Gaza. Report dal campo profughi di Al Shatti.

“Eppure loro, tra una mattanza e l’altra e guardando il cielo sempre con la paura che porti la morte inviata dall’assediante, seguitano a vivere e a sognare il giorno della libertà”.

artipatrizia

di Patrizia Cecconi,
Gaza, 11 febbraio 2016

Al Shatti camp detto anche Beach camp è uno dei campi profughi più grandi e più densamente abitati della Striscia di Gaza. In meno di 1 kmq risiedono oltre 87.000 persone.
E’ anche uno dei primi ad essere stati costruiti, vale a dire che i suoi abitanti sono in attesa di giustizia  da quasi 70 anni.  Quando venne costruito aveva, come tutti gli altri campi, l’illusione della provvisorietà e doveva accogliere circa 23.000 persone, cioè quelle costrette a fuggire o cacciate direttamente da Jaffa, Lod, Bersheva e tanti villaggi più o meno vicini, ma nel corso degli anni ai crimini che hanno portato alla fondazione dello stato di Israele se ne sono aggiunti altri e quindi altri rifugiati si sono aggiunti ai primi e, non potendo tornare alle loro case perché distrutte o confiscate da Israele, le loro dimore, sempre meno provvisorie  si sono riempite di bambini che nonostante le condizioni di grande povertà rappresentano la vita pulsante del popolo palestinese che si accresce e si rinnova.

Qui è nato anche Ismail Haniyeh, il primo ministro di Hamas che governa la Striscia e qui Haniyeh abita ancora, ma in una casa semplice, non in una villa, come nel caso di un parlamentare a Jabalia che non ha lasciato il campo, ma che per dimora ha una villa che, moralismi a parte, cozza un po’ troppo con le abitazioni standard e con la povertà di Jabalia camp.

Anche Al Shatti è un campo molto povero e sarebbe anche molto triste se gli abitanti non avessero deciso di verniciare le facciate delle case con  colori così brillanti che si vedono anche dal mare. Al Shatti, oltre alle case colorate, ha un’infinità di bambini curiosi all’inverosimile, più di tutti quelli incontrati finora. Ti vengono vicino, cominciano a farti domande, poi ti mostrano i gabbiani come se fossero un’esclusiva della loro costa.


O forse li considerano tali perché invidiano  il loro volo libero, perché i gabbiani non sono sotto assedio e Israele non spara loro se superano le tre miglia come fa invece con i pescatori padri e fratelli di questi bambini. Comunque, dopo aver mostrato i gabbiani, ogni cosa diventa occasione di domande, di strette di mano, di sorrisi e tutti fanno a gara a ripetere le poche frasi in inglese che conoscono dandoti così il loro benvenuto e, al tempo stesso, mostrando la grande curiosità per il mondo esterno che tu rappresenti e che per la maggior parte di loro resta un sogno, perché Israele li ha chiusi dentro una scatola di cui tiene illegittimamente le chiavi.

All’interno del campo, dove mi fermerò a mangiare per pochi centesimi di euro i falafel migliori di tutta la Palestina, in un caos  dove i carretti guidati da cavalli e asinelli  s’incrociano con  macchine private, services e trattori, tutto sembra normale, così come è normale essere invitati, solo perché si passa di  lì, a prendere il caffè al cardamomo che appare in ogni angolo in cui c’è vita sociale. Cioè quasi ovunque. E’ così normale, che uno dei simboli della cultura palestinese è proprio la caffettiera e la si ritrova spesso dipinta sui muri oppure esposta in forma monumentale al centro di qualche piazza, sia in questa parte della Palestina assediata da Israele, sia nella Cisgiordania occupata. E’ comunque cultura palestinese che si esprime in questo modo.

Nella visita al campo mi accompagna un amico nato nella Striscia e a sua volta figlio di profughi. Parla l’inglese e mi fa da interprete. E’ anche mio studente di italiano nel corso che tengo presso il Centro culturale Vittorio Arrigoni per conto della mia associazione, quella  cui abbiamo dato nome “Oltre il Mare” proprio ricordando le parole di Vittorio circa il Mediterraneo che ci separa e al tempo stesso ci unisce. E’ lui che chiede a un gruppo di uomini seduti in un salotto inventato tra la strada e il mare  – con l’immancabile fuoco su cui bolle l’acqua per il caffè – se posso far loro qualche domanda. Sono un po’ scettici. C’è una cosa nel mio viso che è fonte di sospetto: la carnagione molto chiara, io direi troppo chiara. Questa carnagione più volte, qui nella Striscia ha portato a farmi la domanda “you israeli?” perché gli israeliani, per chi ancora avesse qualche dubbio, non sono un popolo autoctono, ma una comunità religiosa diffusa nel mondo che ha deciso di chiamarsi popolo per legittimare l’occupazione di terra altrui  e che proviene in massima parte dall’Occidente, quindi la mia pelle ricorda loro quella di molti dei loro oppressori e sono costretta a esplicitare la mia nazionalità e il mio lavoro qui in Palestina per fugare ogni dubbio.

