresenta quella guerra di attacco e di occupazione come guerra difensiva.
Ai limitati fini di questo scritto posso esimermi da disquisizioni semantiche e soffermarmi sul caso più semplice e meno contestabile di violazione del diritto umanitario nel corso di operazioni belliche, aggressive o difensive che siano: l’uso di armi contro civili e obiettivi civili. Non sono mancati tentativi di legittimare o quantomeno giustificare vittime civili. È in corso, ad esempio, il tentativo di giustificare un certo numero di vittime civili, definite “collaterali”, asseritamente inevitabili nel corso di una azione conforme alle regole di guerra. Si è tentato anche di giustificare l’uccisione di vittime civili per la loro vicinanza parentale o ideologica al bersaglio preordinato nel caso degli omicidi mirati ( ad esempio: vittime durante funerali o matrimoni). Al di fuori di questi casi limite, è difficile che qualcuno possa anche solo tentare di giustificare il bombardamento su una folla inerme, su un ospedale o su una scuola. Sono crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Le uccisioni di civili e le distruzioni di infrastrutture civili da parte di Israele sono la norma: nella quotidianità della occupazione o nel corso di periodici eccidi di massa, quelli che usualmente hanno nomi irridenti, come quelli del 2008/2009, del 2012, del 2014, o quelli contro la Grande marcia del ritorno.
L’articolo citato ricorda che nei moderni conflitti armati sempre più frequentemente gli attacchi militari sono sferrati in modo sistematico contro la popolazione e le infrastrutture civili. I più recenti teatri di guerra- si legge- in Yemen, Siria, Sud Sudan e Libia (significativa l’assenza di Israele, ricorrente in questo e altri scritti sul tema) hanno visto ospedali, scuole, edifici religiosi e mercati bersagli delle ostilità in chiara violazione del principio di distinzione fra la popolazione civile e i combattenti nonchè fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari ( articolo 48, protocollo I, Convenzione di Ginevra del 1977). In tale scenario- si legge- va osservato che anche i soggetti terzi estranei al conflitto sono tenuti a precisi obblighi di condotta e il Trattato internazionale sul commercio di armi nonché la Posizione comune dell’unione europea 2008/ 944 prevedono che gli Stati vietino l’esportazione di armamenti qualora esista un rischio evidente che questi possano essere utilizzati per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale. In Italia la legge 185/90 vieta l’esportazione di armi verso Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo (articolo 1,co.6).
L’accertamento delle violazioni non presuppone necessariamente una sentenza della magistratura. Nel caso di Israele gli accertamenti sono stati molteplici e ad opera di diversi organismi: la missione di inchiesta delle Nazioni Unite presieduta dal giudice Goldstone per l’eccidio del 2008/9 ( “Piombo fuso”); Amnesty International, in particolare per l’eccidio del 2012 (“Pilastro di difesa”); in varie occasioni Human Rights Watch, il Tribunale Russel, il Consiglio dei diritti umani dell’ONU, l’Assemblea dell’ONU in decine di risoluzioni, sino a giungere al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che con la risoluzione n. 2334/2016, pur non facendo riferimento alle uccisioni di civili, ha condannato l’occupazione, il trasferimento di civili palestinesi e di coloni, la confisca di terre, le demolizioni di case e ha denunciato la violazione da parte di Israele delle leggi umanitarie e di importanti risoluzioni ONU.
Le norme sopra ricordate che vietano l’esportazione sono sistematicamente inosservate, come denunciato anche dal Parlamento europeo nella Risoluzione del 14 novembre 2018. A maggior ragione, allora, occorre prendere in considerazione l’ipotesi di un concorso di tutti gli attori economici e istituzionali responsabili della esportazione di armamenti nei reati di omicidio commessi a danno di civili.
Il termine “due diligence” indica l’attenzione che una persona ragionevole deve esercitare per evitare danni ad altre persone o ai loro beni. Si parla di due diligence anche in relazione all’obbligo di imprese e di imprenditori, in aggiunta agli Stati, di attenersi a un comportamento diligente nello svolgimento della propria attività economica. Nel 2011 il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato con la Risoluzione numero 17/4 i principi guida su imprese e diritti umani, in altri termini ha imposto agli imprenditori una gestione prudente dell’attività di impresa in modo tale da non mettere a rischio i diritti umani.
