«Abu Mazen parla e parla, ma noi abbiamo le mani legate»

Palestina. La Cisgiordania non crede a Ramallah

Se gli ita­liani sono tutti com­mis­sari tec­nici, i pale­sti­nesi sono tutti primi mini­stri. Ognuno ha la sua opi­nione. Ma solo se si parla di Israele. Basta spo­stare il discorso sull’Autorità nazio­nale pale­sti­nese, sulla lea­der­ship del pre­si­dente Abu Mazen e la musica cam­bia. Si diventa più cauti.

Due giorni fa Abu Mazen ha par­lato davanti all’Assemblea gene­rale delle Nazioni unite, annun­ciando che i pale­sti­nesi non si sen­tono più legati agli accordi con Israele. In Cisgior­da­nia però pre­vale lo scet­ti­ci­smo sulle inten­zioni reali del pre­si­dente. Le rispo­ste si asso­mi­gliano un po’ tutte: il con­senso verso la lea­der­ship di Ramal­lah è ai minimi ter­mini. Lo è all’Università di Betlemme, dove anche mem­bri del movi­mento stu­den­te­sco vicino a Fatah cri­ti­cano il governo, lo è tra la gente del suq, ambu­lanti, con­ta­dini dei vil­laggi del gover­na­to­rato. Lo è anche tra chi lavora per l’Anp. Un con­senso tanto scarso che in tan­tis­simi non sape­vano nem­meno che Abu Mazen avrebbe par­lato, due giorni fa, all’Assemblea gene­rale delle Nazioni unite.

soldatipalestinesi

«Abu Mazen parla, parla, parla ma non agi­sce mai – ci spiega S. da un tavolo della caf­fet­te­ria dell’Università – [Gli israe­liani] ci ucci­dono ogni giorno, ci arre­stano ogni giorno. E la lea­der­ship? Niente. Il nostro san­gue è diven­tato nor­ma­lità. La sua è una stra­te­gia per­dente per noi e vin­cente per lui: va di pari passo con gli inte­ressi israe­liani e sta­tu­ni­tensi. Il suo obiet­tivo è mostrarsi il part­ner ideale per la pace, l’uomo giu­sto, così da garan­tirsi la posi­zione. Ma non rap­pre­senta nes­suno di noi: nem­meno chi lavora per l’Anp lo sostiene. Lo sanno tutti che è un’entità inu­tile e cor­rotta, che sta togliendo ogni spe­ranza di cam­bia­mento al popolo palestinese».

La que­stione la sol­le­vano tutti: a legare le mani ai pale­sti­nesi, che alle vio­lenze israe­liane e a quelle interne non rea­gi­scono, sono le con­di­zioni eco­no­mi­che. Un neo­li­be­ri­smo sel­vag­gio che ha reso molte fami­glie schiave di ban­che e salari bassi. Alle poli­ti­che eco­no­mi­che di Ramal­lah si aggiunge il pugno di ferro dei ser­vizi segreti e la sicu­rezza pale­sti­nese: arre­sti, tor­ture in pri­gione, con­trollo dei media e dei social network.

«Durante le lezioni qui all’università, molti pro­fes­sori evi­tano di par­lare di poli­tica interna – dice una ragazza, M. – E cen­su­rano noi stu­denti. Io vivo nel campo di Dhei­sheh: i ser­vizi segreti pale­sti­nesi entrano spesso. E ci attac­cano, come suc­cesso qual­che giorno fa durante una mani­fe­sta­zione vicino al muro. Eppure sono nostri fratelli».

Tante cri­ti­che, tanta rab­bia, spec­chio di un calo di con­senso forte verso Ramal­lah che non è solo pro­prio di chi sostiene o sim­pa­tizza per fazioni avver­sa­rie a Fatah. Il mal­con­tento è forte anche den­tro il par­tito del pre­si­dente. Per qual­cuno il pro­blema è la man­canza di rap­pre­sen­ta­ti­vità, come spiega Saher Kheir, del movi­mento stu­den­te­sco legato a Fatah: «L’Anp rap­pre­senta solo una minima parte del popolo pale­sti­nese, non certo la stra­grande mag­gio­ranza, chi non ci lavora, i con­ta­dini, o chi fa fatica a met­tere insieme un sala­rio». E allora, chie­diamo, per­ché non c’è rea­zione? «Qui fun­ziona come in ogni altra parte del mondo – dice B. A, die­tro il suo car­retto di mais bol­lito – L’Anp è fatta da pale­sti­nesi. Come lo era l’Olp. L’Anp non arriva da Marte, ma è parte del popolo pale­sti­nese, è un suo pro­dotto. Per cam­biarla dob­biamo cam­biare la nostra men­ta­lità. Tor­nare alla cul­tura poli­tica che soprat­tutto tra i gio­vani non esi­ste più. Siamo stati pri­vati di una visione, teo­rica e concreta».

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