Una volta accolta in questa tenda-salotto sulle cui pareti di tessuto plastificato sono impressi i volti di alcuni giovani martiri, mi consentono di fare alcune domande, con mio stupore mi dicono che se Israele fosse costretto ad accogliere la proposta dei due stati riconoscendo il diritto al ritorno e Gerusalemme est capitale della Palestina il conflitto sarebbe risolto. Chi parla così non è un sostenitore di Fatah bensì di Hamas, ma in fondo già Meshal e anche Haniyeh si erano espressi così. Anche questo rompe l’immagine monolitica dell’Occidente circa le posizioni di Hamas.

Ma la cosa singolare che si verifica in questo incontro è che da intervistatrice divento presto intervistata perché loro vogliono sapere cosa dice il mondo della loro vita, e soprattutto cosa “sa” il mondo di loro. Mi chiedono se nel mio paese si sa che I’acqua di Gaza non si può bere perché è salata come quella del Mar Morto, mentre l’acqua oltre il muro, cioè quella che serve gli israeliani è potabile. Mi chiedono se nel “mio” mondo si sa  che Israele taglia loro la fornitura elettrica e impedisce loro di commerciare e di vivere del loro lavoro in modo dignitoso. Se si sa che spara ai pescatori indifesi che sopravvivono solo del poco pescato che riescono a portare a riva. Mi fanno tante domande che riguardano proprio quello che noi attivisti, tutti, cerchiamo di far sapere al nostro mondo al di qua del mare, ma poi me ne fanno una particolare. Una che è quasi commovente per il modo con cui viene espressa. Il signore che me la fa viene da Lydda, uno dei villaggi distrutti da Israele durante la Naqba.  Si chiama Abu Yussef e in un inglese molto simile al mio, con un tono che direi accorato, mi dice : “ma lo sanno loro che noi vogliamo la pace?”

Già, ma lo sa il mondo al di qua del mare che loro vogliono la pace e che sono vittime due volte? Poter entrare a Gaza e conoscerla dall’interno servirebbe a farlo sapere e a far cadere tanti pregiudizi, ma Gaza è sotto l’assedio israeliano ed entrare è talmente difficile che diventa quasi un privilegio.

In quanti sanno, solo per fare un esempio,  che in questo lembo di terra ci sono ben otto campi profughi, vale a dire otto spazi di meno di un kmq in cui vivono ammassati coloro che una volta avevano casa e terra in quello che con la forza delle armi e il sostegno occidentale è diventato lo Stato di Israele?  Quanti sanno che Israele, solo in questo campo ha demolito “in tempo di pace” 2000 rifugi senza doverne mai rendere conto a nessuno?

Eppure loro, tra una mattanza e l’altra e guardando il cielo sempre con la paura che porti la morte inviata dall’assediante, seguitano a vivere e a sognare il giorno della libertà.

E’ la voglia di conoscere la Gaza autentica, quella del quotidiano,  che mi ha portato a parlare con queste persone e che, casualmente, mi ha portato a  scoprire che la casa di Ismail Haniyeh, primo ministro di Hamas che governa la Striscia di Gaza, è accanto alle altre case, povere e colorate, che affacciano sul mare. Di fronte alla casa, seduti con aria più rilassata che non bellicosa, due giovani soldati col mitra poggiato sulle ginocchia. Sorridono, non hanno l’espressione caricaturale di altri giovani soldati abituali a far scendere i palestinesi dai bus ai check point. Questi due ragazzi mi chiedono di non fare foto alla casa che ho davanti e che solo per questo si distingue dalle altre, non essendo né particolarmente ricca né isolata da muri di protezione o da schiere di poliziotti che vietano il passaggio ai normali cittadini. Una casa normale!

Io non ho niente da spartire con un partito di ispirazione religiosa come Hamas, però devo dire che questo particolare mi ha colpito. Qui in Palestina, come altrove del resto, ho visto ville e palazzi del potere sparsi un po’ ovunque e spesso guardati da decine di militari. Mi colpisce, per contrasto, questa differenza di stile. Conoscendo un po’ la storia di Ismail Haniyeh e vedendo tutti quei bambini a El Shatti non mi è difficile immaginare che lui fosse come uno di loro quando usciva all’alba per la prima preghiera  accompagnando suo padre, muezzin poverissimo cacciato dalla sua casa ad Al Majdal, su cui poi sarebbe sorta la moderna Ashkelon ebrea.

Storie di Gaza e dei suoi personaggi, niente di più. Quelli che, istituzionali o meno, fanno parte della Gaza del quotidiano, quella distante anni luce dai pregiudizi che la mostrano come covo di feroci terroristi.

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