L’imprenditore deve adottare una serie di cautele per evitare di essere ritenuto concorrente nei reati eventualmente commessi a seguito della sua attività, nello specifico a seguito della produzione e fornitura di armamenti. Occorre quindi individuare norme dotate di forza cogente la cui violazione possa fare “scattare” la responsabilità. Sorgono i primi problemi tecnici perché le Risoluzioni del Consiglio dei diritti umani non sono giuridicamente vincolanti, non hanno forza di legge in Italia e negli altri Paesi, indicando solo un indirizzo politico. In Italia esiste un Piano d’azione nazionale presentato il 15 dicembre 2016 dall’allora ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Il piano d’azione si estende sino al 2021 e contiene l’impegno del governo a favore dell’adozione di misure politiche e legislative a livello nazionale, regionale ed internazionale con il fine di garantire il rispetto dei diritti umani in tutte le attività di natura economica. Il Piano si sofferma specificamente sulle aziende produttrici ed esportatrici di armamenti e afferma che “l’Italia riconosce l’importanza di rispettare i diritti umani specialmente nelle aree di conflitto laddove la promozione dei diritti umani può infatti rappresentare uno strumento essenziale per garantire la pace e la sicurezza”.
Anche questo strumento, però, è privo di forza di legge essendo un mero documento governativo. Nella ricerca di una norma cogente troviamo un principio importante nell’articolo 41 della Carta costituzionale per cui l’attività economica non può essere condotta in contrasto con il conseguimento dei fini sociali o in modo tale da mettere in pericolo o violare i diritti e le libertà fondamentali e la sicurezza umana. Si introduce, così, il concetto di etica d’impresa.
L’articolo di Duarte e colleghi, dopo una dissertazione sui limiti del decreto legislativo 231 del 2001 sulla responsabilità degli enti, giunge a individuare una norma cui è possibile fare riferimento: il decreto legislativo 254/ 2016 in vigore dal 2017. Questo decreto, recependo una Direttiva dell’unione europea (95/2014), impone alle imprese di divulgare una dichiarazione non finanziaria che descriva il rispetto dei diritti umani, le misure adottate per prevenire le violazioni, nonché le azioni poste in essere per impedire azioni e atteggiamenti comunque discriminatori. Dall’obbligo di pubblicare i criteri seguiti per garantire il rispetto dei diritti umani discende inevitabilmente e logicamente il dovere delle imprese di rispettare tali diritti.
L’articolo ricorda che per tre anni consecutivi (2016, 2017, 2018) l’azienda Leonardo S.p.A. ha incluso nei suoi report annuali importanti considerazioni sulla situazione sociopolitica dei Paesi di interesse per le operazioni dell’azienda come ad esempio Arabia Saudita, Yemen, Siria e Turchia. Guarda caso: manca Israele.
L’articolo ricorda la definizione di Green Countries (Paesi verdi) cioè Paesi dove è possibile l’esportazione con una sicurezza garantita da tre fattori: l’appartenenza alla Nato, l’indice di percezione della corruzione e l’indice di democrazia. Seguendo questi criteri è ben difficile ritenere Israele un Green Country: non appartiene alla Nato anche se partecipa a operazioni militari congiunte ed aspira all’evidenza a diventarne il 31º membro; vari politici israeliani sono stati indagati per corruzione, da ultimo lo stesso Netanyahu e l’indice di democrazia non pare in Israele particolarmente elevato considerata la pratica di apartheid ma anche dal punto di vista formale- istituzionale dopo la promulgazione della Basic law del luglio 2018 sullo Stato nazione per soli ebrei. Per inciso non si può non rilevare come l’appartenenza di un Paese alla Nato dovrebbe essere un dato allarmante e non tranquillizzante viste le guerre poste in essere da questa coalizione.
Siamo giunti alla conclusione secondo cui esiste un vero e proprio obbligo di legge per le imprese di attenersi a criteri di produzione e di commercializzazione che favoriscano il rispetto dei diritti umani. La produzione e la commercializzazione di armamenti richiede però licenze ed autorizzazioni rilasciate dallo Stato. Inevitabile il quesito: il possesso di queste autorizzazioni esime l’imprenditore da ogni responsabilità? La risposta non può che essere negativa, salvo ammettere una inaccettabile deresponsabilizzazione di soggetti, come gli imprenditori, che hanno la possibilità di accedere a tutte le informazioni necessarie per valutare lo scenario nel quale va ad inserirsi il proprio prodotto. In altri termini, la valutazione dello Stato si aggiunge e non si sostituisce a quella delle impresa. A maggior ragione sussiste l’obbligo per l’imprenditore di una ulteriore personale verifica se, come si è detto, il Parlamento europeo ha più volte lamentato una sistematica violazione da parte degli Stati membri delle norme riguardanti l’esportazione di armi.
L’imprenditore, consapevole di questa sistematica violazione, come nel caso dell’Italia, non può fidarsi dello Stato ed affidarsi esclusivamente alla sua valutazione. Le fonti di informazione nel mondo attuale sono infinite: un convegno on line del 27 ottobre scorso sulla esportazione di armi usate in Yemen è iniziato con un filmato in cui alcuni yemeniti denunciano l’uccisione dei loro familiari e la distruzione delle loro case e mostrano il rinvenimento di residui di bombe con certezza riferibili alla RWM Italia. Da Gaza e dagli altri territori palestinesi occupati provengono quasi quotidianamente immagini di uccisioni individuali o di massa ed è il caso di ricordare che i primi aerei M346 furono forniti proprio mentre era in corso l’eccidio denominato Margine difensivo nel 2014, ampiamente documentato da filmati in rete.
Il principale obbligo dell’impresa è quindi quello di raccogliere informazioni sul conflitto in corso e in base a queste determinare le proprie scelte. Se c’è il rischio di utilizzo illegittimo degli armamenti va interrotta la fornitura. Questo obbligo è stato ricordato anche nel citato convegno on line quando una relatrice ha affermato che si deve interrompere l’esportazione anche se si è muniti di licenza di esportare. È fin troppo facile osservare che chi produce armi sa già che la destinazione più ovvia è solo negli scenari internazionali non essendovi conflitti in corso sul territorio nazionale.
Si possono trarre a questo punto delle conclusioni. L’attività di produzione di armi certamente non può definirsi neutra; tutti gli imprenditori hanno un obbligo di diligenza e per il settore degli armamenti è richiesto un coefficiente di diligenza maggiore; l’autorizzazione dello Stato non esime dall’obbligo di verifica individuale del singolo imprenditore e, in presenza di rischio di violazione del diritto umanitario, si impone la sospensione della fornitura ( è sufficiente il rischio, non occorre la certezza); in assenza della sospensione della fornitura subentra la responsabilità dell’imprenditore per concorso nei crimini commessi; subentra anche la responsabilità individuale del soggetto istituzionale che ha rilasciato l’autorizzazione nella consapevolezza dello scenario in cui va ad inserirsi l’armamento autorizzato.
La parola passa quindi alla magistratura; sinora, si è visto, con scarso esito. L’attività di indagine andrebbe a toccare un tema politico ed economico di grande rilievo. Un articolo del 29 settembre scorso intitolato “Armi. Esportazione con poca trasparenza” su Domani a firma di Francesca De Benedetti ricorda che l’Unione europea è la più grande fornitrice di armi al mondo dopo gli USA e mette in rilievo il ruolo svolto dall’ attività di lobbying delle aziende belliche europee per incrementare la disponibilità economica del “Fondo europeo della difesa”. Per inciso, anche quest’articolo che ricorda varie aree di conflitto, includendo giustamente l’Egitto per la repressione in corso nel Paese, si guarda bene dal citare Israele. Il ministro della Difesa Guerini ( quello che omaggia San Francesco facendo volare le frecce tricolori sulla basilica di Assisi) si è impegnato ad accrescere la spesa militare dell’Italia dagli attuali 26 a 36 miliardi annui. Le risorse destinate alla Difesa, afferma il ministro, rappresentano una leva strategica per l’economia del Paese.
E’ comprensibile il timore della magistratura a mettere mano in un simile contesto. Eppure, in passato, la magistratura ha accettato di occuparsi di fenomeni di grande rilevanza nazionale. In alcuni momenti della nostra storia recente si è giunti ad accusarla di svolgere un ruolo di supplenza (molti lo ritenevano un merito). Pensiamo agli anni dei processi contro le organizzazioni armate oppure agli anni di Tangentopoli con il pool di Mani pulite assurto a eroe nazionale. Invece, di fronte al fenomeno delle illegali esportazioni di armi e dell’ illegale rilascio delle autorizzazioni, sembra che la magistratura non voglia assumere questo ruolo e non brilli per curiosità investigativa: richiesta di archiviazione a Roma per RWM, archiviazione a Varese per Alenia Aermacchi. Anche il Tar Sardegna nel luglio 2020, chiamato ad esprimersi sulla attività della RWM ( sia pure in un ambito ridotto relativo alla creazione di due nuovi reparti adibiti alla miscelazione degli esplosivi), ha ritenuto legittima l’attività della RWM con un brutto passaggio secondo cui dovevano “restare estranei al giudizio le questioni ampiamente trattate nel ricorso riguardanti la condivisibilità morale o politica dell’attività svolta nello stabilimento (produzione industriale dell’esplosivo per uso bellico)” (pag. 13 sentenza).
Non vanno meglio le cose a livello internazionale. Davanti alla Corte penale internazionale è aperta un’indagine contro Israele ma si frappongono complesse questioni preliminari procedurali prima di poter entrare nel merito delle accuse: Israele non riconosce la giurisdizione della Corte non avendo sottoscritto il Trattato di Roma con cui è sorta la Corte penale internazionale, la Palestina non è uno Stato e siede all’Onu come semplice osservatore ed altre eccezioni. La Corte penale internazionale è stata spesso accusata di essersi occupata prevalentemente di esponenti politici africani cioè soggetti politicamente deboli nei rapporti di forza internazionali; nel caso, poi, dei Tribunali “ad hoc” ( quelli sorti su un singolo caso) si è detto che spesso hanno semplicemente apposto un sigillo giudiziario a vittorie militari e politiche già conseguite. Si veda il caso del Tribunale per la ex Jugoslavia con le sue condanne pressoché a senso unico nei confronti dei serbi.
La classica eccezione che conferma la regola è offerta dalla sentenza del 20 giugno 2019 dell’Alta Corte d’appello del Regno Unito che, ribaltando la sentenza di primo grado, ha ordinato al governo britannico di sospendere il rilascio di nuove licenze per vendite militari all’Arabia Saudita. Nel luglio 2020, però, sono riprese le vendite sul presupposto che le uccisioni di civili erano solo “incidenti isolati” e non una strategia deliberata. Nel caso di Israele non potrebbe neppure essere addotta questa argomentazione ( per altro risibile, come dimostra anche il filmato di cui si è detto) perché l’uccisione di civili palestinesi da parte dell’esercito di occupazione, della polizia e dei coloni fa parte di una strategia deliberata che mira al possesso esclusivo dell’intera Palestina storica. Ciononostante, il PM di Varese ha avuto l’ardire di usare il termine “episodi contingenti” per i periodici eccidi a Gaza con migliaia di civili uccisi o feriti. Significativa l’analogia dei due termini usati a Londra dal governo per giustificare la ripresa delle forniture dopo la sentenza ( “incidenti isolati”) e a Varese dal magistrato (“episodi contingenti”).
È giusto quindi sondare anche il terreno giudiziario e presentare denunce, sia pure nella consapevolezza dei limiti di questa attività, ma è fondamentale agire con iniziative politiche contro le aziende esportatrici di morte. Nel caso di Israele è necessario il boicottaggio, e non solo degli armamenti, come strumento di pressione perché questo Stato cessi le sue politiche di oppressione ed espulsione nei confronti del popolo palestinese, gli restituisca il territorio e i beni rubati, consenta il ritorno dei profughi che vorranno tornare e indennizzi gli altri e si trasformi in uno Stato veramente democratico così come falsamente preannunciato nella sua Dichiarazione di indipendenza.